Sentenza n. 89 del 1982
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SENTENZA N. 89

ANNO 1982

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Leopoldo ELIA

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

ha pronunciato la seguente 

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 58 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul valore aggiunto), dell'art. 56, u.c., in rel. al comma 3, lett. e, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi) e dell'art. 21, u.c., della legge 7 gennaio 1929, n. 4 (Norme generali per la repressione delle violazioni delle leggi finanziarie), promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 15 luglio 1978 dal giudice istruttore del tribunale di Napoli nel procedimento penale a carico di Cacace Giovanni, iscritta al n. 496 del registro ordinanze 1978 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17 del 17 gennaio 1979;

2) ordinanza emessa il 14 dicembre 1979 dal giudice istruttore del tribunale di Frosinone nei procedimenti penali riuniti a carico di Evangelisti Nestore, iscritta al n. 144 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 124 del 7 maggio 1980;

3) ordinanza emessa il 10 marzo 1980 dal tribunale di Genova nel procedimento penale a carico di Molié Francesco Filippo ed altro, iscritta al n. 499 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 270 del 1 ottobre 1980;

4) ordinanza emessa il 14 gennaio 1981 dalla Corte di cassazione sul ricorso proposto da Pasini Alessio ed altri, iscritta al n. 515 del registro ordinanze 1981 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 304 del 4 novembre 1981;

5) ordinanza emessa il 15 maggio 1981 dal tribunale di Forlì nel procedimento penale a carico di Ghetti Fulvio, iscritta al n. 578 del registro ordinanze 1981 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 311 dell'11 novembre 1981;

6) ordinanza emessa il 18 giugno 1981 dal giudice istruttore del tribunale di Bologna nel procedimento penale a carico di Grasso Leo ed altra, iscritta al n. 632 del registro ordinanze 1981 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 283 del 14 ottobre 1981;

Visto l'atto di costituzione di Placucci Tullio;

udito nell'udienza pubblica del 12 gennaio 1982 il Giudice relatore Oronzo Reale;

uditi gli avvocati Pietro Nuvolone e Alfredo Angelucci, per Placucci Tullio.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Con ordinanza emessa il 14 gennaio 1981 (n. 515 del reg. ord. 1981), la Corte di cassazione, sez. II penale, sollevava questione incidentale di legittimità costituzionale dell'art. 58, ultima parte, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in relazione all'art. 50, quarto comma, della stessa legge, in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione.

La Corte, investita del ricorso avverso i mandati di cattura spiccati nei confronti di Alessio Pasini, Leonardo Bussoni e Tullio Placucci, proposto dagli interessati, ai quali il giudice istruttore del tribunale aveva contestato vari reati, tra cui quello di falsa fatturazione e annotazione sul registro degli acquisti IVA, risolte alcune questioni concernenti l'applicazione, nel caso di specie, del principio di specialità, non riteneva di poter accogliere la richiesta del Procuratore generale, secondo la quale i mandati di cattura non potevano, per quanto concernente il reato di cui all'art. 50, quarto comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, ascritto agli imputati, essere annullati in ragione della sussistenza, nell'ipotesi de qua, della condizione di procedibilità o pregiudizialità tributaria di cui all'ultimo comma dell'art. 58 del d.P.R. del 1972, n. 633. Nel ricordato parere, la Procura generale aveva argomentato nel senso che, in ragione dell'inquadramento sistematico della norma citata per ultima, il generico riferimento ivi contenuto all'art. 50 doveva intendersi come limitato ai soli eventi di danno (evasione fiscale collegata al falso od insufficiente accertamento tributario), vale a dire ai casi di cui ai primi tre commi dello stesso art. 50; non all'ipotesi di cui al quarto comma. In quest'ultimo caso infatti ci si troverebbe di fronte ad un reato di pericolo e non sarebbe necessario un collegamento con un fatto concreto di evasione, che, ove sussistente, darebbe luogo ad un concorso formale.

La Suprema Corte non condivideva tale asserto; osservava infatti che la norma di cui al citato art. 58 contiene un generale rinvio a tutte le ipotesi di cui all'art. 50; e che tale disposizione non é che l'ulteriore richiamo normativo ad un istituto generale che risale alla legge n. 4 del 1929 e che é sempre stato mantenuto nella legislazione, cosa questa di cui occorre tener conto ai fini interpretativi.

Rilevava altresì che, mentre é discutibile se, in linea generale, possa parlarsi, a proposito della necessità del previo accertamento definitivo, di condizione di procedibilità o di pregiudizialità, nell'ipotesi di cui al quarto comma dell'art. 50 certamente si tratta di condizione di procedibilità, in quanto la sussistenza del reato prescinde sicuramente dall'accertamento definitivo dell'imposta.

Riteneva la Suprema Corte che, così impostata la questione, si pone il dubbio circa la conformità agli artt. 112 e 3 della Costituzione del citato art. 58 nei confronti dell'art. 50, quarta ipotesi, del d.P.R. n. 633 sull'IVA.

Con riferimento alla violazione dell'art. 112, si osservava che é principio costantemente riaffermato nella giurisprudenza della Corte costituzionale che le deroghe alla obbligatorietà dell'azione penale devono avere carattere eccezionale e fondarsi sulla tutela di interessi pubblici prevalenti.

Nel caso di specie, invece, prevalente sarebbe l'interesse pubblico alla persecuzione degli evasori fiscali; tale interesse verrebbe ad essere frustrato o comunque reso più difficilmente attuabile quantomeno sul piano della tempestività proprio dall'ostacolo che all'esercizio della azione penale viene frapposto dalla necessità del previo accertamento definitivo.

