Sentenza n. 447/97

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SENTENZA N.447

 

ANNO 1997

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI

- Prof.    Francesco GUIZZI   

- Prof.    Cesare MIRABELLI

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO 

- Avv.    Massimo VARI         

- Dott.   Cesare RUPERTO    

- Dott.   Riccardo CHIEPPA  

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY  

- Prof.    Valerio ONIDA        

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE         

- Avv.    Fernanda CONTRI   

- Prof.    Guido NEPPI MODONA    

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 34-bis, comma 5, della legge della Regione Siciliana 29 aprile 1985, n. 21 (Norme per l'esecuzione dei lavori pubblici in Sicilia), nel testo introdotto dall'art. 48 della legge regionale 12 gennaio 1993, n. 10 (Nuove norme in materia di lavori pubblici e di forniture di beni e servizi, nonché modifiche ed integrazioni della legislazione del settore), promosso con ordinanza emessa il 7 dicembre 1995 dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sezione staccata di Catania, iscritta al n. 1179 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell'anno 1996.

Visto l'atto di intervento della Regione Siciliana;

udito nella camera di consiglio del 4 giugno 1997 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte.

Ritenuto in fatto

 

1. Il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sezione staccata di Catania - adito da una impresa esclusa dalla partecipazione ad un appalto concorso, da espletarsi con il sistema di cui all'art. 73, lettera c), del regio decreto 23 maggio 1924, n. 827 (Regolamento per l'amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato), secondo la procedura prevista dallo schema di bando-tipo predisposto dall'Assessore ai lavori pubblici della Regione Siciliana, nella interpretazione ad esso data dalla sezione centrale del Comitato regionale di controllo con decisione n. 12549 del 28 settembre 1995, perché la domanda di partecipazione era stata inoltrata con un plico al quale era allegata la ricevuta di posta celere con la indicazione del mittente - dopo aver disposto la sospensione della esecuzione del provvedimento impugnato fino alla restituzione degli atti da parte della Corte costituzionale, con ordinanza emessa il 7 dicembre 1995 e depositata il 17 giugno 1996 ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 97, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 34-bis, comma 5, della legge della Regione Siciliana 29 aprile 1985, n. 21 (Norme per l'esecuzione dei lavori pubblici in Sicilia), nel testo introdotto dall'art. 48 della legge della Regione Siciliana 12 gennaio 1993, n. 10 (Nuove norme in materia di lavori pubblici e di forniture di beni e servizi, nonché modifiche ed integrazioni della legislazione del settore), nella parte in cui dispone il divieto di inserimento nei bandi di gara di qualsiasi clausola che preveda modalità che possano comportare il riconoscimento preventivo dei partecipanti alle gare di appalto, anche nella fase di presentazione delle offerte.

La disposizione oggetto della questione testualmente prescrive: "E' vietato l'inserimento nei bandi di gara di qualsiasi clausola che richieda certificazioni di presa visione del progetto da parte dei partecipanti o comunque preveda modalità che possano comportare il riconoscimento preventivo dei partecipanti alla gara". Il giudice a quo rileva che questa disposizione e le altre miranti a garantire la segretezza sulle imprese che partecipano a gare di appalto o che ad esse siano comunque interessate, quali quelle di cui agli artt. 43-bis e 40 della medesima legge n. 21 del 1985, nel testo introdotto, rispettivamente, dagli artt. 16 e 36 della legge n. 10 del 1993 (accesso alle informazioni; possibilità di presentare le offerte fino ad un'ora prima della gara),pur se inserite in una legge che disciplina gli appalti per i lavori pubblici, contengono tuttavia principî applicabili anche agli appalti di forniture e servizi, quale quello oggetto del giudizio principale.

L'art. 34-bis, comma 5, sarebbe però, ad avviso del tribunale rimettente, irrazionale e ingiustificato e quindi illegittimo, per violazione dei principî di ragionevolezza e di buon andamento della pubblica amministrazione sanciti dagli artt. 3 e 97 della Costituzione.

