Sentena n. 41 del 1994

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SENTENZA N. 41

ANNO 1994

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Presidente

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Giudici

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

Avv. Massimo VARI

Dott. Cesare RUPERTO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 446, primo e terzo comma, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 22 gennaio 1993 dal Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di Greco Franco, iscritta al n. 173 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell'anno 1993.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 12 gennaio 1994 il Giudice relatore Mauro Ferri.

 

Ritenuto in fatto

 

l. Con ordinanza emessa il 22 gennaio 1993 (r.o. n.173/93), il Tribunale di Torino ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, dell'art. 446, primo e terzo comma, del codice di procedura penale, "nella parte in cui non prevedono che le parti possano formulare la richiesta di cui all'art. 444 e reciprocamente dare il consenso nella situazione di autorizzazione alla contestazione in udienza di un fatto nuovo con relativo consenso dell'imputato ex art.518, secondo comma, del codice di procedura penale".

Premette in fatto il remittente che nel corso del dibattimento il pubblico ministero ha chiesto, ai sensi dell'art. 518, secondo comma, del codice di procedura penale, di essere autorizzato alla contestazione all'imputato di un fatto nuovo; l'imputato ha accettato la contestazione ed ha proposto istanza di "patteggiamento", cui il pubblico ministero ha aderito.

Dopo aver rilevato che la richiesta di applicazione della pena per il nuovo reato urta contro il disposto della norma impugnata, il giudice a quo osserva che sotto il profilo del principio di eguaglianza appare di tutta evidenza che la legge viene a trattare in maniera diseguale due situazioni fra loro estremamente simili, ed anzi a trattare in maniera più "punitiva" quella nella quale l'imputato, accettando la contestazione di un fatto nuovo in dibattimento e proponendo istanza di patteggiamento, rende il più agevole possibile il compito della giustizia, consentendo di giungere immediatamente ad una decisione e rinunciando al limite al mezzo di impugnazione costituito dall'appello.

Non vale, ad avviso del Tribunale, rilevare che l'alternativa consentita dalla legge è pur sempre quella del procedimento nelle forme ordinarie; non si può infatti disconoscere che, se sono vere le esigenze di speditezza menzionate dall'art. 518, secondo comma, del codice di procedura penale, all'imputato (quando accetti la contestazione) non deve essere preclusa la possibilità di avvalersi della facoltà prevista dall'art. 444 del codice di procedura penale. La soluzione, quale oggi è cristallizzata nelle norme esaminate, non convince sotto un profilo di ragionevolezza e di garanzia della speditezza processuale, che costituisce uno dei cardini del nuovo processo.

Sotto il profilo, poi, del diritto alla difesa il Tribunale ravvisa, a conforto della tesi sostenuta, argomenti adottati in altro contesto da questa Corte nella sentenza n.593 del 1990, osservando, in conclusione, che la condotta dell'imputato che accetta in udienza la contestazione del "fatto nuovo" viene penalizzata dalla esclusione del patteggiamento, quando questo permetterebbe di raggiungere quell'obbiettivo di rapida definizione del processo che il legislatore ha inteso perseguire con l'applicazione di pena su richiesta della parte.

2. É intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, concludendo per l'infondatezza della questione e richiamando, in proposito, la giurisprudenza di questa Corte in ordine alla legittimità del limite preclusivo alla formulazione della richiesta di patteggiamento fissato nella norma impugnata.

Considerato in diritto

 

l. Il Tribunale di Torino dubita, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 446, primo e terzo comma, del codice di procedura penale "nella parte in cui non prevedono che le parti possano formulare la richiesta di cui all'art. 444, e reciprocamente dare il consenso, nella situazione di autorizzazione alla contestazione in udienza di un fatto nuovo con relativo consenso dell'imputato ex art.518, secondo comma, del codice di procedura penale".

