Sentenza n.115 del 1994

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SENTENZA N. 115

ANNO 1994

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Presidente

Prof. Gabriele PESCATORE

Giudici

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

Avv. Massimo VARI

Dott. Cesare RUPERTO

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 13 della legge 23 dicembre 1992, n. 498 (Interventi urgenti in materia di finanza pubblica), come sostituito dall'art. 6 bis del decreto-legge 18 gennaio 1993, n. 9 (Disposizioni urgenti in materia sanitaria e socio-assistenziale), convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 18 marzo 1993, n. 67, promossi con ordinanze emesse dal Pretore di Biella il 7 aprile 1993, dal Pretore di Brescia il 12 maggio 1993, dal Tribunale di Cremona il 22 settembre 1993 e dal Pretore di Vicenza il 22 luglio 1993 e l'8 giugno 1993, iscritte rispettivamente ai nn.354, 444, 679, 702 e 718 del registro ordinanze 1993 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 28, 36, 47, 48 e 50, prima serie speciale, dell'anno 1993.

Visti gli atti di costituzione dell'I.N.P.S. e dell'I.N.A.I.L.

nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica dell'8 febbraio 1994 il Giudice relatore Ugo Spagnoli;

uditi gli avvocati Leonardo Lironcurti per l'I.N.P.S., Pasquale Napolitano per l'I.N.A.I.L. e l'Avvocato dello Stato Antonio Bruno per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1.- Con ordinanza del 7 aprile 1993 (r.o. n. 354/1993), il Pretore di Biella, nel corso di un giudizio di opposizione ad ordinanza-ingiunzione emessa dall'I.N.P.S. per il pagamento di sanzioni amministrative relative ad omissioni contributive riguardanti taluni "collaboratori" della locale farmacia comunale, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'articolo 13, commi 2 e 3, della legge 23 dicembre 1992 n. 498 (Interventi urgenti in materia di finanza pubblica), così come sostituito dall'articolo 6 bis del decreto-legge 18 gennaio 1993 n. 9 (Disposizioni urgenti in materia sanitaria e socio-assistenziale), convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 18 marzo 1993 n. 67, secondo cui "Le province, i comuni, le comunità montane e i loro consorzi, le Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB), gli enti non commerciali senza scopo di lucro che svolgono attività socio-assistenziale e le istituzioni sanitarie operanti nel Servizio sanitario nazionale non sono soggetti, relativamente ai contratti d'opera o per prestazioni professionali a carattere individuale da essi stipulati, all'adempimento di tutti gli obblighi derivanti dalle leggi in materia di previdenza e di assistenza, non ponendo in essere, i contratti stessi, rapporti di subordinazione" (comma 2). "Le disposizioni di cui al comma 2 hanno natura interpretativa e si applicano anche ai contratti già stipulati alla data di entrata in vigore della presente legge" (comma 3).

Rilevato che tali disposizioni legislative, sopravvenute nel corso del giudizio ed applicabili alla fattispecie, collegano al fatto che il contratto sia formalmente qualificato come contratto d'opera o di prestazione professionale una presunzione juris et de jure di non subordinazione, il giudice a quo ritiene che esse si pongano in contrasto con gli articoli 101 e 104 della Costituzione, perchè sottraggono al giudice il potere di interpretare autonomamente non già disposizioni di legge ma gli stessi fatti rilevanti per la qualificazione del rapporto quale lavoro subordinato o autonomo. Vi sarebbe inoltre violazione degli articoli 35 e 3 della Costituzione, in quanto, a fronte di attività lavorative identiche per modalità e tipo di prestazione, il lavoratore che sarebbe soggetto alla disciplina del lavoro subordinato se il suo rapporto si svolgesse con privati o con enti statali, viene invece considerato come lavoratore autonomo se il rapporto si svolge con un ente locale. Tale ingiustificata disparità di trattamento si tradurrebbe poi in violazione anche degli articoli 38 e 3 della Costituzione, per la privazione della tutela previdenziale che la qualificazione come lavoratore autonomo comporta.

