Sentenza n. 266 del 1994

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SENTENZA N. 266

ANNO 1994

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Giudici

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

Avv. Massimo VARI

Dott. Cesare RUPERTO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 1, capoverso ed ultima parte, del Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 30 giugno 1993 dal Tribunale di Lucera sul ricorso proposto dalla S.p.A. Finanziaria Adriatica contro la s.n.c. Italmarket di D'Errico Giuseppe, iscritta al n.664 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell'anno 1993;

2) ordinanza emessa il 15 settembre 1993, dal Tribunale di Teramo sulle istanze riunite proposte dalla s.a.s. Aranciata Gran Sasso ed altre contro la s.n.c. B. I., iscritta al n. 706 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell'anno 1993.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 23 febbraio 1994 il Giudice relatore Francesco Guizzi.

Ritenuto in fatto

1. Nel corso del procedimento prefallimentare a carico della società in nome collettivo Italmarket di D'Errico Giuseppe, il Tribunale di Lucera, con ordinanza in data 30 giugno 1993, ha sol levato, in relazione agli artt. 3 e 24 e al combinato disposto degli artt. 2 e 3, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, ultima parte, del Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui dispone che < in nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali>.

Ha osservato il Tribunale:

- che la società debitrice era composta da due soli soci, il D'Errico e il coniuge;

- che l'attività commerciale, prettamente familiare, veniva svolta con l'esclusivo lavoro di entrambi i soci-coniugi e in un locale non di loro proprietà;

- che gli introiti erano particolarmente modesti.

La si potrebbe dunque ritenere < piccola impresa> se non vi ostasse il disposto dell'ultima parte dell'art. 1 del Regio decreto n. 267 del 1942: di qui, la questione di legittimità costituzionale della norma anzidetta per violazione, ad avviso del tribunale rimettente degli artt. 2, 3 e 24 della Costituzione, nonostante la sentenza n.54 del 1991 di questa Corte.

2. A seguito di questa ed altre pronunce, la nozione di < piccolo imprenditore> non avrebbe più un riferimento individuabile con precisione in una norma di legge. Sarebbe infatti necessario, ora, far riferimento al capitale investito, alle dimensioni dell'azienda, al numero dei lavoratori occupati, alla proprietà dei mezzi di produzione e delle strutture aziendali, all'entità dei finanziamenti bancari.

Non reggerebbe più, pertanto, l'attuale distinzione tra gli imprenditori individuali e quelli societari, e occorrerebbe prescindere dalla forma esteriore. Che, invece, sulla base di una presunzione di finalità lucrativa per le imprese organizzate in forma societaria, mancherebbe di comprendere le società commerciali, nella nozione di < piccolo imprenditore>, e ciò quand'anche le dimensioni si caratterizzino in misura oggettivamente limitata. La presunzione iuris et de iure secondo cui non vi sarebbe piccola impresa societaria in rapporto alla finalità lucrativa risulterebbe in contrasto con il combinato disposto degli articoli 2 e 3 della Costituzione, perchè creerebbe una disparità di trattamento irragionevole tra le imprese che, di fatto, sono piccoli imprenditori giusta la forma, individuale o societaria, assunta.

Essa cagionerebbe, altresì, una indebita compressione dell'istituto societario, quale formazione sociale ove si svolge la personalità dei singoli, non essendo siffatto istituto adeguatamente garantito sul piano sostanziale, e processuale, dalla presenza nell'ordinamento della norma impugnata.

La disposizione sarebbe pure in contrasto con l'art. 24 della Costituzione, perchè violerebbe il diritto di difesa nello stabilire presuntivamente la non assimilabilità delle piccole società commerciali alla nozione di < piccolo imprenditore>, esonerato dal fallimento. Una tale presunzione iuris et de iure, non consentirebbe, infatti, alla società debitrice di dimostrare la sua sostanziale natura di piccola impresa commerciale i cui proventi non potrebbero essere assimilati ai profitti, ma unicamente alla remunerazione del lavoro dei soci e al corrispettivo delle spese sostenute.

3. Con la sentenza n. 368 del 1991 e l'ordinanza n. 395 del 1991 la Corte costituzionale avrebbe sancito la sostanziale omologazione delle piccole società artigiane agli artigiani che esercitano l'attività in forma individuale. In tal modo questa Corte avrebbe riconosciuto la necessità di verificare l'effettiva consistenza dell'impresa in dipendentemente dalla sua struttura (individuale o societaria).

