Sentenza n.281 del 1987

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SENTENZA N. 281

ANNO 1987

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici

Prof. Virgilio ANDRIOLI , Presidente

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Prof. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco P. CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 21 della legge 13 settembre 1982, n. 646 (disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia) cosi come modificata dalla legge 12 ottobre 1982, n. 726 (conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 6 settembre 1982, n. 629, recante misure urgenti per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa), promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 27 marzo 1984 dal Pretore di Foggia nel procedimento penale a carico di Piemontese Francesco Paolo ed altro iscritta al n. 947 del registro ordinanze 1984 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 335 dell'anno 1984;

2) ordinanza emessa il 23 gennaio 1986 dal Pretore di Maglie nel procedimento penale a carico di Rendo Ugo ed altri iscritta al n. 328 del registro ordinanze 1986 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37 prima serie speciale dell'anno 1986;

3) ordinanza emessa il 16 aprile 1986 dal Pretore di Male' nel procedimento penale a carico di Duches Mario ed altri iscritta al n. 615 del registro ordinanze 1986 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52 prima serie speciale dell'anno 1986;

4) ordinanza emessa il 24 ottobre 1986 dal Pretore di Cles nel procedimento penale a carico di Duches Mario ed altri iscritta al n. 36 del registro ordinanze 1987 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12 prima serie speciale dell'anno 1987;

Visti gli atti di intervento del presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nell'udienza pubblica del 3 giugno 1987 il Giudice relatore Ettore Gallo;

Udito l'Avvocato dello Stato Aldo Linguiti per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Chiamato a giudicare di un caso di subappalto abusivo di opere commissionate dalla pubblica amministrazione, il Pretore di Foggia, con ordinanza 27 marzo 1984, sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 21, primo co., della legge 13 settembre 1982, n. 646, cosi come sostituito dall'art. 1 della legge 12 ottobre 1982, n. 726, in riferimento all'art. 3 della Costituzione.

Più precisamente il Pretore denunziava la normativa ricordata nella parte in cui prevede, per il subappaltatore, o per l'affidatario del cottimo, senza autorizzazione, una pena pecuniaria, congiunta a quella detentiva, pari ad un terzo del valore complessivo dell'opera che la pubblica amministrazione aveva affidata in appalto.

Secondo il giudice a quo, applicare l'art. 21 predetto anche al subappaltatore, o all'affidatario di un cottimo, di una modesta parte delle opere appaltate, porta a determinare la pena dell'ammenda in una misura che potrebbe risultare anche notevolmente superiore allo stesso valore dei lavori eseguiti dal subappaltatore o affidatario del cottimo. Si avrebbe cosi l'equiparazione, ai fini della pena, di due soggetti, l'appaltatore ed il subappaltatore o affidatario del cottimo, che non troverebbe alcuna giustificazione ne logica ne giuridica, e che sarebbe contraria al principio di eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge sancito dall'art. 3, primo comma, della Costituzione.

Fra l'altro la pena pecuniaria verrebbe quantificata con riferimento ad un dato normalmente sconosciuto al subappaltatore o affidatario del cottimo e che, tenuto conto della diversa posizione, anche economica, tra appaltatore e subappaltatore, o affidatario del cottimo, porterebbe ad applicare a questi ultimi una sanzione notevolmente piu afflittiva rispetto a quella riguardante l'appaltatore.

Secondo il giudice rimettente, poi, le norme impugnate non terrebbero conto che il comportamento del subappaltatore potrebbe essere, in ipotesi, anche soltanto colposo, mentre quello dell'appaltatore non potrebbe che essere esclusivamente doloso.

La responsabilità del subappaltatore (o affidatario del cottimo) potrebbe, infatti, consistere soltanto nell'omissione della dovuta diligenza nell' assicurarsi che l'appaltatore fosse munito dell'autorizzazione al subappalto da parte dell'autorità competente.

In tal caso - ad avviso del Pretore - si avrebbe l'applicazione di una stessa sanzione a due comportamenti penalmente rilevanti di diversa gravità, in quanto concernenti due forme diverse di colpevolezza, con conseguente violazione della c.d. proporzionalità della pena al reato commesso.

La rilevanza della questione  in re ipsa trattandosi di giudizio penale riguardante anche un imputato subappaltatore.

2. - Analoga questione di legittimità costituzionale veniva sollevata dal pretore di Maglie con ordinanza 23 gennaio 1986, dal pretore di Male', con ordinanza 16 aprile 1986, e dal pretore di Cles, con ordinanza 24 ottobre 1986.