La formulazione dell'articolo censurato parrebbe, innanzitutto, contrastante con altre disposizioni contenute nella medesima legge e, segnatamente, con quella di cui all'art. 40, comma 2, che consente la consegna delle offerte, fino ad un'ora prima di quella stabilita per le operazioni di gara, con qualsiasi mezzo e quindi anche per mezzo di persone di fiducia della impresa partecipante alla gara. Se, infatti, si intendesse il divieto in essa contenuto in senso assoluto (e la formulazione dell'art. 34-bis, comma 5, non consentirebbe, ad avviso del remittente, interpretazioni diverse), non solo non dovrebbe ritenersi permessa la indicazione del mittente, ma non dovrebbe neanche ammettersi la consegna dei plichi tramite dipendenti delle imprese interessate, poiché anche in questo caso l'identità dei latori del plico potrebbe consentire l'individuazione preventiva dei partecipanti.

La disposizione impugnata, secondo il giudice a quo, sarebbe irrazionale anche sotto altro profilo: tenuto conto, infatti, della contiguità temporale tra la presentazione delle offerte e lo svolgimento della gara, la conoscenza delle imprese partecipanti acquisita tramite l'indicazione del mittente perderebbe qualsiasi rilevanza ai fini del corretto svolgimento della procedura di scelta del privato contraente, anche perché, in base all'art. 40, comma 3, della legge regionale n. 21 del 1985, eventuali dichiarazioni di ritiro delle offerte già presentate sarebbero inefficaci.

Quanto alla rilevanza della questione, il giudice remittente rileva che la sorte del ricorso sottoposto alla sua cognizione risulta indissolubilmente legata all'esito del giudizio di costituzionalità sulla disposizione censurata. La rilevanza della questione, inoltre, non sarebbe esclusa dalla modifica della disposizione impugnata intervenuta ad opera della legge regionale 8 gennaio 1996, n. 4 (Norme transitorie per l'accelerazione delle procedure nel settore dei lavori pubblici. Disposizioni varie in materia di lavori pubblici), che, all'art. 8, ha modificato il comma 5 dell'art. 34-bis della legge regionale n. 21 del 1985, sostituendo le parole "che possano comportare" con le parole "che comportino necessariamente": l'innovazione legislativa, infatti, non avrebbe mutato i termini della questione prospettata. Il giudice a quo, anzi, rappresenta la opportunità che, ove la Corte ritenga fondata la questione, si pronunci ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, anche nei confronti di tale ulteriore disposizione legislativa.

2. Si è costituito in giudizio il Presidente della Regione Siciliana, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la Corte dichiari l'inammissibilità o, comunque, l'infondatezza della questione prospettata.

In primo luogo l'Avvocatura rileva che non sarebbe condivisibile la considerazione preliminare del giudice a quo, in base alla quale le norme richiamate, sebbene dettate per gli appalti di lavori pubblici, avrebbero, per loro natura, portata generale e sarebbero perciò applicabili anche agli appalti di servizi e forniture.

L'Avvocatura sottolinea come la disciplina degli appalti di forniture di beni e servizi sia contenuta in un apposito capo (il capo X) della legge regionale n. 10 del 1993. Il comma 1 dell'art. 65, compreso in tale capo, estende la disciplina comunitaria, alla quale l'Italia ha dato attuazione con il decreto legislativo 24 luglio 1992, n. 358 (Testo unico delle disposizioni in materia di appalti pubblici di forniture, in attuazione delle direttive 77/62/CEE, 80/767/CEE e 88/295/CEE), agli appalti di forniture con valore minimo, IVA esclusa, di 130 mila ECU. Il comma 6 dello stesso articolo stabilisce invece che "per gli appalti di fornitura di beni non compresi fra quelli di cui al comma 1, restano immutati i procedimenti, le modalità e le competenze previsti dalle norme concernenti i contratti dei singoli enti".

Nel caso di specie, trattandosi di un appalto per un importo di circa 18 milioni di lire, secondo l'Avvocatura si sarebbero dovute applicare le norme concernenti i contratti del Comune di Maniace, che ha indetto il pubblico incanto, e non le norme che disciplinano gli appalti di lavori pubblici. Conseguentemente la questione di legittimità costituzionale prospettata sarebbe irrilevante ai fini della decisione del giudizio a quo e dovrebbe essere dichiarata inammissibile.

