Sentenza n.17 del 1987

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SENTENZA N. 17

ANNO 1987

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici

Prof. Antonio LA PERGOLA, Presidente

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL'ANDRO

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Francesco P. CASAVOLA

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 1 della legge 9 dicembre 1977 n. 903 (Parità di trattamento fra uomini e donne in materia di lavoro) e 15, ultimo comma, della legge 20 maggio 1970 n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento); dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300 promosso con l'ordinanza emessa il 19 dicembre 1978 dal Pretore di Torino nel procedimento civile vertente tra Figus Albina e Istituto di Vigilanza "Città di Torino" iscritta al n. 85 del registro ordinanze 1979 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 95 dell'anno 1979;

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nella camera di consiglio dell'11 dicembre 1986 il Giudice relatore Francesco Greco;

Ritenuto in fatto

1. - Con ricorso al Pretore di Torino Figus Albina, premesso che aveva prestato la sua opera alle dipendenze dell'Istituto di Vigilanza "Città di Torino" in qualità di guardia giurata e che in data 1ø settembre 1978 era stata licenziata per l'asserita ragione della sopravvenuta mancanza di posti di lavoro suscettibili di essere assegnati a personale di sesso femminile, chiedeva che il licenziamento fosse dichiarato illegittimo, siccome privo di giusta causa o di giustificato motivo e, comunque, disposto in violazione del divieto di atti discriminatori di cui all'art. 13 della legge 9 dicembre 1977 n. 903, con conseguente condanna del datore di lavoro a reintegrarla nel posto di lavoro, a corrisponderle le retribuzioni medio tempore maturate ed a risarcirle il danno subito.

Il giudice adito, con ordinanza emessa il 19 dicembre 1978, regolarmente comunicata, notificata, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 95 del 4 aprile 1979 ed iscritta al R.O. n. 85/79, sollevava questione di legittimità costituzionale: a) degli artt. 1 della legge 9 dicembre 1977 n. 903 e 15, ultimo comma, della legge 20 maggio 1970 n. 300, in relazione agli artt. 3, 4 e 37 Cost., nella parte in cui il combinato disposto di dette norme esclude, rispetto al lavoratore e al datore di lavoro, la rilevanza del comportamento del terzo che comunque determini il datore di lavoro stesso ad una condotta violatrice del principio di parità fra uomo e donna; b) dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300, in relazione agli artt. 3, 24, 36 e 37 Cost., nella parte in cui, con l'inciso "a norma della legge stessa" esclude la tutela della reintegrazione e del risarcimento del danno nelle ipotesi di nullità del licenziamento diverse da quelle previste dall'art. 4 della legge 15 luglio 1966 n. 604.

Circa la non manifesta infondatezza della questione sub a) osservava: 1) il concetto di atto discriminatorio, ai sensi della censurata normativa, é da ritenersi comprensivo dei soli casi di trattamento deteriore posti in essere dal datore di lavoro, in assenza di condizionamenti esterni, sicché, in ipotesi di inesistenza di un mercato disposto ad accettare un servizio reso dalle donne, (come in quello del venir meno di un mercato siffatto), simmetricamente si produce una situazione di impossibilità di utilizzazione del lavoro femminile, configurabile, rispetto al personale già impiegato, come un giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Ritenere che il divieto di discriminazione in ragione del sesso perduri, pur in presenza del suddetto condizionamento di mercato, nell'ambito del singolo rapporto di lavoro, implicherebbe l'illegittima conseguenza della creazione, in assenza di apposita previsione legislativa, di una sorta di imponibile di manodopera a carico del datore di lavoro, privato del potere di recedere in relazione alla necessità di eliminare un posto di lavoro, impostagli dal fatto di dovere operare in quel mercato. 2) D'altra parte é da negare che il divieto di atti discriminatori risultante dal combinato disposto degli artt. 1 legge n. 903/77 e 15 lettera b) legge n. 300/70, come modificato dall'art. 13 della stessa legge n. 903/77 si riverberi sui terzi estranei al rapporto di lavoro e che un'estensione in tal senso possa compiersi in via ermeneutica. Il tenore letterale delle norme e la loro ratio rendono palese che la disciplina dettata inerisce strettamente alla costituzione ed allo svolgimento del rapporto, sicché la loro più generale applicabilità nell'ambito del mercato che tale rapporto determina risulta altresì preclusa sotto il profilo analogico, cui del resto, almeno per la disposizione dell'art. 1 legge n. 903/77, é d'ostacolo, trattandosi di norma penale, anche l'art. 14 delle preleggi. 3) Così argomentata, la carenza di una norma che, imponendo anche al terzo il divieto di comportamenti discriminatori, impedisca al datore di lavoro di invocare il suddetto giustificato motivo oggettivo di recesso, appare in contrasto con i riferiti precetti costituzionali e segnatamente con quello di parità, fonte di diritti assoluti che si impongono nei riguardi di tutti i consociati e non solo dei soggetti titolari di specifici rapporti come quello di lavoro.

