Sentenza n. 378 del 1993

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SENTENZA N. 378

 

ANNO 1993

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Giudici

 

Dott. Francesco GRECO

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 13, primo e secondo comma, del decreto-legge 24 novembre 1990, n.344, convertito, con modificazioni, nella legge 23 gennaio 1991, n. 21 (Corresponsione ai pubblici dipendenti di acconti sui miglioramenti economici relativi al periodo contrattuale 1988-1990, nonchè disposizioni urgenti in materia di pubblico impiego), promosso con ordinanza emessa il 24 giugno 1992 dal Tribunale Amministrativo Regionale della Puglia - Sezione di Lecce sul ricorso proposto da Bisanti Antonio ed altri contro l'I.N.P.S., iscritta al n. 137 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell'anno 1993.

 

Visti gli atti di costituzione di Bisanti Antonio ed altri e dell'I.N.P.S., nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell'udienza pubblica del 6 luglio 1993 il Giudice relatore Francesco Guizzi;

 

uditi gli avvocati Giovanni Pellegrino per Bisanti Antonio ed altri, Fabio Fonzo per l'I.N.P.S. e l'avvocato dello Stato Mario Imponente per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

Tre avvocati dipendenti dell'INPS (decima qualifica funzionale nell'area professionale legale) proponevano ricorso al TAR della Puglia, sezione di Lecce, avverso un provvedimento di inquadramento operato dall'Ente nei livelli funzionali, lamentan do la irragionevole disparità di trattamento rispetto a colleghi di pari o minore anzianità di servizio nei livelli più elevati. Essi chiedevano la ricostruzione economica delle carriere e la condanna dell'Istituto alla corresponsione, dal 1° luglio del 1990, della medesima retribuzione percepita dai predetti avvocati, con pari o minore anzianità, collocati in più elevati livelli professionali.

 

I tre ricorrenti erano stati inquadrati, con effetti economici dal 1° luglio '90, due nel livello iniziale e l'altro nel primo livello differenziato.

 

Fasce di professionalità, queste, introdotte dall'art. 14 del d.P.R. n. 43 del 1990, successivamente recuperato - in seguito al mancato < visto> della Corte dei conti - dall'art. 13 del decreto-legge 24 novembre 1990, n.344, convertito, con modificazioni, nella legge 23 gennaio 1991, n. 2l.

 

Tale normativa ha infatti innovato il precedente quadro legislativo istituendo tre fasce di professionalità: un livello iniziale, un primo e un secondo, attribuendo ai due ultimi un contingente pari al 40 e al 20 per cento della dotazione organica (< area legale>) e differenziando i trattamenti retributivi iniziali.

 

L'accesso, sulla base di concorsi per titoli, è consentito dopo un'anzianità minima di servizio.

 

I tre ricorrenti percepivano un trattamento economico inferiore a quello di colleghi di minore anzianità, vincitori tuttavia del concorso per l'accesso ai predetti livelli professionali. Il TAR, investito anche di un'istanza cautelare, ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del già richiamato art. 13.

 

A giudizio del rimettente la previsione di accesso (per titoli) a livelli differenziati dell'area professionale legale innoverebbe fortemente rispetto all'assetto di cui alla legge n. 70 del 1975, la quale - istituendo il ruolo professionale - avrebbe fissato, per il personale degli enti pubblici, un'unica qualifica funzionale per tutti gli appartenenti all'< area legale>, nel cui ambito sarebbe stata assicurata la progressione economica con classi stipendiali basate esclusiva mente sull'anzianità di servizio. Tale normativa si sarebbe realizzata, pienamente, con la contrattazione collettiva recepita attraverso lo strumento del d.P.R. (411 del 1976, 509 del 1979, 346 del 1983, 267 del 1987).

 

Le richiamate fonti normative avrebbero previsto differenziazioni retributive soltanto per coloro i quali ricoprano incarichi di coordinamento.

 

L'ultimo accordo (2 agosto 1989 recepito nel d.P.R. n. 43 del 1990) prevedeva, nell'ambito della X qualifica funzionale, i già indicati livelli differenziati di professionalità.

 

Previsione cui sarebbe mancato, però, il "visto" della Corte dei conti, sì che sarebbe stata reintrodotta nell'identica formulazione da una serie di decreti legge, di cui l'ultimo convertito nella legge n. 21 del 1991.