Il terzo comma della disposizione impugnata, che attribuisce efficacia retroattiva ad una norma non qualificabile come interpretativa, sarebbe poi di per sè stesso in contrasto con gli articoli 35, 38 e 3 della Costituzione, in quanto, in virtù di tale norma, che non era in vigore al momento dell'instaurarsi del loro rapporto (il che poteva aver indotto molti - pur di trovare adeguata occupazione - ad accettare di sottoscrivere un contratto con una qualificazione giuridica illegittima riservandosi di esercitare in futuro il loro diritto ad un corretto inquadramento), lavoratori che hanno svolto e svolgono la loro prestazione lavorativa con le stesse modalità vengono ad essere destinatari di un trattamento differenziato - con riferimento sia al rapporto di lavoro che ai profili previdenziali - a seconda che la effettiva natura subordinata del loro lavoro sia stata o meno riconosciuta, prima dell'entrata in vigore della legge impugnata, ad opera del medesimo datore di lavoro o del giudice, nonchè a seconda che il contratto originario contenga o meno la specifica indicazione della qualificazione formale del contratto come contratto d'opera o di prestazione professionale.

2.- Costituendosi in giudizio, l'I.N.P.S. ha suggerito, in primo luogo, un'interpretazione della norma impugnata diversa da quella ritenuta dal giudice a quo e tale da non vincolare il giudice al nomen iuris adottato dalle parti: la norma, cioé, sarebbe diretta soltanto a confermare che tale dato costituisce un utile elemento di indagine ai fini della qualificazione dei rapporti, ma non impedirebbe al giudice di qualificare come rapporto di lavoro subordinato quel rapporto che come tale si atteggi in concreto.

Nel caso, invece, che l'interpretazione assunta dal giudice a quo fosse da ritenere esatta, allora la questione di costituzionalità sottoposta all'esame della Corte dovrebbe ritenersi fondata. A tal riguardo, la difesa dell'istituto ricorda che la Cassazione ha da tempo puntualizzato i termini del problema della qualificazione del rapporto di lavoro subordinato affermando che, al fine di accertare la sussistenza di un rapporto di lavoro autonomo o di un rapporto di lavoro subordinato, il giudice deve rivolgere la propria indagine in primo luogo al contenuto del contratto, al fine di verificare, sul piano della volontà negoziale, se le parti abbiano inteso attribuire alla prestazione i caratteri della continuità e della subordinazione. Il rilievo così attribuito al momento costitutivo del rapporto va tuttavia raccordato con il momento attuativo di questo, sicchè il giudice ne deve accertare la natura anche in base alle caratteristiche e alle modalità con le quali le prestazioni di lavoro siano state di fatto espletate.

Pertanto, se dalla norma impugnata dovesse desumersi una presunzione juris et de jure di non subordinazione collegata al mero nomen juris adottato in sede contrattuale, sarebbero violati i parametri costituzionali indicati dal Pretore.

Con riferimento alla censura riguardante il comma 3 del citato articolo 13, l'I.N.P.S., aderendo alla censura proposta dal giudice a quo, richiama la sentenza di questa Corte n. 155 del 1990, per ribadire che il legislatore oltrepassa i limiti della ragionevolezza quando, come nella specie, definisce come interpretativa una disciplina che ha invece natura innovativa.

3.- Con ordinanza emessa il 12 maggio 1993 (r.o. n. 444 del 1993) nel corso di un giudizio vertente tra una U.S.L. e l'I.N.P.S. nel quale si controverteva della natura subordinata o autonoma di un rapporto di lavoro, il Pretore di Brescia ha rilevato che nelle more del processo era entrato in vigore l'articolo 13 della legge 23 dicembre 1992 n. 498 e ne ha eccepito l'illegittimità costituzionale, per violazione degli articoli 3 e 41 della Costituzione, nella parte in cui non trovava applicazione alle Unità Sanitarie Locali.