In merito alla non manifesta infondatezza della questione sub b) il giudice a quo osservava poi che, ai sensi dell'art. 18 della legge n. 300/70 i casi di nullità del licenziamento per i quali si fa luogo alla tutela reintegratoria e risarcitoria ivi prevista sono, per espressa menzione della norma, soltanto quelli di cui all'art. 4 della legge 15 luglio 1966 n. 604 e non anche quelli ulteriori configurabili alla stregua dell'art. 15 della stessa legge n. 300/70, che, infatti, diversamente dal citato art. 4 legge n. 604/66, non é richiamato dall'art. 18. Il caso di specie, dunque, anche ove fosse configurabile la nullità dell'impugnato licenziamento ai sensi dell'art. 15 legge n. 300/70 come modificato dall'art. 13 legge n. 903/77, non consentirebbe la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno in misura pari almeno al minimo di legge: onde la violazione dei ricordati parametri costituzionali, in relazione al diverso trattamento previsto per i casi di nullità contemplati dall'art. 4 legge n. 604/66.

2. - Nel susseguente giudizio davanti a questa Corte é intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri per il tramite dell'Avvocatura dello Stato, la quale ha sollecitato la declaratoria di infondatezza delle esaminate questioni. Quanto alla prima, in particolare, ha osservato che la tutela della parità dei sessi nell'ambito del rapporto di lavoro, quale é assicurata dalla normativa censurata, risulta del tutto conforme agli invocati precetti costituzionali anche in difetto di una estensione erga omnes, che implichi cioè il coinvolgimento di tutti gli operatori del mercato nel quale il singolo datore di lavoro si trovi ad operare. Se, infatti, é vero che quest'ultimo non può non risentire dei condizionamenti del mercato stesso, non é meno vero che, una volta introdotte certe limitazioni del suo potere di organizzazione, nel senso che questo non può svolgersi in pregiudizio della parità dei sessi, anche il mercato, inversamente, finisce per risentire le conseguenze di un'organizzazione imprenditoriale che non può superare quelle limitazioni e per prendere atto della impossibilità di soddisfare eventuali sue preferenze in ordine al sesso del personale incaricato dell'espletamento di un dato servizio. Non può dunque negarsi che una tutela della parità dettata con specifico riguardo al rapporto di lavoro, nel cui ambito il problema si avverte con particolare pregnanza, sia anche potenzialmente idonea a realizzare in via più generale i principi costituzionali nella direzione segnata dall'art. 3 comma secondo Cost. D'altra parte, il divieto di discriminare nell'organizzazione del lavoro, da parte dell'imprenditore, non potrebbe non reagire sulla validità delle clausole dei contratti con terzi che prevedessero la discriminazione vietata dalla legge, comportandone l'invalidità; e l'imprenditore che ad esse prestasse ossequio, volontariamente accederebbe alle ipotetiche "preferenze" dei clienti sicché sarebbe sempre soggetto alle sanzioni poste per quel divieto.

Quanto alla seconda questione, l'Avvocatura dello Stato ha osservato che il mancato richiamo dell'art. 18 legge 20 maggio 1970 n. 300 al precedente art. 15 e, più in generale, a casi di nullità del licenziamento anche diversi da quelli contemplati nell'art 4 legge n. 604/66 costituisce un mero difetto di coordinamento superabile in via ermeneutica. Già parte della dottrina aveva rilevato come l'elencazione delle discriminazioni vietate ex art. 4 legge n. 604/66 deve riconoscersi quale mera esemplificazione, con conseguente estensione della sanzione di nullità anche a casi analoghi; ma, poi, il sopravvenire dell'art. 15 della legge n. 300/70 che, riprendendo il filo del discorso introdotto con la norma precedente, ne ha, sul piano delle specifiche previsioni, arricchito l'elencazione, ha reso palese la necessità che l'una disposizione si legga con le integrazioni risultanti dall'altra, come, a sua volta, successivamente integrata dall'art. 13 della legge n. 903/77.

La difesa dell'autorità intervenuta ha, infine, rilevato che quand'anche non si ritenesse di poter accedere a siffatta prospettazione ermeneutica, l'esclusione della tutela reintegratoria ex art. 18 legge n. 300/70 nel caso del licenziamento discriminatorio per motivi di sesso non violerebbe di per sé i accennati precetti costituzionali poiché, da un lato, resterebbe comunque assicurata alla lavoratrice la tutela derivante dalla possibilità di far valere le conseguenze di diritto comune proprie della nullità dell'atto di recesso e, dall'altro lato la diversità di questa tutela rispetto all'altra apprestata dal combinato disposto degli artt. 4 legge n. 604/66 e 18 legge n. 300/70 sarebbe ampiamente giustificabile in ragione del diverso rilievo attribuibile, in relazione agli specifici interessi tutelati, alle norme poste a presidio delle libertà individuali (politiche, sindacali o religiose) ed a quelle concernenti la parità di trattamento tra uomini e donne.

