Sentenza 145 del 1985

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SENTENZA N. 145

ANNO 1985

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Prof. Leopoldo ELIA, Presidente

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO, Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 4, primo comma, lett. b, della legge 21 febbraio 1980, n. 28 ("Delega al Governo per il riordinamento della docenza universitaria e relativa fascia di formazione, e per la sperimentazione organizzativa e didattica") e 11, quarto comma, lett. a, del d.P.R. 11 luglio 1980, n. 382 ("Riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di formazione nonché sperimentazione organizzativa e didattica"), promosso con ordinanza emessa il 14 luglio 1982 dal TAR per le Marche sui ricorsi proposti da De Martinis Carlo contro Ministero della P.I. ed altri, iscritta al n. 516 del registro ordinanze 1983 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 329 dell'anno 1983.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 5 febbraio 1985 il Giudice relatore Guglielmo Roehrssen;

udito l'avvocato dello Stato Luigi Siconolfi per il presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

Nel corso di un giudizio promosso da un candidato escluso dall'elettorato passivo alla carica di preside della facoltà di medicina e chirurgia dell'Università di Ancona, in quanto professore a tempo definito, il TAR delle Marche con ordinanza 14 luglio 1982, ha sollevato in riferimento all'art. 3 Cost. e in relazione agli artt. 33, 5 e 97, questione di legittimità costituzionale degli artt. 4, primo comma, lett. b, della legge 21 febbraio 1980, n. 28 e 11, quarto comma, lett. a, del d.P.R. 11 luglio 1980, n. 382, nella parte in cui stabiliscono l'incompatibilità del regime d'impegno a tempo definito con le funzioni di preside.

Tale incompatibilità sarebbe irragionevole in quanto le differenze tra docenti a tempo pieno e a tempo definito non la giustificherebbero; inoltre "inciderebbe sia su altri valori costituzionalmente garantiti, quali l'autonomia universitaria (art. 33 Cost.) e il diritto di tutti i cittadini di accedere agli uffici pubblici in condizioni di uguaglianza (art. 51)"; infine sarebbe contrastante col buon andamento della pubblica amministrazione, per la paralisi che deriverebbe agli organi di governo dell'università, nell'ipotesi in cui "i docenti si orientassero in misura massima verso il rapporto a tempo definito".

Il Presidente del Consiglio dei ministri chiede che la questione sia dichiarata non fondata, stante la razionalità del differente trattamento in ordine all'eleggibilità a preside tra docenti a tempo pieno e docenti a tempo definito. Tale diversità si ricollegherebbe alla diversità della disciplina complessiva delle due categorie di docenti, tenendo conto che a coloro che hanno optato per il tempo definito sono consentite le attività professionali e di consulenza e le assunzioni d'incarichi retribuiti al di fuori della università, vietate invece (in linea generale) ai docenti che optano per il tempo pieno.

Neppure sarebbero violate le altre norme costituzionali invocate dal giudice a quo, giacché legittimamente la legge può configurare i requisiti soggettivi indispensabili per accedere a determinate cariche, né l'autonomia garantita alle università giunge al punto d'impedire allo Stato di disciplinare l'ordinamento dei professori universitari.

 

Considerato in diritto

 

1. - Il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale dell'art. 4, primo comma, lett. b), della legge 21 febbraio 1980, n. 28 ("Delega al Governo per il riordinamento della docenza universitaria e relativa fascia di formazione, e per la sperimentazione organizzativa e didattica") e dell'art. 11, quarto comma, lett. a), del d.P.R. 11 luglio 1980, n. 382 ("Riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di formazione nonché sperimentazione organizzativa e didattica"), in virtù dei quali i docenti universitari a tempo definito rimangono esclusi dalla possibilità di accedere alle cariche di rettore preside, membro del consiglio di amministrazione, direttore di dipartimento e direttore dei corsi di dottorato di ricerca.