4.- Costituendosi in giudizio, l'I.N.P.S. ha eccepito l'inammissibilità della questione, rilevando che, già prima dell'emanazione dell'ordinanza, il citato articolo 13 era stato modificato dall'articolo 6 bis del decreto-legge 18 gennaio 1993 n. 9, convertito, con modificazioni, nella legge 18 marzo 1993 n. 67, che aveva esteso l'applicabilità della norma impugnata anche a "gli enti non commerciali senza scopo di lucro che svolgono attività socio-assistenziali e le istituzioni sanitarie operanti nel Servizio sanitario nazionale".

5.- É intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, parimenti eccependo l'inammissibilità della questione.

6.- Nel corso di un giudizio di opposizione a taluni decreti ingiuntivi emessi su ricorso dell'I.N.P.S. nei confronti dei Comuni di Foza e di Asiago per il pagamento di contributi previdenziali e assistenziali e relativi accessori, il Pretore di Vicenza, con ordinanza dell'8 giugno 1983 (r.o. n.718/1993), ha sollevato questione di legittimità costituzionale in ordine al medesimo articolo 13, commi 2 e 3, della legge n. 498 del 1992 per violazione degli articoli 3, 36, 38, 101 e 104 della Costituzione. La pretesa contributiva dell'istituto riguardava rapporti di lavoro scaturenti da con tratti stipulati dai municipi suddetti con alcuni autisti, aventi ad oggetto il trasporto degli alunni delle locali scuole materne. I contratti in questione, rinnovati di anno in anno, erano denominati quali contratti d'opera, ma l'Ispettorato del lavoro, sulla base degli accertamenti effettuati circa la regolamentazione negoziale ed il concreto svolgimento dei conseguenti rapporti di lavoro, aveva contestato la loro qualificazione formale, denunziando trattarsi di rapporti di lavoro subordinato. Tale qualificazione costituiva appunto il fondamento dell'azione proposta dall'I.N.P.S. in via monitoria. Nel corso del processo erano sopravvenuti la legge n. 498 del 1992 ed il decreto-legge n. 9 del 1993.

Il Pretore di Vicenza riferisce che ai rapporti di lavoro oggetto del giudizio, in relazione alla regolamentazione pattuita nei contratti e alle concrete modalità di svolgimento dei rapporti, deve essere riconosciuta natura subordinata e non autonoma e ciò sia con riferimento ai c.d. indici rivelatori della subordinazione evidenziati nella meno recente giurisprudenza di legittimità (inserimento del lavoratore nell'organizzazione del datore; uso di mezzi e strumenti di quest'ultimo; assenza di rischio economico d'impresa; modalità di retribuzione determinata in base al tempo e non al risultato, ecc.), sia con riferimento agli orientamenti più recenti della Cassazione, tendenti a rivalutare, ai fini della qualificazione giuridica del rapporto, la effettiva volontà negoziale delle parti (così come si manifesta non solo al momento della stipulazione del contratto, ma anche nella fase esecutiva del rapporto, dalla quale emerge l'assetto dei reciproci interessi effettivamente voluto) dando quindi rilievo distintivo all'assoggettamento del prestatore ad etero-direzione, al carattere continuo dell'obbligo di prestare, al vincolo contrattuale circa la collocazione spaziale e temporale della prestazione.

Ciò premesso, il giudice a quo osserva che le norme impugnate impediscono al giudice di attribuire ai rapporti in esame la qualificazione giuridica loro propria, imponendogli di considerarli alla stregua di rapporti di lavoro autonomo e che ciò appare in contrasto con i parametri costituzionali già indicati. Con riferimento alla dedotta violazione degli articoli 36 e 38 della Costituzione, il Pretore di Vicenza ricorda che questa Corte, con la sentenza n. 121 del 1993, ha dichiarato che non è consentito al legislatore "negare la qualificazione giuridica di rapporti di lavoro subordinato a rapporti che oggettivamente abbiano tale natura, ove da ciò derivi l'inapplicabilità delle norme inderogabili previste dall'ordinamento per dare attuazione ai principi, alle garanzie e ai diritti dettati dalla Costituzione a tutela del lavoro subordinato". Con le norme in esame, il legislatore - secondo il giudice a quo - ha violato tale divieto, escludendo l'applicazione della normativa previdenziale e assistenziale a rapporti oggettivamente qualificabili come lavoro subordinato.