Considerato in diritto

1. - Il Pretore dubita:

a) della legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 1 legge 9 dicembre 1977 n. 903 e 15, ultimo comma, legge 20 maggio 1970 n. 300, nella parte in cui importa l'esclusione della rilevanza, rispetto al lavoratore e al datore di lavoro, del comportamento del terzo che comunque determini il datore di lavoro ad una condotta violatrice del principio di parità uomo-donna, in quanto risultano violati gli artt. 3, 4 e 37 Cost. perché, non essendo assicurata l'uguaglianza dei sessi nei confronti di tutta la collettività, viene ridotta la sfera della tutela del diritto al lavoro della donna;

b) della legittimità costituzionale dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300 in quanto, limitando la tutela reintegratoria e risarcitoria ivi prevista, ai soli casi di nullità del licenziamento ex art. 4 legge n. 604/66, discrimina irrazionalmente tra lavoratori ammessi a siffatta tutela e lavoratori ai quali essa é negata, pur in presenza di un licenziamento nullo anche se per una causa non formalmente contenuta nella detta norma, sicché risultano violati gli artt. 3, 24, 36 e 37 Cost.

2. - Le questioni non sono fondate.

2.1 - Relativamente alla prima questione, la Corte osserva che l'art. 37 Cost., il quale sancisce parità di diritti e di retribuzione, a parità di lavoro, tra la lavoratrice ed il lavoratore ed ha successivamente avuto specifica attuazione con la legge 9 dicembre 1977 n. 903, ha efficacia generale per tutti i cittadini che, pertanto, lo devono osservare.

Per quanto riguarda in particolare il rapporto di lavoro, esso deve essere osservato dal datore di lavoro e dal terzo a favore del quale va il risultato dell'attività del datore di lavoro e che forma oggetto di apposito contratto.

Di guisa che questo anzitutto non può contenere clausole che importino una discriminazione, solo per ragioni di sesso, a danno della lavoratrice impiegata in detta attività e le dette clausole, eventualmente pattuite, sono nulle.

Inoltre, il datore di lavoro può opporsi alla risoluzione del contratto chiesta dal terzo per ragioni che comunque importino discriminazione a danno di lavoratrici per ragioni di diversità di sesso.

Nel rapporto tra lavoratrice e datore di lavoro, quest'ultimo non può porre a base dell'eventuale rifiuto dell'assunzione della lavoratrice ragioni unicamente fondate sulla differenza di sesso o che, comunque, sanciscano una discriminazione fondata su identici motivi.

E lo stesso datore di lavoro non può porre a giustificato motivo obiettivo dell'eventuale licenziamento intimato alla lavoratrice motivi che sanciscano discriminazione per la detta ragione.

Né il suo comportamento può trovare giustificazione nell'eventuale risoluzione di un contratto stipulato con un terzo, richiesta per ragioni comunque importanti discriminazione per sesso e successivamente accettata dallo stesso datore di lavoro.

Le conseguenze di siffatto comportamento, verificatesi a danno della lavoratrice, ricadono indubbiamente su di lui.

2.2 - Per quanto concerne l'altra questione, si osserva che l'art. 15 della legge n. 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori) ha sancito la nullità di alcuni patti o atti discriminatori. L'ultimo comma di detto articolo é stato sostituito dall'art. 13 della legge n. 903 del 1977, sulla parità uomo- donna, che ha esteso l'ambito di applicazione della nullità, prevista nei precedenti commi, anche ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua e di sesso.

L'art. 18 della stessa legge n. 300/70 ha, inizialmente, previsto la tutela reale del lavoratore, ossia la sua reintegrazione nel posto di lavoro, nel caso in cui era dichiarata la nullità del licenziamento per ragioni di credo politico, di fede religiosa, di appartenenza ad un sindacato e di partecipazione ad attività sindacali.

Questa Corte (sent. n. 204/82), a proposito del licenziamento disciplinare intimato senza la tutela dell'apposita procedura, ha riconosciuto forza espansiva alle disposizioni contenute nell'art. 18 della legge 300/70 ritenendole suscettibili di assicurare la tutela reale del posto di lavoro anche nei casi in cui l'invalidità del licenziamento non dipenda da una delle ragioni specificamente risultanti dal combinato disposto dello stesso art. 18 e dell'art. 4 della legge n. 604/66.

In altri termini, secondo anche l'ormai costante indirizzo giurisprudenziale, l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, nell'ambito della disciplina del rapporto di lavoro, non é né speciale né eccezionale ma dotato di forza espansiva che lo rende riferibile ed applicabile anche a casi diversi da quelli in esso contemplati e tuttavia ad essi però assimilabili sotto il profilo della identità di ratio. E tra questi casi indubbiamente é da comprendersi quello del licenziamento intimato solo per ragioni di diversità di sesso.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1 della legge 9 dicembre 1977 n. 903, 15, ultimo comma, e 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 36 e 37 Cost., dal Pretore di Torino con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 gennaio 1987.

 

Il Presidente: LA PERGOLA

Il Redattore: GRECO

Depositata in cancelleria il 22 gennaio 1987.

Il direttore della cancelleria: VITALE

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