Sentenza n. 233 del 1989

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SENTENZA N.233

ANNO 1989

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Dott. Francesco SAJA, Presidente

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Prof. Renato DELL'ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 52, comma primo, della legge 27 dicembre 1953, n. 968 (Concessione di indennizzi e contributi per i danni di guerra), promosso con ordinanza emessa il 23 maggio 1988 dal T.A.R. del Lazio sul ricorso proposto da Mina Carlo ed altro contro il Ministero del Tesoro, iscritta al n. 678 del registro ordinanze 1988 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell'anno 1988.

Visto l'atto di costituzione di Mina Carlo ed altro, nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 7 marzo 1989 il Giudice relatore Ettore Gallo;

uditi l'avvocato Claudio Schwarzenberg e l'Avvocato dello Stato Antonio Bruno per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Considerato in diritto

 

1. - Sfrondata dalle considerazioni ultronee, la sollevata questione prospetta in sostanza l'illegittimità costituzionale della norma impugnata, sostenendo l'arbitrarietà e l'irrazionalità della disposizione che subordina la concessione di contributo di ricostruzione, o di indennizzo, al cittadino italiano che abbia subito danni all'estero per fatti di guerra, alla condizione della residenza e del domicilio in Italia al momento di entrata in vigore della legge.

La violazione dell'art. 3 della Costituzione discenderebbe, secondo l'ordinanza, dal trattamento privilegiato che viene, invece, elargito ad altri cittadini italiani che gli stessi danni, e per le stesse cause, hanno riportato nel territorio metropolitano, o in quelli già soggetti alla sovranità italiana, o comunque all'Italia legati da vincoli particolari (Albania). A questi, infatti, non é imposta la detta condizione della residenza, mentre vengono loro riconosciuti anche altri meno rilevanti vantaggi.

Una siffatta situazione, peraltro, sarebbe anche incompatibile con il principio di cui all'art. 35, ultimo comma, della Costituzione, che tutela il lavoro italiano all'estero.

2. - La questione non é fondata.

Va detto subito, intanto, che alcuna rilevanza può avere la circostanza ricordata dall'ordinanza di rimessione, secondo cui il Mina sarebbe stato impossibilitato a prendere residenza in Italia fino al momento dell'entrata in vigore della legge (16 gennaio 1954) perché trattenuto forzatamente in Cina dal governo di quel Paese. Si tratterebbe, infatti, di circostanza di fatto, che la parte ben avrebbe potuto far valere davanti al Giudice di merito come causa di forza maggiore, ma comunque estranea al problema di legittimità costituzionale sollevato.

Quanto alla questione, non sembra che la sentenza di questa Corte n. 90 del 1971 riguardi ipotesi diversa, né che essa sia inficiata da alcun errore.

Non si tratta di caso diverso perché anche quella specie riguardava un cittadino italiano che, per fatti di guerra, aveva subito danni in Siria: ed infatti nessuno contestava - come qui non si contesta - che la situazione consentisse sul piano oggettivo al cittadino di aspirare ad un indennizzo.

Anche in quel caso, però, come in questo, al momento dell'entrata in vigore della legge il cittadino non aveva in Italia né residenza né domicilio.

Ma nemmeno é ravvisabile nella detta sentenza errore giuridico o logico alcuno.

3.-Va ricordato innanzitutto, giusta annosa e consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato, che in questi casi la pretesa del cittadino non integra alcun diritto soggettivo, ma soltanto un interesse legittimo. Il diritto soggettivo sorge dopo la liquidazione del danno e riguarda esclusivamente il materiale conseguimento del controvalore.

Si tratta, dunque, di un beneficio che lo Stato discrezionalmente concede ai cittadini danneggiati da fatti di guerra, e che perciò é ragionevole debba essere condizionato e subordinato alle particolari finalità generali che lo Stato intende perseguire.

Orbene che - come ricordava la citata sentenza di questa Corte- tali finalità d'interesse generale fossero effettivamente quelle concernenti la rianimazione della vita economica e della ripresa produttiva del Paese, prostrato dalla guerra, risulta sia dalla relazione Vanoni al disegno di legge n. 2379 presentato alla Camera nel 1951 (ricordata dalla precedente sentenza), sia da quella del Ministro del Tesoro, Gava, al disegno di legge n. 230, presentato alla Camera nel 1953 nei sostanziali termini del precedente.