Un analogo rilievo dovrebbe essere formulato, con riferimento alle piccole società commerciali, nell'ipotesi in cui queste, dalle emergenze processuali, risultino a tutti gli effetti, per le dimensioni e per i mezzi impiegati, come < piccola impresa>.

Assoggettandole alla procedura fallimentare, sarebbe perciò concreto il rischio di una mancata realizzazione delle finalità di tutela degli interessi dei creditori (sent. n. 579 del 1989).

4. Con ordinanza in data 15 settembre 1993 il Tribunale di Teramo, sulle istanze di fallimento proposte contro la società in nome collettivo B. I. di G.B. e C. ha sollevato, per violazione dell'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, capoverso, del Regio decreto n. 267 del 1942.

Ha osservato il Tribunale che sarebbe anacronistica, oggi, la presunzione della finalità speculativa e di lucro, per ogni tipo e grandezza delle società commerciali, stante il ricorso, largamente diffuso, all'esercizio di attività imprenditoriale, in forma associata, per il profondo mutamento dell'economia rispetto agli anni Quaranta. Lo stesso legislatore, attraverso l'esonero dal fallimento delle società in nome collettivo di carattere artigianale, stabilito con la legge 8 agosto 1985, n. 443 (Legge- quadro per l'artigianato) avrebbe compiuto un primo passo in questa direzione; e un secondo passo sarebbe stato compiuto con la recentis sima normativa di recepimento della direttiva CEE n. 677 del 1989: il decreto legislativo 3 marzo 1993, n. 88 (Attuazione della direttiva 89/667/CEE, in materia di diritto delle società, relativa alla società a responsabilità limitata con un unico socio) che avrebbe modificato il concetto di società al punto da consentire la costituzione, per atto unilaterale, di una società a responsabilità limitata (unipersonale). Sì che sarebbe proprio l'assolutezza del principio oggetto della disposizione impugnata (< in nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali>) a porsi in contrasto con il principio di ragionevolezza, che si palesa- come nella specie - in presenza di una società in nome collettivo costituita non già con l'intento di perseguire finalità speculative o di lucro, ma soltanto con l'esigenza di conseguire mezzi elementari di sostentamento, sopperendo attraverso la forma associativa all'insufficienza del capitale disponibile individualmente.

Con la sua < funzione paralegislativa> e, dunque, mediante opportune statuizioni additive, la Corte costituzionale dovrebbe pertanto porre rimedio alla irrazionale disparità di trattamento nell'esporre al fallimento un operatore commerciale se socio di una società in nome collettivo, anche di minime dimensioni, e non anche il socio unico di società a responsabilità limitata, di qualunque dimensione.

5. Per entrambi i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'inammissibilità e il rigetto della questione sollevata. Essa sarebbe inammissibile, perchè in nessun punto dell'ordinanza di rimessione si farebbe riferimento alla rilevanza e, in particolare, al nesso tra l'assunta illegittimità della norma e i riflessi sul giudizio in corso. E sarebbe altresì infondata in conseguenza di recentissime pronunce di inammissibilità (ordd. nn. 374 e 11 del 1993). Quanto a quella, nuova, che fa riferimento all'art. 24 della Costituzione, sarebbe addirittura non intellegibile.

Considerato in diritto

1. Con distinte ordinanze di rimessione viene proposta, ancora una volta, la questione di costituzionalità dell'art. 1, ultima parte, del Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), dove si stabilisce che < in nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali>. Nelle due ordinanze, la cui trattazione è opportuno riunire, si sostiene l'illegittimità della norma perchè in contrasto con:

a) il combinato disposto degli articoli 2 e 3 della Costituzione, per l'irragionevole disparità di trattamento tra piccoli imprenditori individuali e piccole società commerciali, da considerare a tutti gli effetti formazioni sociali aventi pari dignità cui va assicurata la medesima tutela, in presenza delle stesse dimensioni fattuali;

b) con l'art. 24 della Costituzione, per violazione del diritto di difesa, in quanto essa fisserebbe una presunzione iuris et de iure circa la non assimilabilità delle piccole società commerciali alla nozione di < piccolo imprenditore>;

c) con l'art. 3 della Costituzione, fonte del principio di ragionevolezza, sia perchè non escluderebbe dal fallimento le società personali di piccole dimensioni, caratterizzate non già dall'intento di perseguire fini di lucro ma dall'esigenza di conseguire i mezzi elementari di sostentamento, sopperendo, attraverso la forma associativa, all'insufficienza del capitale disponibile individualmente; sia perchè assoggetterebbe a diverse conseguenze il socio della società in nome collettivo (estensibile di fallimento) e il socio unico della società a responsabilità limitata di qualsiasi dimensione, non assoggettabile al fallimento.