La norma impugnata violerebbe poi anche l'articolo 3 della Costituzione, in quanto essa introduce una disparità di trattamento priva di qualunque ragionevole giustificazione tra una particolare categoria di datori di lavoro pubblici, da un lato, e la generalità dei datori di lavoro privati, oltre che le restanti categorie di datori di lavoro pubblici, dall'altro. E tale ingiustificata disparità di trattamento si riproduce nei confronti delle rispettive categorie di lavora tori.

Il comma 3 del citato articolo 13, che attribuisce natura di interpretazione autentica alla norma contenuta nel comma precedente, conferendo ad essa efficacia retroattiva, violerebbe poi di per sè stessa il principio di ragionevolezza desumibile dall'articolo 3 della Costituzione, non essendovi alcuna possibilità di riconoscere a tale disposizione la qualificazione che essa assume imperativamente di avere. L'oggetto reale della pretesa interpretazione autentica, inoltre, non è dato, in questo caso, da altre norme di legge, bensì da contratti specifici e fatti concreti, il che rappresenta una lesione della sfera riservata dalla Costituzione alla giurisdizione, con conseguente violazione degli articoli 101 e 104 della Costituzione stessa.

Infine, la norma di cui al comma 2 del suddetto articolo 13, in quanto resa retroattiva dal comma 3, elimina diritti retributivi già maturati al momento dell'entrata in vigore della legge, e quindi illegittimamente sacrifica il diritto dei lavoratori interessati ad un'equa retribuzione, garantito dall'articolo 36 della Costituzione.

7.- Costituendosi tardivamente nel giudizio davanti a questa Corte, l'I.N.P.S. ha svolto difese sostanzialmente analoghe a quelle di cui si è dato conto nel precedente paragrafo 2.

8.- Questione di costituzionalità identica ed identicamente motivata è stata sollevata dal medesimo Pretore di Vicenza con ordinanza del 22 luglio 1993 (r.o. n. 702/1993) pronunziata nel corso di un giudizio di opposizione ad ordinanza-ingiunzione emessa dall'I.N.A.I.L. nei confronti del Comune di Enego per il pagamento di contributi assicurativi relativi ad un rapporto di lavoro analogo a quelli considerati nel precedente provvedimento di rimessione (autista di autobus per il trasporto di alunni delle scuole materne).

9.- Costituendosi nel giudizio davanti a questa Corte, l'I.N.A.I.L., ha preliminarmente eccepito l'inammissibilità della questione, in quanto la qualificazione del rapporto di lavoro in oggetto non aveva rilevanza agli effetti dell'obbligo retributivo, posto che quest'ultimo sussisterebbe ugualmente, anche in caso di qualificazione del rapporto come lavoro autonomo, "stante la figura artigianale del soggetto de quo".

Subordinatamente e nel merito, l'istituto ha aderito alla denunzia di illegittimità costituzionale formulata dal Pretore, rilevando, in fatto, che le emergenze processuali portavano a configurare con certezza il rapporto in oggetto come rapporto di lavoro subordinato.

Tale impostazione difensiva è stata ribadita e più ampiamente illustrata un una successiva memoria.