Il Pretore di Maglie, tuttavia, faceva riferimento, oltre che all'art. 3 Cost., anche all'art. 41, sotto l'asserito riflesso che una gravissima sanzione pecuniaria nei confronti del più debole contraente potrebbe portare l'impresa all'estinzione, con ritenuta conseguente violazione del principio di liberta della privata iniziativa.

Tutte le ordinanze sono state debitamente notificate, comunicate e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale.

3. - Dinanzi alla Corte Costituzionale  intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, per chiedere che la questione sia dichiarata non fondata.

Infatti, secondo l'Avvocatura, le censure mosse dal giudice a quo non tengono conto della sostanziale assimilabilita dei comportamenti dei soggetti destinatari della norma - per lo meno sotto il profilo di analoga potenzialità offensiva - nei confronti dell'interesse che la disposizione intende tutelare.

Nel campo degli appalti di opere pubbliche si verifica di frequente l'affidamento dei lavori in subappalto, e da ciò il legislatore  stato indotto ad attribuire rilevanza penale alle disposizioni recentemente elaborate per scongiurare le infiltrazioni mafiose nel settore.

Al riguardo, infatti, ci si trova di fronte ad un approfondimento della tematica operato dallo stesso legislatore che, nell'originaria formulazione dell'art. 21 della legge n. 646 del 1982, configurava la concessione del subappalto e del cottimo, senza autorizzazione dell'autorità competente, come semplice illecito amministrativo.

La potenziale insidiosità del comportamento del subappaltatore, allorché si tratti di soggetto mafioso che nel rapporto subcontrattuale di specie risulta il contraente più forte per le pressioni ed intimidazioni che è capace di esercitare, ha senz'altro influito a qualificare, come elemento della fattispecie di reato, una situazione quale quella del subappalto posto in essere senza la citata autorizzazione.

Nel riscontro pratico il comportamento del subappaltatore può presentare un disvalore sociale addirittura più marcato rispetto a quello dell'appaltatore, di talché può ben dirsi che l'equiparazione quoad poenam dei comportamenti dei due soggetti non riveste il carattere di arbitrarietà lamentato dal giudice a quo.

D'altronde, anche l'ulteriore rilievo operato dal pretore circa una presunta, attenuata partecipazione psichica del subappaltatore, nella commissione del reato, risulta destituito di fondamento ad una riflessione più attenta.

Difatti, il subappaltatore è, a sua volta, destinatario della norma dell'art. 21 in quanto anche a lui si riconnettono gli effetti negativi conseguenti al rapporto instaurato senza la prevista autorizzazione; pertanto, il mancato controllo da parte sua, in ordine alla sussistenza del accennato requisito di legittimazione, può inquadrarsi in una volontaria obliterazione della norma stessa, con assunzione dei conseguenti rischi.

è appena il caso di aggiungere poi che il giudice, nella definizione in concreto delle fattispecie, non è privo degli strumenti che l'ordinamento processuale penale gli mette a disposizione per una corretta applicazione della sanzione. Egli, infatti, può tenere conto della diversa gravità degli illeciti sottoposti al suo giudizio, riconoscendo - se del caso - attenuanti generiche, e muovendosi, nell'ambito della sanzione detentiva, tra il minimo ed il massimo edittale.

L'Avvocatura dello Stato, peraltro, non esclude che, nell'interpetrazione giurisprudenziale, possa anche affermarsi una linea esegetica che, limitatamente alla pena pecuniaria, attribuisca alla locuzione "stesse pene", un riferimento alla tipologia e non alla entità della sanzione.

In tal caso, questa potrebbe essere commisurata in relazione a quel tanto di opera appaltata effettivamente trasmesso al subappaltatore.

Considerato in diritto

1. - Le ordinanze impugnano tutte la stessa norma, con riferimento ad un comune parametro costituzionale; salvo l'ordinanza del Pretore di Maglie che si riferisce anche all'art. 4 Cost. Gli incidenti possono, comunque, essere riuniti e risolti con unica sentenza.

2. - Non è esatto innanzitutto che l'equiparazione delle pene, comminata dall'articolo impugnato a due diversi soggetti, non trovi giustificazione né logica né giuridica.

La giustificazione logica risiede manifestamente nella considerazione secondo cui, trattandosi di fattispecie plurisoggettiva necessaria, e per di più bilaterale o reciproca, correttamente il legislatore pone i due agenti sullo stesso piano. Il concorrente necessario, infatti, specialmente nelle fattispecie reciproche, mentre viola per suo conto un precetto che anche a lui è diretto, concorre contestualmente nell'antigiuridico comportamento dell'altro soggetto. L'illecito, pertanto, è necessariamente integrato da un'unica fisionomia contenutistica scaturente dal concorso delle due condotte e dall'incontro delle due volontà colpevoli, in guisa che non appare per nulla illogica la sottoposizione dei due alla medesima pena.