Il giudice a quo ritiene che questa normativa possa contrastare con gli artt. 3, 33, 51 e 97 Cost., in quanto: a) la esclusione non sarebbe giustificata dalla distinzione che la recente normativa sullo stato giuridico dei professori delle università statali ha fatto fra docenti a tempo definito ed a tempo pieno; b) inciderebbe sulla autonomia delle istituzioni universitarie; c) violerebbe il diritto dei cittadini di accedere ai pubblici uffici in condizioni di uguaglianza; d) contrasterebbe, infine, con il principio del "buon andamento" della P.A. per la paralisi che deriverebbe agli organi di governo delle Università nel caso che i docenti si orientassero in misura massima verso il rapporto a tempo definito.

La questione non é fondata.

2. - Uno dei cardini della riforma universitaria preveduta dalla legge 21 febbraio 1980, n. 28, é stato quello di assicurare alle Università, anche in considerazione del grande accrescimento della popolazione scolastica e dello sviluppo delle attività scientifiche e didattiche, che un congruo gruppo di docenti possa dedicarsi in via principale ed assorbente a quelli che sono i compiti veramente istituzionali delle Università stesse e, quindi, dei suoi docenti (l'insegnamento e la ricerca scientifica, come emerge chiaramente dall'art. 1 del t.u. 31 agosto 1933, n. 1592 e dall'art. 63 della legge n. 28 del 1980), senza esserne distratti dallo svolgimento di attività professionali o di consulenza o, comunque, divergenti dai cennati compiti istituzionali. É, infatti, evidente che lo svolgimento di attività del genere comportano impegni e responsabilità non indifferenti, che non possono non impedire al professore di ruolo di dedicare all'Università tutte le sue energie.

Sulla base di questa premessa, la legge n. 28 ha operato una differenziazione fra i docenti di ruolo a seconda che essi intendano, secondo un giudizio strettamente soggettivo e personale, dedicare la loro attività esclusivamente all'insegnamento universitario o, invece, svolgere anche attività professionali, cioé attività che esulano da quella didattica e scientifica che é caratteristica fondamentale del docente universitario secondo il disposto dell'art. 84 del t.u. n. 1592 del 1933, tuttora vigente.

Perciò l'art. 4 della legge n. 28 del 1980 ha disposto, fra l'altro, che le norme delegate avrebbero dovuto realizzare un regime di impegno a tempo pieno, incompatibile con l'esercizio di qualsiasi attività professionale esterna e con l'assunzione di qualsiasi incarico retribuito (fatta salva l'attività scientifica e pubblicistica) con facoltà per il docente di optare per un regime di impegno a tempo definito, compatibile con le attività ora cennate ma incompatibile, invece, con la funzione di rettore, di preside, di membro effettivo del consiglio di amministrazione, ecc..

In puntuale applicazione di queste disposizioni della legge di delega, l'art. 11, quarto comma, del decreto delegato n. 382 del 1980, ha dettato le norme all'uopo occorrenti, riproducendo sostanzialmente il contenuto dell'art. 4, lett. b), della legge n. 28 e precisando in ogni dettaglio quel che é consentito e quello che non é consentito ai docenti delle due cennate categorie. L'art. 11, quarto comma, dello stesso decreto ha inoltre stabilito che la scelta del professore deve essere esercitata almeno sei mesi prima dell'inizio di ogni anno accademico ed ha efficacia solo per un biennio.

La distinzione fra regime di tempo pieno e di tempo definito, ritenuta dal legislatore idonea a conseguire il raggiungimento delle finalità poco addietro indicate, poggia indubbiamente sulla constatazione già fatta che i docenti i quali si dedicano anche ad attività professionali e personali non connesse con quelle universitarie non possono essere in grado di dedicare ai compiti istituzionali tutte le loro energie.

Una volta posta una distinzione del genere, non sembra affatto irrazionale l'avere anche stabilito che possano accedere a determinate cariche universitarie soltanto i docenti che all'Università riservano tutto il loro tempo, escludendo coloro i quali, invece, hanno ritenuto di dedicarsi ad altre, distinte attività: anche in questo delicato ed impegnativo campo, concernente lo svolgimento di tutti i compiti inerenti al governo dell'Università (art. 6 del t.u. n. 1592 del 1933) e cioé alla vita universitaria in tutti i suoi svariati aspetti, si é ritenuto di escludere coloro i quali, per loro volontà ed a seguito di un loro giudizio, vedono il loro tempo attratto da attività extra-universitarie.