10.- Le stesse norme sono state infine impugnate per violazione degli articoli 101, 3 e 38 della Costituzione dal Tribunale di Cremona, con ordinanza del 22 settembre 1993 (r.o. n. 679/1993), emessa nel corso di un giudizio d'appello avverso una sentenza del Pretore di quella città che aveva respinto l'opposizione proposta dal Comune di Soresina contro un decreto ingiuntivo emesso su ricorso dell'I.N.P.S. Rilevata l'applicabilità al giudizio delle norme suddette, il giudice a quo ha osservato che l'articolo 13, comma 2, della legge n.498 del 1992, come sostituito dall'articolo 6 bis del decreto- legge n. 9 del 1993, convertito in legge dalla legge n. 67 del 1993 rappresenta una norma innovativa e non semplicemente interpretativa, anche perchè non sarebbe neppur possibile individuare quale sia la norma interpretata, nè quali siano le incertezze interpretative cui essa ha dato luogo. Orbene, se rientra nei poteri del legislatore regolare una materia anche per il passato, non gli è invece consentito sottrarre all'autorità giudiziaria quella che è l'attività propria della funzione giurisdizionale, e cioé l'attività di qualificazione ed interpretazione del fatto, al fine di decide re quale sia la disciplina ad esso applicabile. L'intervento legislativo in esame, volto a qualificare direttamente fatti e rapporti giuridici, rappresenta quindi una arbitraria compressione dell'autonoma funzione giurisdizionale e viola, pertanto, l'articolo 101 della Costituzione.

La disposizione - prospetta il remittente - si pone in contrasto, di per sè stessa ed in ragione della sua retroattività, anche con l'articolo 3 della Costituzione, in quanto introduce una irrazionale ed ingiustificabile disparità di trattamento tra datori di lavoro privati e pubblici, e, nell'ambito di quest'ultima categoria, tra gli enti indicati tassativamente dall'articolo 13, comma 2, ed i restanti enti pubblici. Tale disparità di trattamento si verifica poi anche tra lavoratori, in quanto, pur in presenza di attività lavorative identiche per modalità e tipo di prestazioni, alcuni di essi saranno qualificati come lavoratori subordinati ed altri come lavoratori autonomi, esclusivamente in dipendenza della diversa qualifica del datore di lavoro. Una ingiustificabile disparità di tratta mento tra situazioni identiche si produce poi tra i lavoratori che, pur assunti con incarichi professionali o con contratti d'opera, abbiano poi ottenuto il riconoscimento giudiziale, con sentenza passata in giudicato, del loro diritto alla posizione assicurativa e previdenziale, e gli altri lavoratori che di tale diritto non possono più ottenere il riconoscimento, nonostante versino nella medesima situazione di fatto.

Il Tribunale denunzia, in terzo luogo, la violazione anche dell'articolo 38 della Costituzione, in quanto le norme impugnate, per mere esigenze di bilancio, eliminano, con effetto retroattivo, posizioni assicurative e previdenziali in ordine alle quali era già maturato il diritto degli interessa ti, così frustrando, nei loro riguardi, quell'affidamento nella sicurezza sociale e giuridica, che costituisce elemento fondamentale dello Stato di diritto (sentenze nn. 349 del 1985 e 39 del 1993). Le norme in questione, infine, osserva il giudice a quo, sottraggono irrazionalmente contributi agli enti preposti alla previdenza e all'assistenza, così impedendo loro di svolgere efficacemente la loro funzione.

11.- Costituendosi in giudizio, l'I.N.P.S. ha ribadito le difese già svolte nel giudizio promosso dall'ordinanza del Pretore di Biella.

 

Considerato in diritto

 

1.- Le cinque ordinanze indicate nella precedente narrativa investono tutte le medesime disposizioni dell'articolo 13 legge 23 dicembre 1992 n. 498. I relativi giudizi vanno quindi riuniti, per essere decisi con un'unica sentenza.