In secondo luogo, l'Avvocatura osserva che non può in alcun modo condividersi l'affermazione del giudice a quo, secondo la quale la disposizione censurata avrebbe una eccessiva dilatazione, fino a ricomprendere in essa anche il divieto che sui plichi contenenti le offerte appaiano i nominativi delle imprese mittenti, e sarebbe perciò irrazionale e ingiustificata.

Il giudice a quo trascurerebbe di considerare che, nella legislazione siciliana sui lavori pubblici, l'unica modalità di gara ammessa sarebbe l'asta pubblica, nella quale non si potrebbe scindere una fase di presentazione delle offerte rispetto ad un'altra fase, ad essa precedente, di prequalificazione o altro, cui unicamente si attaglierebbero i divieti in questione. Nella procedura di asta pubblica, ad avviso dell'Avvocatura, la fase di presentazione dell'offerta comprenderebbe "tutto il tempo che intercorre tra la pubblicazione del bando e la seduta di apertura dei plichi". Pertanto, al fine di raggiungere il risultato della segretezza, i divieti in questione non potrebbero non "dilatarsi" a tutto il predetto periodo, mentre risulterebbe vano, e comunque arbitrario, volerli limitare alla sola attività di accesso ai documenti di gara e alla relativa certificazione.

In definitiva, la disposizione censurata, secondo l'Avvocatura, sarebbe perfettamente razionale e intesa ad assicurare il buon andamento delle pubbliche amministrazioni locali "in situazioni obiettivamente difficili dal punto di vista dell'ambiente sociale e criminale".

Considerato in diritto

 

1. Il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sezione staccata di Catania, dubita della legittimità costituzionale dell'art. 34-bis, comma 5, della legge della Regione Siciliana 29 aprile 1985, n. 21, nel testo introdotto dall'art. 48 della legge regionale 12 gennaio 1993, n. 10, nella parte in cui dispone il divieto di inserimento nei bandi di gara di qualsiasi clausola che preveda modalità che possano comportare il riconoscimento preventivo dei partecipanti alle gare di appalto, anche nella fase di presentazione delle offerte.

A giudizio del tribunale rimettente, la disposizione impugnata contrasterebbe con il principio di ragionevolezza e con quello di buon andamento della pubblica amministrazione, di cui agli artt. 3, primo comma, e 97, primo comma, della Costituzione, in quanto prescriverebbe regole che finirebbero col complicare, senza alcuna obiettiva utilità, la partecipazione alle gare finalizzate alla assegnazione di appalti. Dalla applicazione della norma, infatti, discenderebbe l'impossibilità di presentare le offerte a mezzo del servizio postale con avviso di ricevimento, ovvero a mezzo di persone espressamente incaricate, dal momento che la indicazione del mittente ovvero la identificazione dei latori del plico potrebbe consentire l'individuazione della impresa partecipante. Tenuto conto della possibilità, prevista dall'art. 40, comma 2, della legge regionale, che le domande di partecipazione siano presentate fino ad un'ora prima, la contiguità temporale tra la presentazione delle offerte e lo svolgimento della gara farebbe invece perdere, ad avviso del giudice a quo, qualsiasi rilievo, ai fini del corretto svolgimento della procedura di scelta del privato contraente, alla eventuale riconoscibilità dei partecipanti; e ciò tanto più in quanto, secondo l'art. 40, comma 3, della stessa legge regionale n. 21 del 1985, nel testo introdotto dall'art. 36 della legge regionale n. 10 del 1993, eventuali dichiarazioni di ritiro delle offerte già presentate vanno considerate inefficaci.

Il giudice a quo precisa poi che la disposizione impugnata è stata modificata, quando la redazione dell'ordinanza di rimessione era già in corso, dall'art. 8 della legge regionale 8 gennaio 1996, n. 4, il quale ha sostituito le parole "che possano comportare" con le parole "che comportino necessariamente" e, sottolineata la permanenza della rilevanza della questione, sollecita una pronuncia di illegittimità costituzionale anche di tale ultima disposizione, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87.