Certamente coloro i quali vivono più intensamente e più completamente la vita universitaria sono meglio in grado di partecipare alle attività degli organi che presiedono al governo delle Università.

Ora, se questa é la ratio delle disposizioni in parola, ad avviso della Corte non hanno pregio le censure che la ordinanza di rimessione ha ritenuto di muovere alle disposizioni stesse.

Non ha fondamento la pretesa violazione del principio di uguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), perché, come si é detto, l’esclusione dei docenti a tempo definito dalla possibilità di accedere ad alcune cariche universitarie costituisce una conseguenza della distinzione fra regime di tempo pieno e di tempo definito. L’esclusione stessa, d'altro canto, costituisce effetto di una libera manifestazione di volontà del docente universitario, il quale sa, nel momento nel quale chiede il regime di tempo definito, che la sua volontà comporta quelle determinate conseguenze.

Non si ha violazione del diritto (art. 33, ultimo comma, Cost.) delle Università di darsi "ordinamenti autonomi", poiché lo stesso art. 33 aggiunge che tale diritto spetta "nei limiti delle leggi dello Stato": non si tratta di una autonomia piena ed assoluta ma di una autonomia che lo Stato può accordare in termini più o meno larghi, sulla base di un suo apprezzamento discrezionale, che, tuttavia, non sia irrazionale. E nella specie, come si é detto, le norme in questione non sono irrazionali.

D'altro canto le norme stesse attengono allo stato giuridico dei professori universitari, i quali sono legati da rapporto di impiego con lo Stato e sono, di conseguenza, soggetti alla disciplina che la legge statale ritiene di adottare: l'autonomia universitaria, invece, come ha riconosciuto questa Corte (sent. n. 51/1966) si esercita nei sensi indicati negli artt. 17 e 18 del t.u. n. 1592 del 1933, nei quali non é cenno alcuno né dello stato giuridico dei docenti né della composizione degli organi universitari.

Fuori causa appare anche la pretesa violazione dell'art. 51 Cost.: anche qui la norma costituzionale, dopo avere affermato il diritto di tutti i cittadini di accedere agli uffici pubblici ed alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza, ha avuto cura di aggiungere "secondo i requisiti stabiliti dalla legge". Al legislatore ordinario, cioé, non é vietato di porre norme le quali, in relazione a determinate finalità di pubblico interesse, possano comportare la esclusione di taluni cittadini da alcuni uffici pubblici, sempre che ciò non sia irrazionale. É quello che, appunto, si verifica nel caso di specie.

Del tutto fuor di luogo appare la citazione dell'art. 97 Cost. e precisamente del principio del buon andamento della P.A. che sarebbe compromesso nel caso in cui la maggioranza dei docenti universitari si orientasse verso il regime di tempo definito. L’ipotesi pone in luce un mero inconveniente, che forse sarebbe opportuno che il legislatore prendesse in considerazione, ma che comunque non rende la norma contraria alla Costituzione, tanto più che, invece, proprio le norme impugnate possono rappresentare un’applicazione del principio del buon andamento riferito alla vita delle Università.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 4, primo comma, lett. b), della legge 21 febbraio 1980, n. 28 ("Delega al Governo per il riordinamento della docenza universitaria e relativa fascia di formazione, e per la sperimentazione organizzativa e didattica") e 11, quarto comma, lett. a), del d.P.R. 11 luglio 1980, n. 382 ("Riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di formazione nonché sperimentazione organizzativa e didattica"), nella parte in cui stabiliscono l'incompatibilità del regime d'impegno definito con la funzione di preside, sollevata con ordinanza 14 luglio 1982 del T.A.R. per le Marche, in riferimento agli artt. 3, 33, 51 e 97 della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 maggio 1985.

Leopoldo ELIA - Guglielmo ROEHRSSEN

Depositata in cancelleria il 9 maggio 1985.