Sentenza n. 580 del 1990

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SENTENZA N.580

ANNO 1990

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Giovanni CONSO, Presidente

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Dott. Francesco GRECO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 459, comma terzo, del codice di procedura penale, in relazione all'art. 129 dello stesso codice; 5 della legge 11 aprile 1990, n. 73 (Delega al Presidente della Repubblica per la concessione di amnistia) e 5 del D.P.R. 12 aprile 1990, n. 75 (Concessione di amnistia), promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 22 giugno 1990 dal G.I.P. presso la Pretura di Marsala nel procedimento penale a carico di Rizzo Ninfa, iscritta al n. 538 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell'anno 1990;

2) ordinanza emessa il 12 luglio 1990 dal G.I.P. presso la Pretura di Marsala nel procedimento penale a carico di Ribaudo Vito Roberto, iscritta al n. 532 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell'anno 1990.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 12 dicembre il Giudice relatore Ettore Gallo.

Ritenuto in fatto

1.- Con ordinanza 22 giugno 1990, il Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Marsala sollevava questione di legittimità costituzionale degli artt. 459, comma terzo, in relazione all'art. 129 cod. proc. pen., 5 della legge 11 aprile 1990, n. 73, e 5 d.P.R. 12 aprile 1990, n. 75, in riferimento agli artt. 3, comma primo, e 24, commi primo e secondo, della Costituzione.

Successivamente, con ordinanza 12 luglio 1990, sollevava in altro procedimento penale identica questione in riferimento agli stessi parametri, argomentando con le stesse parole della precedente.

La questione é stata occasionata dalla sopravvenienza di un decreto di amnistia rinunziabile, dopo che il pubblico ministero aveva richiesto al G.I.P. di emettere decreto di condanna a carico dell'imputato per il reato di assegno a vuoto. Osserva il giudice che negli atti c'é prova certa della commissione del reato, rappresentata dall'attestazione del notaio che, allegando fotocopia del titolo, accerta che gli é stato trasmesso per il protesto dall'Istituto trattario: anche se poi gli é stato chiesto in restituzione dallo stesso Istituto per essere stati i fondi ricostituiti.

Ciononostante rileva il giudice a quo di non poter aderire alla richiesta dei pubblico ministero a causa della sopravvenuta amnistia, ma di non potere nemmeno dichiarare l'estinzione dei reato perchè, essendo l'amnistia rinunciabile, l'imputato dev'essere messo in condizione di conoscere resistenza dei processo a suo carico, al fine dell'eventuale esercizio della rinunzia, che questa Corte ha definito come aspetto fondamentale dei diritto di difesa (sent. 14 luglio 1971, n. 175). Afferma, però, il giudice di non ravvisare nell'ordinamento processuale strumenti idonei a dare all'imputato conoscenza del procedimento.

Esclusi, infatti, gli strumenti escogitati sotto la vigenza dei codice processuale precedente, che risulterebbero inattuabili in un modello processuale dei tutto diverso, nemmeno si ritiene possibile adottare le regole generali di cui all'art. 127 cod. proc. pen., che disciplinano il procedimento in camera di consiglio.

Secondo l'ordinanza, infatti, il procedimento camerale si riferirebbe ad ipotesi tassative, che nella specie non ricorrono, e va comunque definito con ordinanza (art. 127, comma 7, cod. proc. pen.), mentre la declaratoria de qua va pronunziata con sentenza (art. 129, comma 2, cod. proc. pen.).

Fra l'altro - secondo il remittente - l'imputato non troverebbe rimedio nemmeno nell'impugnazione del provvedimento che avesse applicato l'amnistia senza consentirgli la possibilità di rinunziare, perchè il giudice di secondo grado potrebbe decidere nel merito - previa eventuale rinnova2ione del dibattimento - soltanto nel caso in cui riconosca erronea la declaratoria di estinzione del reato.

Da tutto questo la lesione dei principi costituzionali invocati, sia perchè, a differenza degli altri modelli processuali, l'azione per decreto priva l'imputato della possibilità di conoscere l'esistenza del procedimento e quindi di rinunziare all'eventuale amnistia (art. 3, primo comma, Cost.), sia perchè questi viene privato della facoltà di agire e viene leso il suo diritto di difesa (art. 24, primo e secondo comma, Cost.).

2.- É intervenuto nel giudizio il Presidente dei Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, la quale ha chiesto che la questione sia dichiarata non fondata.

Considerato in diritto

1. - Le due ordinanze sollevano la stessa questione di legittimità costituzionale in relazione allo stesso reato e al procedimento per decreto, con riferimento ai medesimi parametri costituzionali. I due procedimenti, pertanto, possono venire riuniti per essere decisi con unica sentenza.

2. -La questione riguarda la sopravvenienza dell'amnistia dopo che il pubblico ministero ha richiesto al G.I.P. l'emissione del decreto penale di condanna. L'imputato ignora che a suo carico sia in corso procedimento penale perchè questo si apre proprio con la richiesta del pubblico ministero che non gli viene notificata, nè c'è stata mai occasione nella fase delle indagini preliminari di incidente probatorio o di interrogatorio.

Sostiene il rimettente che una siffatta situazione, determinata dagli articoli impugnati, viola i parametri invocati perchè il giudice non può accogliere la richiesta del pubblico ministero, nè pronunziare la sentenza che dichiara l'estinzione del reato, à sensi dell'art. 129, 2° comma, cod. proc. pen., se prima l'imputato non è stato messo in condizioni di rinunciare, se lo voglia, all'amnistia. Egli, però, non ravvisa alcuno strumento processuale per dare notizia all'imputato della pendenza del procedimento, e perciò solleva la riportata questione.