<L'esigenza fondamentale, e pertanto la nota dominante e preminente del progetto di legge-scriveva il Ministro Vanoni - é la ricostruzione del Paese>: e proseguiva rilevando che <ricostruzione significa ripresa economica produttiva del Paese e non già ripristino puro e semplice del bene distrutto>, talché l'indennizzo veniva concesso <al fine di reinserire nella vita economica e produttiva del Paese tutti i cittadini che abbiano comunque sofferto danni dalla guerra>. Per tal modo, si precisava in altro passo che <l'interesse privato viene, cioè, assunto come strumento giuridico per la realizzazione dell'interesse pubblico>.

Parimenti rilevava la relazione Gava che <Il disegno di legge... si ispira a una duplice esigenza: dare una definitiva sistemazione unitaria e organica alla complessa materia... e attuare la ricostruzione del Paese affidandola all'iniziativa privata, mediante la reintegrazione patrimoniale del danno sofferto dal cittadino>: e proseguiva: <l'interesse privato é, cioè, assunto nella legge quale strumento giuridico per la realizzazione del pubblico interesse>.

4. - Se questo, dunque, é l'interesse pubblico generale che ispira la ratio della legge, la quale ad esso subordina e condiziona l'interesse privato al ristoro dei danni, é evidente che in siffatto contesto debbono essere lette e interpretate le particolari disposizioni che regolano i vari rapporti.

In altri termini, il problema che lo Stato doveva risolvere era quello di garantirsi, nei limiti del possibile, che i vantaggi da elargire ai privati cittadini, danneggiati nei beni da fatti di guerra, venissero effettivamente poi destinati alla ripresa economica e produttiva del Paese.

Per quanto concerneva i contributi di ricostruzione dei beni immobili, la soluzione era abbastanza semplice. Fu imposto, infatti, a tutti che la ricostruzione dovesse avvenire sul territorio nazionale, e sotto la vigilanza tecnica dell'Amministrazione competente, e si dispose che il pagamento avvenisse ad opera ultimata. Per una certa eccezione a tale sistema, sarà detto fra poco. Di più difficile soluzione era, invece, il problema degli indennizzi pecuniari.

A fronte di tali problemi, peraltro, la posizione dei cittadini danneggiati non era omogenea.

C'era innanzitutto quella dei cittadini che avevano subito danni nel territorio metropolitano, o nei territori già sottoposti alla sovranità italiana, o comunque in territori legati all'Italia da stretti vincoli giuridici. Si trattava di cittadini che da alcuni decenni vivevano in terre italiane o sotto la bandiera e le istituzioni dell'Italia, o infine in territori dove gli insediamenti si erano verificati, ed erano stati favoriti, a causa di stretti vincoli giuridici che legavano quelle terre all'Italia (Albania). Per tutti costoro era ragionevole la praesumptio hominis secondo cui, venendo meno la sovranità e la protezione italiana a seguito della guerra e del trattato di pace, si sarebbero ritirati sul suolo patrio, spesso anche per sfuggire a persecuzioni o a gravissime discriminazioni.

In tale fondata prospettiva (in realtà, largamente avveratasi), il legislatore non ha ritenuto di imporre alcuna particolare condizione di garanzia, apparendo estremamente probabile che costoro avrebbero impiegato gli indennizzi per il loro reinserimento nell'attività economica e produttiva del Paese, sotto la cui bandiera erano nati e vissuti e nel cui territorio si rifugiavano.

Per questi, anzi, sciogliendo la riserva più sopra espressa, va ricordata l'eccezione che consentiva la ricostruzione degl'immobili-sempre, però, a domanda e a discrezione dello Stato - nel luogo stesso dove i beni erano stati distrutti. Ma quest'ultima disposizione era limitata al territorio libero di Trieste, alla Libia, all'Eritrea, e al territorio della Somalia lasciato dai trattati sotto l'amministrazione fiduciaria italiana: in altre parole, a quelle zone o sicuramente italiane (come il territorio libero di Trieste, che ritorno successivamente alla madrepatria), o dove gl'insediamenti italiani si erano radicati da molti decenni e in situazione di pacifica integrazione, in guisa che l'abbandono poteva risultare pregiudizievole anche agl'interessi generali dell'Italia.