2. Secondo l'Avvocatura, la questione avrebbe ad oggetto una disposizione non applicabile nel giudizio a quo, nel quale si controverte della legittimità del provvedimento di esclusione di un concorrente da un appalto per la fornitura di servizi, mentre la disposizione censurata riguarderebbe solo gli appalti di lavori pubblici. Conseguentemente, ad avviso dell'Avvocatura, posto che la legge regionale n. 10 del 1993, all'art. 65, stabilisce che per gli appalti di fornitura di beni e servizi il cui valore sia inferiore a 130 mila ECU, restano immutati i procedimenti, le modalità e le competenze previsti dalle norme concernenti i contratti dei singoli enti, l'ente locale che ha bandito la gara, avendo l'appalto un valore di circa 18 milioni di lire, avrebbe dovuto applicare le norme che disciplinano la propria attività contrattuale e non quelle che regolano gli appalti di lavori pubblici.

L'eccezione non è fondata. Nell'indire la gara, l'ente appaltante ha espressamente previsto che essa sarebbe stata esperita con il sistema di cui all'art. 73, lettera c), del r.d. 2 maggio 1924, n. 827, e ha comunque disciplinato la procedura facendo applicazione dello schema di bando-tipo predisposto dall'Assessore ai lavori pubblici della Regione Siciliana, ai sensi dell'art. 34-bis della legge regionale n. 21 del 1985, introdotto dall'art. 48 della legge regionale n. 10 del 1993, nella interpretazione resa dal Comitato regionale di controllo, sezione centrale, con decisione n. 12549 del 28 settembre 1995. In altri termini, poiché l'amministrazione appaltante ha regolato la gara sulla base della normativa procedimentale contenuta, tra l'altro, nella disposizione censurata, la questione è senz'altro rilevante nel giudizio a quo; in questo si deve infatti valutare la conformità al bando di un provvedimento di esclusione dalla gara; in via mediata, si deve accertare la legittimità del bando e, quindi, della disposizione sulla quale esso, per l'aspetto specificamente dedotto nel giudizio principale, si fonda.

3. Nel merito, la questione non è fondata, nei sensi di seguito indicati.

La disposizione censurata stabilisce che "è vietato l'inserimento nei bandi di gara di qualsiasi clausola che richieda certificazioni di presa visione del progetto da parte dei partecipanti o comunque preveda modalità che possano comportare il riconoscimento preventivo dei partecipanti alla gara".

Dai lavori preparatori emerge con chiarezza che la legge regionale n. 10 del 1993 è finalizzata ad assicurare la massima segretezza circa i soggetti intenzionati a partecipare a gare di asta pubblica in un contesto, quale quello siciliano, caratterizzato dalla diffusa presenza della criminalità organizzata anche nel settore dei lavori pubblici (v., in particolare, le sedute dell'Assemblea regionale siciliana del 25 novembre e del 16 dicembre 1992); tale finalità, come questa Corte ha riconosciuto, abilita il legislatore a porre particolari restrizioni proprio in materia di appalti della pubblica amministrazione (sentenza n. 281 del 1987), ovvero a stabilire controlli intesi a prevenire l'infiltrazione e l'influenza della criminalità organizzata nello svolgimento delle attività dell'amministrazione pubblica (sentenza n. 191 del 1994).

Ma, diversamente da quanto ritiene il giudice a quo, la legge regionale non impone che per i funzionari dell'amministrazione che ha indetto la gara, incaricati della ricezione delle domande, debba rimanere segreta la persona dell'offerente. Se così fosse il dubbio di legittimità costituzionale avanzato dal giudice remittente apparrebbe fondato: il principio di buon andamento della pubblica amministrazione sarebbe violato; ne risulterebbe infatti pregiudicato l'interesse pubblico a che alla gara partecipi il maggior numero possibile di concorrenti, posti, da un lato, la estrema difficoltà di individuare modalità di partecipazione alla gara che assicurino in modo assoluto l'anonimato, e, dall'altro, il diritto di ciascun concorrente di poter dimostrare l'avvenuta presentazione dell'offerta.