 

L'innovazione sarebbe, per il TAR, in contrasto con il principio di perequazione retributiva ricavabile dal combinato disposto degli articoli 3, primo comma, e 36, primo comma, della Costituzione e dalla legislazione quadro, in ispecie la legge 29 marzo 1983, n. 93 in materia di pubblico impiego.

 

Il giudice a quo ha accolto le doglianze dei ricorrenti, sottolineando l'anomalia - pur in seguito a concorso - di scavalcamenti nell'accesso ai livelli differenziati superiori.

 

Una disparità ritenuta irrazionale, giacchè gli appartenenti al ruolo professionale svolgerebbero tutti la medesima attività. Qualora la questione dovesse risultare fondata - questa la conclusione del TAR - la norma censurata andrebbe eliminata e, conseguentemente, si renderebbe necessaria una ricostruzione del trattamento retributivo degli appartenenti alla predetta X qualifica.

 

Sono intervenuti i ricorrenti, tutti già patrocinanti in Cassazione, e hanno ribadito la loro doglianza circa l'identità di funzione, impegno e responsabilità degli appartenenti all'area professionale legale, sostenendo che una scelta razionale avrebbe dovuto comportare l'inserimento nel livello iniziale dei procuratori, nel primo differenziato degli avvocati e nel secondo, pur esso differenziato, dei patrocinanti in Cassazione. Non altra soluzione sarebbe stata ipotizzabile.

 

Il trattamento retributivo differenziato sarebbe in contrasto non soltanto con i già citati articoli 3 e 36 della Costituzione, ma anche con il 97.

 

Alcuni dipendenti potrebbero infatti rimanere a tempo indeterminato, anche sino al pensionamento, al livello stipendiale iniziale: il contingentamento numerico determinerebbe siffatta irrazionalità, che potrebbe essere eliminata prevedendo l'accesso ai livelli funzionali in base all'anzianità di servizio e, quindi, senza sbarramenti.

 

É intervenuto l'INPS, che ha chiesto la declaratoria di inammissibilità e, comunque, l'infondatezza della questione.

 

Con una prima memoria l'Istituto ha eccepito l'irrilevanza della questione, in quanto il rimettente avrebbe indicato erroneamente la norma senza coinvolgere nell'impugnativa altre disposizioni rilevanti. L'articolo 13 del decreto-legge 24 novembre 1990, n. 344, si comporrebbe di un solo comma e non di due. Si potrebbe certo supporre, secondo l'INPS, che il riferimento ai primi due commi attenga, in realtà, ai commi 12 e 13 dell'art. 14 del d.P.R 13 gennaio 1990, n. 43, così come modificato dal predetto art. 13 del decreto-legge; ma in tal caso mancherebbe il rapporto di conseguenzialità tra l'oggetto della domanda e le norme denunciate. Il presupposto e la differenziazione dei trattamenti retributivi sarebbero infatti costituiti dalla selezione concorsuale prevista dal terzo comma della norma impugnata, ovvero dal comma 14 dell'art. 14 del citato d.P.R. n. 43. La questione sarebbe comunque infondata, in quanto basata su un presupposto erroneo: la medesima attività professionale esplicata dagli appartenenti al ruolo professionale.

 

In una successiva memoria l'INPS ha aggiunto che la pronuncia additiva richiesta alla Corte invaderebbe l'ambito di discrezionalità del legislatore; ed ha precisato che l'irrilevanza della questione si paleserebbe anche in relazione alla misura cautelare sollecitata dai ricorrenti.

 

Essa supporrebbe l'accertamento del fumus boni iuris e del periculum in mora e, conseguentemente, l'accertamento del suo presupposto - l'identità di funzione - che è invece un postulato tutto da verificare processualmente in relazione al fumus e, dunque, motivato in funzione della rilevanza della questione.

 

Quanto alla infondatezza, l'Istituto considera arbitrario il richiamo alla legge 20 marzo 1975, n. 70, che non prescinde dal pregresso quadro normativo, ove si prevede per i professionisti degli enti pubblici un diverso sistema di retribuzioni ancorato ai gradi, al merito comparativo e ai concorsi, come avviene per l'Avvocatura dello Stato.

 

La realtà, secondo l'INPS, è diversa da quanto sostengono i ricorrenti: i professionisti del parastato svolgerebbero funzioni differenziate, perchè legati da un rapporto derivante sia dal mandato professionale sia dal pubblico impiego e, inoltre, perchè pure nello svolgimento del mandato professionale risulterebbero differenziati i livelli di merito e di capacità.