Tutto questo, d'altra parte, è confortato da considerazioni ancor più strettamente giuridiche perché attinenti alla ratio della disposizione.

Non va dimenticato, infatti, che l'articolo 21 impugnato prevedeva originariamente, nella prima versione della l. 13 settembre 1982 n. 646, una semplice sanzione pecuniaria (benché dello stesso ammontare dell'attuale ammenda) comminata all'appaltatore: al pagamento della quale, per, il subappaltatore era tenuto in via solidale. Fu soltanto con la conversione in legge, con modificazioni, del d.l. 6 settembre 1982 n. 629, concernente misure urgenti per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa (conversione avvenuta ad opera della l. 12 ottobre 1982 n. 726), che si provvide alla sostituzione del primo co. dell'art. 21.

Secondo un non commendevole uso invalso, in realtà non si è trattato di una modificazione del decreto legge che veniva convertito, ma di una vera e propria aggiunta che modificava in modo sostanziale una legge diversa e successiva al decreto.

Infatti, da semplice illecito amministrativo la fattispecie veniva tramutata in illecito penale, sia pure contravvenzionale, e alla sanzione pecuniaria veniva aggiunta una non irrisoria pena detentiva. Il subappaltatore veniva sottoposto alle stesse pene, cosi come prima era solidale nel pagamento della sanzione pecuniaria.

Non può esservi dubbio che la preoccupazione che ha ispirato siffatte gravi modificazioni sia stata quella di combattere in ogni modo le infiltrazioni del fenomeno di tipo mafioso negli appalti della pubblica amministrazione. Inserimenti che, da una parte, potevano essere connessi ad episodi di corruzione, di peculato e di concussione di pubblici ufficiali anche amministratori e, dall'altra, inducevano sul mercato alterazioni, prevaricazioni, e violenze che pregiudicavano la pubblica economia di vaste zone del Paese.

Sotto tale prospettiva, anzi (con ciò rispondendo anche ad altro rilievo dell'ordinanza), non è nemmeno vero che il subappaltatore sia sempre il contraente economicamente più debole. In realtà, è caratteristica saliente dell'infiltrazione mafiosa che, per eludere questo ed altri divieti, si faccia concorrere all'appalto un prestanome immune da precedenti, mentre poi è il subappaltatore l'effettivo titolare dell'intera commessa. Quando addirittura l'autentico vincitore dell'appalto non sia costretto al subappalto da pesanti intimidazioni di tipo mafioso. Nemmeno il modesto valore del subappalto potrebbe essere indicativo, di per se, di una diversa natura del negozio, dato che altro espediente usato per dissipare i sospetti è proprio quello di spezzettare l'appalto in piccoli lotti di subappalti mafiosi.

Ma, comunque sia, è certo che lo scopo che il legislatore si è prefisso con l'incriminazione del fatto è quello di sbarrare il passo alle infiltrazioni mafiose negli appalti della pubblica amministrazione. Ne consegue che qualunque cittadino che si accinga a ricevere opere in subappalto, essendo de jure consapevole del precetto, dovrebbe attivarsi per agire in ossequio ad esso, pena le conseguenze sanzionatorie previste dalla norma.

3. - Con quest'ultimo rilievo si risponde all'argomento secondo cui la pena pecuniaria verrebbe quantificata con riferimento ad un dato normalmente sconosciuto al subappaltatore. In realtà, quel dato non può e non deve essere sconosciuto perché, o il subappaltatore si attiva e accerta l'esistenza dell'autorizzazione, e allora ben può restargli indifferente il valore complessivo dell'appalto: ma se si accetta il rischio di un subappalto senza autorizzazione,  improbabile che lo faccia senza valutare le conseguenze sanzionatorie cui quel rischio lo espone. Che se poi davvero rischiasse al buio, pur dovendo de jure conoscere il parametro sanzionatorio, imputet sibi, ma ciò non potrebbe mai rappresentare ragione d'illegittimità costituzionale della norma.