2.- La denunzia formulata dal Pretore di Brescia (r.o. n.444/1993) riguarda il testo originario dei commi 1 e 2 del citato articolo 13 della legge n. 498 del 1992, secondo cui "Le province, i comuni, le comunità montane e i loro consorzi e le Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB) non sono soggetti, relativamente ai contratti d'opera o per prestazioni professionali a carattere individuale da essi stipulati, all'adempimento di tutti gli obblighi derivanti dalle leggi in materia di previdenza e di assistenza, non ponendo in esse re, i contratti stessi, rapporti di subordinazione" (comma 1). "Le disposizioni di cui al comma 1 hanno natura interpretativa e si applicano anche ai contratti già stipulati alla data di entrata in vigore della presente legge" (comma 2).

Il giudice a quo sospetta l'illegittimità costituzionale di tali disposizioni, per violazione degli articoli 3 e 41 della Costituzione, nella parte in cui esse non trovano applicazione rispetto ai contratti stipulati dalle Unità sanitarie locali.

3.- La questione è inammissibile.

Già prima dell'emanazione dell'ordinanza di rimessione, il citato articolo 13 era stato modificato dall'articolo 6 bis del decreto-legge 18 gennaio 1993, n. 9, convertito, con modificazioni, nella legge 18 marzo 1993, n. 67, che, oltre ad inserire un nuovo comma 1, aveva anche esteso l'applicabilità delle disposizioni impugnate (divenute commi 2 e 3) anche agli "enti non commerciali senza scopo di lucro che svolgono attività socio-assistenziali" e alle "istituzioni sanitarie operanti nel Servizio sanitario nazionale".

4.- Gli altri giudici remittenti interpretano la norma impugnata nel senso che, in virtù di essa, un rapporto sorto da un contratto d'opera o per prestazioni professionali stipulato da uno degli enti ivi indicati non potrebbe essere qualificato come rapporto di lavoro subordinato neppure se le concrete modalità di svolgimento del rapporto stesso - in contrasto con il nomen juris enunciato dalle parti o con la regolamentazione negoziale dichiarata nel contratto - siano quelle proprie del lavoro subordinato.

Sulla base di tale interpretazione, le ordinanze del Pretore di Biella (r.o. n. 354/1993), del Pretore di Vicenza (r.o. nn.718 e 702/1993) e del Tribunale di Cremona (r.o. n. 679/1993) denunziano la violazione degli articoli 35, 36 e 38 della Costituzione, per la neutralizzazione delle garanzie costituzionali a favore del lavoro subordinato che in tal modo verrebbe operata rispetto ad alcuni rapporti che hanno di fatto tale natura. Anche il principio di uguaglianza di cui all'articolo 3 sarebbe leso, secondo i giudici a quibus, dalla ingiustificata discriminazione che in tal modo verrebbe attuata, nell'ambito dei lavoratori subordinati, a danno di alcuni di essi, ma anche per effetto dell'ingiustificato privilegio che verrebbe in tal modo accordato ad una categoria di datori di lavoro rispetto alla generalità di questi ultimi. Infine sarebbero incisi il principio della soggezione del giudice alla legge e ad essa soltanto, nonchè il principio dell'indipendente esercizio della funzione giurisdizionale (articoli 101 e 104 della Costituzione), perchè la norma, così intesa, sottrarrebbe al giudice il potere di interpretare autonomamente non già le disposizioni di legge, ma gli stessi fatti rilevanti per la qualificazione del rapporto.

5.- Non vi è dubbio che, se la normativa impugnata avesse il significato ad essa attribuito dalle ordinanze in esame, le censure formulate dai giudici a quibus sarebbero fondate.

Proprio con la recente sentenza n. 121 del 1993, questa Corte ha affermato che "non sarebbe comunque consentito al legislatore negare la qualificazione giuridica di rapporti di lavoro subordinato a rapporti che oggettivamente abbiano tale natura, ove da ciò derivi l'inapplicabilità delle norme inderogabili previste dall'ordinamento per dare attuazione ai principi, alle garanzie e ai diritti dettati dalla Costituzione a tutela del lavoro subordinato".