 

Sotto il profilo del rapporto di pubblico impiego si dovrebbero apprezzare, per vero, le diversità qualitative tra i professionisti e i livelli di produttività prefissati dall'ente. Di qui, l'arbitrarietà delle ipotesi avanzate dai ricorrenti circa una distinzione - quanto ai livelli professionali - fra procuratori, avvocati e patrocinanti in Cassazione: una distinzione apodittica e ignota a qualsiasi normativa di rango costituzionale.

 

Alla base della questione sollevata vi sarebbe, poi, il problema inerente alla tipologia dei titoli idonei ad immettere i professionisti nei livelli differenziati di professionalità; ma tale questione atterrebbe alla normativa regolamentare estranea al giudizio di costituzionalità promosso dal TAR.

 

É intervenuto infine il Presidente del Consiglio, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto il rigetto della questione perchè infondata. La norma impugnata sarebbe, ad avviso dell'Avvocatura, in linea con la legge quadro n. 93 del 1983, che delineerebbe per il pubblico impiego un ventaglio di professionalità distinte e diversamente retribuite. L'ordinanza si baserebbe, quindi, sul presupposto errato della identità di funzioni fra i legali dell'INPS.

 

Considerato in diritto

 

l. Viene all'esame della Corte la questione di legittimità costituzionale dell'art. 13, primo e secondo comma, del decreto-legge 24 novembre 1990, n.344 (Corresponsione ai pubblici dipendenti di acconti sui miglioramenti economici relativi al periodo contrattuale 1988- 1990 , nonchè disposizioni urgenti in materia di pubblico impiego), convertito nella legge 23 gennaio 1991, n. 21, con modificazioni (più esattamente trattasi dei commi 12 e 13 dell'art. 14 del d.P.R. 13 gennaio 1990, n. 43, quali risultano inseriti dall'art. 13 del citato D.L. 24 novembre 1990, n. 344). Normativa in contrasto con i principi di perequazione retributiva (secondo cui a identiche funzioni deve corrispondere identico trattamento economico), ricavabile dal combinato disposto degli articoli 3, primo comma, e 36, primo comma, della Costituzione e dalla normativa in materia di pubblico impiego; di ragionevolezza, considerato che gli appartenenti al ruolo professionale - area legale - dell'INPS svolgerebbero tutti la medesima attività in forza dell'abilitazione all'esercizio delle professioni di avvocato e procuratore; di buon andamento dell'amministrazione pubblica.

 

2. La difesa dell'INPS ha sollevato, nelle memorie scritte, alcune eccezioni di inammissibilità.

 

Va rigettata, anzitutto, quella relativa all'errata indicazione della norma impugnata. L'osservazione dei ricorrenti, secondo cui nell'ordinanza di rimessione la norma impugnata è stata adeguatamente individuata attraverso la trascrizione dei primi due capoversi, consente di superare l'eccezione sollevata dall'Istituto.

 

Ad analoga soluzione deve pervenirsi anche con riferimento alla seconda eccezione, quella circa il preteso difetto di rilevanza della questione prospettata dal Tribunale rimettente rispetto al giudizio di merito e a quello cautelare, sollecitato dai ricorrenti. E ciò perchè l'asserita manchevole valutazione del fumus boni iuris in sede cautelare, che pure non implica un'ampia motivazione, non è certo sindacabile in questa sede.

 

3. Meritevole di ben altra considerazione è, invece, l'eccezione di inammissibilità della questione proposta con riferimento all'esito additivo della pronuncia invocata.

 

Invero l'ordinanza - sia pure non formalmente, ma di certo nella sostanza - richiede l'affermazione dell'illegittimità costituzionale della norma impugnata con riferimento ai soli professionisti dell'area legale degli enti pubblici non economici, in tal modo allontanando il pericolo di un esito dagli effetti incontrollabili per la possibilità di coinvolgere anche altre categorie professionali (oltre quella degli avvocati e procuratori).

 

Quand'anche così limitato, il petitum di cui all'ordinanza di rimessione non è affatto univoco, bensì aperto a più di una soluzione. Non condurrebbe, infatti, all'invocato risultato univoco il riferimento a un meccanismo di mera ricostruzione economica delle retribuzioni dei professionisti, basato sulla anzianità di servizio, quale - ad avviso dei ricorrenti - risulterebbe dalla caducazione dei due commi impugnati, senza peraltro intaccare gli assetti organizzativi, la progressione nella carriera e i meccanismi di selezione. Ciò in quanto la pretesa irrazionalità dell'assetto retributivo denunciato è la conseguenza dell'attuale organizzazione della categoria professionale all'interno dell'< area legale>.