Le ordinanze hanno prospettato anche l'ipotesi di un comportamento colposo del subappaltatore che verrebbe punito con le pene comminate per la condotta sicuramente dolosa dell'appaltatore. In proposito, non potrebbe accogliersi l'obbiezione mossa dall'Avvocatura, secondo cui il mancato controllo da parte del subappaltatore dovrebbe senz'altro risolversi in una volontaria obliterazione della norma. In effetti, può invece accadere che il subappaltatore confidi nelle assicurazioni dell'appaltatore: in tal caso, il mancato accertamento integra condotta imprudente o negligente ma non dolosa. Tuttavia, sembra evidente che il legislatore, a fronte della gravità dei pericoli insiti nella concessione dei pubblici appalti, ha scelto l'ipotesi contravvenzionale proprio per coinvolgere nella sanzione anche eventuali responsabilità a titolo di colpa: rispetto alla quale non è detto che - come fra poco sarà precisato - il giudice non possa, nel suo discrezionale potere, irrogare pene differenziate. Ovviamente, andrà fatto salvo il caso dell'errore determinato da vero e proprio inganno (ostensione di falso documento: assicurazione da parte del pubblico ufficiale della pubblica amministrazione): a quel punto, infatti, si applichera l'art. 48 in relazione al primo inciso del primo comma dell'art. 47 cod. pen.

Sennonché, poi, va rilevato che, per quanto si riferisce alle questioni sollevate con le ordinanze in esame, non si evince da alcun riscontro che nelle specie de quibus si sia verificata alcuna condotta colposa: sicché, l'ipotesi, essendo proposta su di un piano assolutamente astratto, è comunque priva di rilevanza.

4. - Il Pretore di Maglie ha anche fatto riferimento all'art. 41 Cost., sostenendo che l'irrogazione al subappaltatore di una pena pecuniaria proporzionale al valore complessivo dell'appalto potrebbe in qualche caso portare addirittura all'estinzione di qualche modesta impresa che aveva subappaltato lavori d'importo irrisorio, cosi mortificando il principio di liberta dell'iniziativa privata.

Effettivamente il Pretore di Male' rappresentava che, nella causa a lui sottoposta, il subappaltatore di lavori per un importo di Lit. 170 mila dovrebbe essere condannato all'ammenda di circa 43 milioni di lire.

Tutto questo, però, nulla ha a che vedere con il principio di cui all'art. 41 Cost. che tutela la liberta dell'iniziativa privata lecita e non quella esercitata in violazione della legge penale.

5. - Vero è, dunque, che spetta al legislatore la scelta del se e del come punire il partecipe necessario nelle fattispecie plurisoggettive bilaterali: scelta che va esente da censura quando - come si è dimostrato nella specie - sia rispettato il principio di ragionevolezza, in relazione agli scopi che la norma si prefigge.

Non può essere accettato il possibilismo interpetrativo dell'Avvocatura, che ritiene di non escludere che il giudice di merito possa assumere l'espressione "Le stesse pene si applicano...", di cui al secondo inciso dell'articolo impugnato, come esclusivo riferimento alla stessa specie di pena. L'espressione rientra nel comune linguaggio della tecnica normativa, e lo stesso codice penale ne offre numerosi esempi ma, durante l'ormai trascorso mezzo secolo della sua vigenza, nessuno ha mai dubitato che essa si riferisca anche alla stessa "quantitas" di pena, fatti salvi naturalmente i poteri discrezionali del giudice.

I quali, infatti, restano fermi anche nel caso in esame: e non è esatto, perciò, che al giudice manchi ogni possibilità di commisurare la pena pecuniaria, almeno in relazione al fatto concreto, nella sua dimensione obbiettiva.

Inoltre non va dimenticato che, congiunta alla pena pecuniaria fissa (la pena proporzionale ne ? una species) esiste anche una sensibile pena detentiva elastica su cui il giudice può calibrare in tutta la sua estensione l'adeguamento della sanzione al fatto concreto e alla persona del partecipe. Certo, ogni problema inerente alla pena pecuniaria troverebbe adeguata soluzione se anche nel nostro Paese il legislatore introducesse una diversa articolazione dell'istituto della conversione, che consentisse di affidare al potere discrezionale del giudice il completo adeguamento alla personalità del reo anche delle pene pecuniarie fisse.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi, dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 21, primo co., l. 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale), cosi come sostituito dall'art. 1 della l. 12 ottobre 1982 n. 726 (Conversione in legge con modificazioni del d.l. 6 settembre 1982 n. 629, recante misure urgenti per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa) sollevata, con riferimento all'art. 3 Cost., con ordinanza 27 marzo 1984 (n. 947/84) dal Pretore di Foggia, con ord. 16 aprile 1986 (n. 615/86) dal Pretore di Male', con ord. 24 ottobre 1986 (n. 361/87) dal Pretore di Cles, e con ord. 23 gennaio 1986 (n. 328/86) dal Pretore di Maglie, quest'ultimo anche con riferimento all'art. 41 Cost.

Cosi deciso in Roma, in udienza pubblica, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 1987.

 

Il Presidente: ANDRIOLI

Il Redattore: GALLO

Depositata in cancelleria il 23 luglio 1987.

Il direttore della cancelleria: MINELLI