A maggior ragione non sarebbe consentito al legislatore di autorizzare le parti ad escludere direttamente o indirettamente, con la loro dichiarazione contrattuale, l'applicabilità della disciplina inderogabile prevista a tutela dei lavoratori a rapporti che abbiano contenuto e modalità di esecuzione propri del rapporto di lavoro subordinato.

I principi, le garanzie e i diritti stabiliti dalla Costituzione in questa materia, infatti, sono e debbono essere sottratti alla disponibilità delle parti. Affinchè sia salvaguardato il loro carattere precettivo e fondamentale, essi debbono trovare attuazione ogni qual volta vi sia, nei fatti, quel rapporto economico-sociale al quale la Costituzione riferisce tali principi, tali garanzie e tali di ritti. Pertanto, allorquando il contenuto concreto del rapporto e le sue effettive modalità di svolgimento - eventualmente anche in contrasto con le pattuizioni stipulate e con il nomen juris enunciato - siano quelli propri del rapporto di lavoro subordinato, solo quest'ultima può essere la qualificazione da dare al rapporto, agli effetti della disciplina ad esso applicabile.

6.- Ma il tenore delle disposizioni impugnate non impone affatto la lettura che di esse danno i giudici remittenti ed anzi appare orientare l'interprete verso una diversa direzione. E tale direzione deve allora ritenersi obbligata, essendo canone fondamentale e più volte ribadito da questa Corte che, a fronte di una pluralità di interpretazioni possibili, il giudice deve sempre e comunque escludere quella che dia alla disposizione un significato normativo in contrasto con il dettato costituzionale.

Orbene non vi è alcun elemento, nel testo del citato articolo 13, comma 2, che riguardi l'ipotesi di un rapporto che si sia svolto con contenuti e modalità contrastanti con la qualificazione di contratto d'opera o di prestazione professionale enunciata dalle parti o comunque collegabile alla loro dichiarazione negoziale. La norma si limita ad escludere che ai contratti d'opera e di prestazione professionale da essa considerati siano estensibili gli obblighi previdenziali e assistenziali previsti per il lavoro subordinato. Ma da ciò non è dato inferire che tale esclusione trovi applicazione anche alle ipotesi in cui il rapporto, in contrasto con il titolo contrattuale, abbia di fatto assunto contenuti e modalità di svolgimento propri del rapporto di lavoro subordinato; tanto meno è dato inferire un più generale precetto (che stravolgerebbe gli stessi fondamenti del diritto del lavoro) secondo cui il rapporto descritto nel contratto come rapporto d'opera o di prestazione professionale non sia mai suscettibile di una diversa qualificazione neppure in caso di contrasto tra il contratto e le risultanze del rapporto svoltosi tra le parti.

7.- Disattesa in questi sensi l'interpretazione presupposta dai giudici remittenti, la questione da essi proposta deve essere dichiarata non fondata.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

1) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 13, commi 2 e 3, della legge 23 dicembre 1992 n. 498 (Interventi urgenti in materia di finanza pubblica), così come sostituito dall'articolo 6 bis del decreto-legge 18 gennaio 1993 n. 9 (Disposizioni urgenti in materia sanitaria e socio-assistenziale), convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 18 marzo 1993 n. 67, sollevata, con riferimento agli articoli 3, 35, 36, 38, 101 e 104 della Costituzione, dal Pretore di Biella con ordinanza del 7 aprile 1993 (r.o. n.354/1993), dal Pretore di Vicenza con ordinanze dell'8 giugno 1993 (r.o. n. 718/1993) e del 22 luglio 1993 (r.o. n.702/1993) e dal Tribunale di Cremona con ordinanza del 22 settembre 1993 (r.o. n. 679/1993).

2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 13, commi 1 e 2, della legge 23 dicembre 1992 n. 498 (Interventi urgenti in materia di finanza pubblica), sollevata, in riferimento all'articolo 3 della Costituzione, dal Pretore di Brescia con ordinanza del 12 maggio 1993 (r.o. n.444/1993).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23/03/94.

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

Ugo SPAGNOLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 31/03/94.