 

Capace com'è, tale assetto, di determinare disparità di trattamento economico - che potranno essere oggetto di ulteriore valutazione da parte del legislatore - tra professionisti aventi diverse abilitazioni professionali, a causa della differente anzianità dell'esercizio forense, potendo professionisti più giovani risultare favoriti da meccanismi di selezione basati su un con corso per soli titoli e sganciato dall'abilitazione posseduta, poichè, per la normativa in esame, non rileva l'essere procuratore legale, avvocato o addirittura patrocinante in Cassazione.

 

L'area legale - ai sensi dell'art. 17 della legge 20 marzo 1975, n. 70, sul riordinamento degli enti pubblici - avrebbe dovuto garantire, così come avviene per le categorie professionali più vicine, una differenziazione delle classi stipendiali conseguibili per anzianità, ma anche (in anticipo) a seguito del superamento, per un massimo di due volte, di < appositi concorsi o corsi interni di aggiornamento o specializzazione promossi dall'ente... per un numero di posti in ogni caso non superiore al 15% dei posti in organico nella qualifica>. Invece, il decreto-legge n. 344 del 1990, convertito, con modificazioni, nella legge 23 gennaio 1991, n. 21, nel generalizzare l'istituto del concorso (per soli titoli) come strumento di selezione per l'accesso ai due livelli differenziati di professionalità, ha sbarrato la strada al più lento, ma comunque sicuro, avanzamento per anzianità, quale canale parallelo di valorizzazione, anche economica, della professionalità.

 

Orbene, la progressione in carriera sulla base d'un siffatto concorso, del tutto avulso dalle abilitazioni conseguite nel rispetto della disciplina vigente, potrebbe non valorizzare pienamente la professionalità di questa specialissima categoria di pubblici dipendenti. Del resto, sia l'avvocatura pubblica sia quella libera conoscono forme di progressione professionale, rispettivamente nella carriera e nella professione, incentrate su rigorose prove di esame (anche scritte) o sulla base delle esperienze maturate in un adeguato, e comprovato nel tempo, esercizio professionale.

 

Se, invero, non è da revocarsi in dubbio che l'attività svolta dai professionisti legali è identica per tutti gli appartenenti all'< area legale> (perchè tutti indistintamente esplicano funzioni identiche), le differenze più significative rilevabili andrebbero riferite al valore dei singoli, cioè alle capacità di ciascuno nell'espletamento del mandato professionale, anche in considerazione della finalità perseguita dall'ente pubblico.

 

Questa Corte (sent. n. 928 del 1988

) ha già affermato la necessità di considerare entrambi i profili che vengono in rilievo quando si esamini la figura dei legali degli enti pubblici: quello di dipendente e quello di professionista. E se è nell'aspetto professionale l'ubi consistam dell'attività e la ragione stessa del reclutamento da parte dell'ente pubblico, tuttavia la progressione nella carriera e nel trattamento economico non può essere del tutto disancorata da quanto si verifica nel libero foro, ove si prende in considerazione l'anzianità nell'esercizio professionale e si consente l'iscrizione (meno rapida) all'albo degli avvocati e al patrocinio presso le giurisdizioni superiori.

 

Le norme impugnate sembrano ignorare queste modalità, sì che potrebbero apparire non conformi ai parametri costituzionali invocati; ma una decisione di accoglimento comporterebbe una pluralità di soluzioni che rientrano nella sfera di competenza del legislatore, qual è certo, tra l'altro, quella prospettata della difesa dei ricorrenti - con la previsione d'un ancoraggio alle diverse abilitazioni professionali - o, anche, quella cui si ispira l'Avvocatura dello Stato, là dove la progressione conosce una duplicità di strade entrambe idonee a contemperare l'anzianità di servizio con il valore individuale del singolo (si veda la sentenza di questa Corte n. 315 del 1993).

 

La questione, perciò, deve considerarsi inammissibile.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art.13, primo e secondo comma, del decreto-legge 24 novembre 1990, n. 344 (Corresponsione ai pubblici dipendenti di acconti sui miglioramenti economici relativi al periodo contrattuale 1988-1990, nonchè disposizioni urgenti in materia di pubblico impiego), convertito, con modificazioni, nella legge 23 gennaio 1991, n.21, sollevata con l'ordinanza indicata in epigrafe dal Tribunale Amministrativo Regionale della Puglia, in riferimento agli artt. 3, 36 e 97 della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 06/10/93.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Francesco GUIZZI, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 14/10/93.