5. -Ben diversa, invece, era la situazione dei cittadini che avevano subito danni all'estero: vale a dire in territori che non erano mai appartenuti all'Italia, ne erano particolarmente all'Italia legati da stretti vincoli giuridici. In quelle terre i cittadini italiani si erano recati per autonoma determinazione, senza nemmeno la giustificazione dell'espansione del Paese, come era avvenuto per le colonie e per il Dodecanneso.

Per di più poi siffatte situazioni riguardavano prevalentemente danni subiti da cittadini italiani in altri Continenti o in terre lontanissime, giacche per i territori europei, o per quelli extraeuropei in consuetudine di rapporti migratori, si applicavano speciali accordi o convenzioni internazionali, come espressamente risulta dalla riserva contenuta proprio nel denunciato art. 52, primo comma, primo inciso, della legge impugnata.

Sicché non poteva esservi alcuna probabile prospettiva di rientro da parte di cittadini che da anni si erano insediati spontaneamente in terre lontane, fuori di ogni rapporto di sovranità o di diretta protezione da parte dell'Italia, e vi avevano costituito imprese ed interessi del tutto estranei alle finalità di ricostruzione del nostro Paese.

Per questi, é parso giusto e ragionevole allo Stato non escluderli dai sostanziali benefici elargiti dalla legge, ma almeno condizionare l'elargizione ad una presunzione di destinazione alle finalità generali che s'appoggiasse, pero, su certezze giuridiche, e non soltanto su quelle di mero fatto come per i cittadini che alle sorti dell'Italia erano sempre rimasti affidati.

Parve opportuno al legislatore ravvisare nella residenza e nel domicilio in Italia di tali cittadini, all'atto dell'entrata in vigore della legge, quella garanzia che rendeva più consistente la speranza di investimento delle elargizioni ricevute nella ricostruzione economica e produttiva del Paese. Se colui che era emigrato in terre lontanissime, a circa nove anni dalla fine del conflitto non era ancora rientrato in Italia, era difficile ritenere che avrebbe qui investito l'indennizzo per danni subiti laggiù.

La condizione, pertanto, non é né arbitraria né irragionevole ed é perfettamente giustificato che non sia stata apposta per l'altra categoria di cittadini che versavano in situazione nettamente diversa.

Che poi, quanto all'indennizzo, potesse verificarsi che, una volta incassato, taluno emigrasse all'estero, é rischio calcolato e non altrimenti evitabile, se si voleva rispettare il principio di cui al secondo comma dell'art. 16 della Costituzione.

6. -Assolutamente inconferente, infine, al caso di specie e il pure invocato parametro di cui all'ultimo comma dell'art. 35 della Costituzione. Qui, infatti, si verte in tema di contributi ed indennizzi per danni subiti da cittadini italiani all'estero nei loro beni mobili ed immobili, a causa di fatti bellici.

L'ultimo comma dell'art. 35 della Costituzione, invece, inserito nel contesto dei <Rapporti economici>, si riferisce alla tutela dell'attività lavorativa dell'emigrante: nel senso dell'obbligo per la Repubblica di predisporre, da una parte, strumenti e organismi che facilitino l'inserimento del lavoratore emigrante nel lavoro e nelle complessive situazioni di vita civile e sociale del Paese straniero, e di intervenire, dall'altra, attraverso rapporti e convenzioni con i Paesi di immigrazione, per assi curare al lavoratore italiano condizioni di reciprocità negli istituti concernenti la previdenza e le assicurazioni sociali.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 52, primo comma della legge 27 dicembre 1953, n. 968 (Concessione di indennizzi e contributi per i danni di guerra), in riferimento agli artt. 3 e 35, quarto comma, della Costituzione, sollevata dal T.A.R. del Lazio con ordinanza 23 maggio 1988.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13/04/89.

 

Francesco SAJA - Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Renato DELL'ANDRO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Mauro FERRI - Luigi MENGONI - Enzo CHELI.

 

Depositata in cancelleria il 21/04/89.

 

Francesco SAJA, PRESIDENTE

Ettore GALLO, REDATTORE