d) con l'art. 3 della Costituzione, per la disparità di trattamento tra le piccole società commerciali e le piccole società artigianali, in quanto a parità di condizioni (e provata assenza di profitto) sarebbero escluse dal fallimento soltanto le seconde e non anche le prime.

2. Con riguardo alla figura del piccolo imprenditore individuale, questa Corte ha già affermato e ribadito (rispettivamente con sent. n. 54 del 1991 e ord. n. 11 del 1993) l'inammissibilità della questione di costituzionalità sollevata per violazione all'art. 3 della Costituzione. Nè l'indicazione di altri parametri costituzionali (l'art. 2 e l'art. 24 della Costituzione) sposta i termini del ragionamento già svolto da questa Corte, esulando del tutto la materia de qua da ogni serio riferimento ai valori da ultimo indicati.

La questione sollevata soltanto dal Tribunale di Lucera è, dunque, manifestamente inammissibile.

3. Le due ordinanze, tuttavia, ribadiscono (particolarmente quella del Tribunale di Teramo) il profilo della irragionevole disparità di trattamento delle società commerciali di modeste dimensioni (per capitale sociale e forza lavoro impiegata, prevalentemente, se non esclusivamente, dai soci), già in generale confutato dalla sentenza n. 54 del 1991 in relazione al tertium comparationis delle società artigianali come disciplinate dalla legge 8 agosto 1985, n. 443. Tale diversità di regolamentazione risulterebbe oggi ancor più stridente in considerazione della non assoggettabilità al fallimento del socio unico di una società a responsabilità limitata (per effetto del decreto legislativo 3 marzo 1993, n. 88, attuativo della direttiva 89/667/CEE).

4. La questione non è fondata.

La disciplina dell'impresa artigiana, infatti, costituisce oggetto di un complesso di valutazioni, e disposizioni legislative non limitabili esclusivamente al problema dell'assoggettabilità al falli mento (peraltro variamente risolto dalla giurisprudenza di merito, proprio con riferimento alla particolare figura dell'impresa artigiana costituita nelle forme societarie consentite dall'art. 3, secondo comma, della legge n. 443 del 1985).

Ridurre il problema di questo sottotipo di impresa artigiana, come fanno le ordinanze di rimessione, al nodo, pur non trascurabile, della loro assoggettabilità (o meno) al fallimento, per dedurne, in base al presunto privilegio loro attribuito, l'irrazionalità della differente disciplina riservata alle imprese - società non artigianali è certamente operazione nè logica nè corretta.

L'avere la legge istituito, in vista di alcuni benefici, un albo delle imprese artigiane dove possono iscriversi anche quelle costituite nelle forme societarie consentite; l'aver fissato precisi limiti dimensionali; l'aver stabilito un procedimento amministrativo con organi pubblici preposti alla vigilanza circa il possesso dei requisiti richiesti per l'iscrizione nell'albo, dimostra la diversità normativa tra le due realtà giuridiche che invece si vorrebbe comparare ed assimilare.

Diversità ribadita dalle recenti disposizioni contenute nella legge 29 dicembre 1993, n. 580 - recanti norme per il riordinamento delle Camere di Commercio - che hanno previsto l'istituzione del registro delle imprese e contemplato l'iscrizione, fra gli altri, degli imprenditori artigiani in una sezione speciale. Dando il particolare rilievo di meritevolezza all'artigianato, qual è desumibile dagli artt. 45, secondo comma e 117 della Costituzione.

La questione va, pertanto, dichiarata non fondata.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

a) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui non esonera dal fallimento le piccole società commerciali, sollevata, in riferimento agli artt.2, 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di Lucera con l'ordinanza in epigrafe;

b) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui non esonera dal fallimento le piccole società commerciali, a differenza delle società artigiane di cui alla legge 8 agosto 1985, n.443, sollevata in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dai Tribunali di Lucera e Teramo con le ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 giugno 1994.

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

Francesco GUIZZI, Redattore

Depositata in cancelleria il 30/06/1994.