4. L'interpretazione della disposizione impugnata proposta dal giudice a quo non è, però, l'unica possibile: alla stessa, sulla base del sistema normativo vigente, può e deve essere attribuito un significato diverso, tale comunque da assicurare adeguata tutela all'interesse pubblico perseguito.

Va rilevato che nella stessa legge regionale n. 10 del 1993 è contenuta anche una disciplina dell'accesso alle informazioni in materia di pubblici appalti: l'art. 43-bis della legge regionale 29 aprile 1985, n. 21, introdotto appunto dall'art. 16 della legge regionale 12 gennaio 1993, n. 10, dispone, al comma 2, che "qualunque sia il procedimento adottato per l'affidamento dei lavori, è fatto tassativo divieto all'ente appaltante [ ...] di comunicare a terzi o di rendere in qualsiasi altro modo noto, prima dell'apertura delle operazioni di gara, quali siano le imprese che vi partecipano, o che hanno fatto richiesta di invito o di informazione sui dati [ ...] o che in altro modo hanno segnalato il proprio interesse a prendere parte alla gara", stabilendo altresì che "la violazione del divieto, impregiudicate le eventuali sanzioni penali, comporta l'annullamento della gara di appalto, l'apertura di un procedimento disciplinare a carico del pubblico dipendente e la decadenza dalla carica per il componente dell'Ufficio regionale per i pubblici appalti".

Dalla disposizione ora ricordata - la quale trova riscontro nell'art. 22 della legge quadro in materia di lavori pubblici 11 febbraio 1994, n. 109, che prevede espressamente la punibilità, ai sensi dell'art. 326 cod. pen., dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio che violino l'obbligo di segretezza, tra l'altro, circa i soggetti che hanno presentato offerte nel caso di pubblici incanti, prima della scadenza del termine per la presentazione delle medesime - emerge in modo evidente come l'interesse pubblico alla segretezza del procedimento inerisca, oltre che al contenuto delle offerte, ad un ambito diverso dal rapporto tra i partecipanti alla gara e l'amministrazione che quella gara ha indetto. L'obbligo della segretezza e il conseguente divieto di fornire notizie che consentano la individuazione dei soggetti che partecipano ad una gara, invero, grava su quanti, per ragioni del loro ufficio, abbiano conoscenza dell'identità delle imprese offerenti; tale obbligo non può spingersi, poiché altrimenti ne resterebbe pregiudicato l'interesse pubblico all'effettività del concorso, all'estremo limite di postulare l'assoluto anonimato della presentazione delle offerte. Una volta che il soggetto interessato abbia presentato, secondo le regole previste, la propria domanda di partecipazione alla gara, eventualmente acquisendo la prova del ricevimento di essa da parte dell'amministrazione, il divieto di comunicazione o di divulgazione dell'avvenuta presentazione dell'offerta fa capo ai soggetti dell'amministrazione che ne siano a conoscenza.

La disposizione censurata, impedendo l'inserimento nei bandi di gara di clausole che comportino il riconoscimento dei partecipanti alle gare stesse, tende a rafforzare, per le finalità di prevenzione di cui si è detto, il divieto che incombe sull'ente appaltante e sui suoi impiegati di rivelare l'identità dei partecipanti alle gare, ma non a precludere all'amministrazione, come ritenuto dal giudice a quo, la conoscenza di tale identità.

Nei sensi ora indicati, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 34-bis, comma 5, della legge della Regione Siciliana 29 aprile 1985, n. 21, introdotto dall'art. 48 della legge regionale 12 gennaio 1993, n. 10 (e successivamente modificato dall'art. 8 della legge regionale 8 gennaio 1996, n. 4), è infondata.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 34-bis, comma 5, della legge della Regione Siciliana 29 aprile 1985, n. 21 (Norme per l'esecuzione di lavori pubblici in Sicilia), introdotto dall'art. 48 della legge regionale 12 gennaio 1993, n. 10 (Nuove norme in materia di lavori pubblici e di forniture di beni e servizi, nonché modifiche ed integrazioni della legislazione del settore), sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 97, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sezione staccata di Catania, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 dicembre 1997.

Presidente: Renato GRANATA

Redattore: Carlo MEZZANOTTE

Depositata in cancelleria il 30 dicembre 1997.