L'argomentazione del Tribunale remittente si basa sulla comparazione fra due situazioni ritenute estremamente simili, vale a dire quella dell'imputato che, di fronte alla risultanza nel corso del dibattimento di un fatto nuovo a proprio carico, presta consenso alla relativa contestazione nella medesima udienza (art. 518, secondo comma, del codice di procedura penale) e quella dell'imputato che, in identica circostanza, non presta il proprio consenso alla contestazione, con la conseguenza che il pubblico ministero dovrà procedere nelle forme ordinarie (art. 518, primo comma, del codice di procedura penale). Poichè in questa seconda ipotesi l'imputato potrà chiedere l'applicazione della pena ai sensi dell'art. 444 del codice di procedura penale, mentre tale possibilità gli è preclusa nella prima ipotesi per il disposto dell'art. 446, primo comma, del codice medesimo, si verificherebbe - secondo il giudice a quo - un trattamento irragionevolmente "punitivo" dell'imputato che ha tenuto un atteggiamento di maggior collaborazione nei confronti della speditezza della giustizia in ordine alla sfera di esercizio del diritto di difesa (di cui la richiesta di applicazione della pena costituisce una modalità).

Inoltre, conclude il remittente, una volta che ci si trova nella situazione in esame, la preclusione del "patteggiamento" impedisce irrazionalmente di raggiungere quell'obiettivo di rapida definizione del processo che il legislatore ha inteso perseguire con il detto istituto.

2. La questione non è fondata.

Invero, una corretta e rigorosa lettura delle disposizioni in esame dimostra la insussistenza di qualsivoglia contrasto con gli invocati parametri costituzionali.

Innanzitutto, non è di per sè censurabile la disciplina prevista dal legislatore in ordine al termine entro il quale può essere esercitata la facoltà di chiedere il cosiddetto patteggiamento: infatti, che tale facoltà sussista fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado non è certamente irragionevole, in quanto anzi risponde perfettamente alla ratio dell'istituto (cfr. sent. n. 101 del 1993).

Ciò posto, non è parimenti per nulla irragionevole ed è rispettosa del diritto di difesa la soluzione adottata dall'art. 518 del codice di procedura penale. Invero, quando "nel corso del dibattimento risulta a carico dell'imputato un fatto nuovo non enunciato nel decreto che dispone il giudizio e per il quale si debba procedere di ufficio", la regola enunciata nel primo comma del citato art. 518 è che il pubblico ministero proceda nelle forme ordinarie, inizi cioé un nuovo procedimento relativo alla nuova fattispecie: l'imputato è quindi garantito nell'esercizio pieno e completo del diritto di difesa, ivi compreso il ricorso eventuale all'applicazione della pena su richiesta .

Soltanto se l'imputato è presente e presta il proprio consenso, ed è l'ipotesi prevista dal secondo comma, il presidente, su richiesta del pubblico ministero, può autorizzare la contestazione nella medesima udienza, sempre che non ne derivi pregiudizio per la speditezza dei procedimenti.

Poichè il consenso dell'imputato è condizione indispensabile alla contestazione del fatto nuovo in udienza, il diritto di difesa è pienamente salvaguardato. Dipenderà infatti dalla valutazione dell'imputato, in ordine alla soluzione che egli reputi più conveniente per la sua difesa, la scelta di un nuovo procedimento che gli consentirà la richiesta di "patteggiamento", ovvero la rinuncia a questa possibilità e l'accettazione della contestazione nel dibattimento già in corso.

Ne deriva, inoltre, chiaramente che nemmeno si può configurare una ingiustificata disparità di trattamento fra due situazioni che sono in effetti diverse e soprattutto discendono da una libera opzione di linea difensiva operata dall'imputato.

Per le medesime ragioni, infine, va escluso che la disciplina in esame sia viziata da irrazionalità in quanto ostacolerebbe la speditezza dei procedimenti, impedendo, nella seconda delle ipotesi dianzi esaminate, il ricorso al "patteggiamento": non può, infatti, ritenersi di per sè irragionevole che il legislatore, una volta garantito il diritto di difesa, abbia ritenuto di non derogare al termine stabilito in via generale dall'art. 446, primo comma, del codice di procedura penale.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 446, primo e terzo comma, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Torino con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 07/02/94.

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

Mauro FERRI, Redattore

Depositata in cancelleria il 17/02/94.