3. - La questione non è fondata.

Intanto, va detto subito che non è esatto che l'imputato non troverebbe rimedio, nemmeno attraverso il gravame d'appello, alla declaratoria di estinzione del reato, pronunziata senza che egli fosse stato posto in grado di rinunziare all'amnistia. Una volta, infatti, che il giudice riconosce che l'amnistia non può essere applicata allorchè l'imputato ignora l'esistenza del processo, perchè gli verrebbe confiscato un diritto (quello di rinunzia all'amnistia) che trova il suo supporto in un principio costituzionale (art 24, 2° comma), sembra evidente che se, al contrario, il giudice pronunziasse la sentenza di estinzione del reato quando l'imputato fosse stato determinato a rinunziare all'amnistia, la pronuncia integrerebbe <una decisione erronea>.

Proprio l'ipotesi, cioè, prevista dall'art. 604, co. 6, cod. proc. pen., che consente al giudice d'appello di decidere nel merito, se l'imputato ha impugnato per rinunziare all'amnistia.

Ma la questione è un'altra: quella secondo cui non potrebbe essere posta a carico dell'imputato la via del gravame, senza che la legge gli appresti la possibilità di esprimere la sua rinunzia prima della decisione di primo grado. Altro è, infatti, il caso dell'errore del giudice, altro che la legge lasci al giudice la sola alternativa della declaratoria di estinzione del reato, sia o non consapevole l'imputato della pendenza del procedimento.

É proprio qui, dunque, il punto decisivo della questione: se sia vero, cioè, che il giudice per le indagini preliminari, a fronte della richiesta di decreto penale avanzata dal pubblico ministero, non abbia nella legge processuale, nel caso di sopravvenienza dell'amnistia, alcuno strumento per renderne edotto l'imputato al fine di consentirgli di esprimere eventuale rinunzia.

4. - Non senza ragione, intanto, rileva l' Avvocatura generale che la previsione del terzo comma dell'art. 459 cod. proc. pen. non esclude per nulla, nelle more della decisione, <il compimento di quelle attività materiali (biglietto di cancelleria, avviso scritto, convocazione informale) volte a rendere concretamente attuabile il principio di diritto sostanziale fissato negli articoli 5 della legge e del decreto presidenziale d'amnistia>.

Ma quand'anche siffatte innocue escogitazioni, intese soltanto a favorire l'imputato, fossero ritenute non ortodosse, e comunque certamente non obbligatorie per il giudice, non è vero che la legge non preveda strumenti idonei a consentire una formale informazione all'imputato. E la soluzione è proprio nella norma impugnata.

Il comma terzo dell'art. 459 prescrive, infatti, testualmente che, quando il giudice <non accoglie la richiesta (del pubblico ministero), se non deve pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell'art. 129, restituisce gli atti al pubblico ministero>.

Ora, che nella specie il giudice non debba accogliere la richiesta del pubblico ministero, è pacifico e lo afferma anche il rimettente: egli non può, infatti, emettere decreto penale di condanna perchè è sopravvenuto il decreto d'amnistia. Ma non deve nemmeno pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell'art. 129, sia perchè non ricorrono le altre condizioni (c'è in atti la prova documentale, certificata dal notaio, della commissione del reato di emissione di assegno a vuoto), sia perchè l'estinzione del reato non può essere pronunciata, se prima non è stata portata a cognizione dell'imputato l'esistenza del processo, dato che la stessa legge di amnistia (art. 5) gli consente espressamente la possibilità di avvalersi della facoltà di rinunzia, manifestazione di un diritto costituzionalmente tutelato.

Ciò è tanto riconosciuto dal giudice rimettente da fondare sul dovere di osservanza di quel diritto la sollevata questione di legittimità costituzionale. Il giudice, perciò, è consapevole che <non deve pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell'art. 129 cod. proc. pen.>.

Ma allora, se così è, bastava dare corso all'ulteriore disposto della norma impugnata secondo cui, in tal caso, il giudice <restituisce gli atti al pubblico ministero>.

A quel punto, quest'ultimo potrà avvalersi dell'art. 375 cod. proc. pen. e invitare la persona interessata a presentarsi, precisando il tipo di atto per il quale l'invito è predisposto (lett. c dell'art. 375): e, cioè, spiegando che viene invitato a dichiarare se intenda o meno rinunciare all'amnistia à sensi dell'art. 5 del d.P.R. n. 75 del 1990, altrimenti si procederà alla declaratoria di estinzione del reato. E poichè una siffatta decisione implica una valutazione tecnica e una manifestazione di volontà dispositiva sull'ulteriore corso del procedere, sarà opportuno anche l'invio della informazione di garanzia ex art. 369 cod. proc. pen.

Tutto ciò, comunque, viene detto a solo titolo dimostrativo delle non poche possibilità formali ed informali offerte dal sistema per raggiungere il fine doveroso di non offendere diritti costituzionalmente garantiti. La loro scelta è affidata, però, ai poteri della magistratura di merito.

Infine, la questione concernente gli artt. 5 della legge e del decreto, citati in epigrafe, resta ovviamente assorbita.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 459, comma terzo, in relazione all'art. 129 cod. proc. pen., 5 della legge 11 aprile 1990, n. 73, e 5 del d.P.R. 12 aprile 1990, n. 75, sollevata dal Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Marsala, con le ordinanze 22 giugno e 12 luglio 1990, in riferimento agli artt. 3, comma primo, e 24, commi primo e secondo, della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12/12/90.

Giovanni CONSO, PRESIDENTE

Ettore GALLO, REDATTORE

Depositata in cancelleria il 28/12/90.