Con riferimento invece all'art. 3 della Costituzione si osservava che i reati tributari hanno sicuro carattere di specialità nei confronti di altre truffe a carico dello Stato; ne consegue che la diversità di trattamento legislativo degli evasori fiscali nei confronti degli altri truffatori in danno della pubblica amministrazione non trova giustificazione, sotto il profilo logico e di fatto.

Ricordata la sentenza n. 32 del 1968 della Corte costituzionale, e riconosciutane la validità con riferimento alla "pregiudizialità tributaria vera e propria", la Suprema Corte ribadisce che non si vede perché lo stesso regime di impossibilità di inizio dell'azione penale debba operare "per l'ipotesi di falsa fatturazione e registrazione che prescinde da alcun accertamento tributario e che quindi non può dar luogo ai conflitti giustamente temuti dalla Corte costituzionale".

Si costituiva la sola parte privata Placucci chiedendo che la questione fosse dichiarata inammissibile o infondata.

Le ragioni dell'inammissibilità risiederebbero nel fatto che l'eventuale pronuncia della Corte costituzionale non avrebbe alcuna efficacia nel procedimento incidentale che era sottoposto al giudizio della Corte di cassazione. Questa infatti, era chiamata a giudicare della legittimità dei mandati di cattura emessi a carico degli imputati; poiché dovrebbe essere nella specie applicato il principio tempus regit actum, anche nel caso di accoglimento della questione di costituzionalità i mandati di cattura dovrebbero essere dichiarati nulli, siccome emessi comunque in epoca anteriore alla pronuncia della Corte.

Nel merito, si sottolinea l'armonicità del sistema delineato dal legislatore; si evidenziano altri casi in cui l'azione penale é soggetta a limitazioni e si contesta che il reato di cui al quarto comma dell'art. 50 prescinda dall'accertamento dell'imposta evasa. Si evidenziano altresì le esigenze obiettive che, recepite dal legislatore, sarebbero a base della normativa regolante la materia.

Con successiva memoria e nella discussione orale all'udienza del 12 gennaio 1982 la difesa del Placucci svolgeva ed ampliava le ragioni esposte nell'atto di costituzione e inoltre, quanto alla prospettata violazione dell'art. 3 della Costituzione, adduceva che la stessa Cassazione in altra occasione affermò l'obiettiva diversità fra i reati di frode fiscale e di truffa combinata ai danni dello Stato.

2. - Con ordinanza emessa il 15 maggio 1981 (n. 578 del reg. ord. 1981), il tribunale di Forlì, nel corso del procedimento penale a carico di Fulvio Ghetti, sollevava questione incidentale di legittimità costituzionale dell'art. 58, ultima parte, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in relazione all'art. 50, quarto comma, della stessa legge, per preteso contrasto con gli artt. 3 e 112 della Costituzione, in termini del tutto coincidenti con quelli di cui alla ordinanza n. 515 del 1981 della Corte di cassazione.

3. - Con rapporto n. 363/TL/43T4 del 24 aprile del 1978, la Guardia di Finanza rendeva noto al Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Napoli che indagini effettuate in precedenza avevano consentito di accertare che la ditta "Gianni Cacace", esercente in Napoli il commercio all'ingrosso di biancheria, nonché stampaggio di cotoneria in un proprio stabilimento sito in Marcianise, si era resa responsabile di numerose violazioni alle norme tributarie vigenti.

In particolare, essa ditta aveva instaurato un doppio sistema di contabilità, l'uno palese e l'altro occulto; il primo conteneva la contabilità ufficiale, il secondo quella reale, comprendente numerose fatture intestate a nomi di fantasia. Tale accorgimento, messo in atto a mezzo di elaboratore elettro-contabile, consentiva occultamento di ricavi, indicazioni di costi indeducibili e in ispecie l'impossibilità, per gli inquirenti, di accertare il reale volume di affari, e quindi dei redditi, dei reali compratori (su 799 fatture rinvenute, 340 erano infatti intestate a nomi di fantasia).

Nel corso del susseguito procedimento penale, il P.M. chiedeva al giudice istruttore di contestare al Cacace, con mandato di cattura, il reato di cui agli artt. 110 c.p., 56, comma terzo, lett. e e comma 4, prima ipotesi, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, perché, quale titolare dell'omonima impresa commerciale, in concorso con altri allo stato non identificati, commetteva atti fraudolenti e, in particolare, emetteva "fatture attive" intestate a nomi di fantasia invece che ai reali acquirenti, e ciò al fine di sottrarre redditi da computarsi ai fini della dichiarazione dei redditi stessi da parte dei compratori.

Chiedeva nel contempo allo stesso organo giudicante di sollevare in via incidentale questione di legittimità costituzionale relativamente all'art. 56, ultimo comma, del citato d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.

Il giudice istruttore, aderendo a tale seconda richiesta del magistrato requirente, osservava che l'ultimo comma del predetto art. 56 sancisce l'impromovibilità (o l'improseguibilità) dell'azione penale in ordine ai reati previsti dai precedenti commi della norma citata prima che l'accertamento dell'imposta sia divenuto definitivo.

Tale disposizione, ad avviso del giudice a quo, contrasterebbe con l'art. 112 della Costituzione, che impone al P.M. l'obbligo di esercitare l'azione penale (cosa questa che nei limiti dell'art. 13 della Costituzione può in taluni casi comportare l'immediata emissione del mandato di cattura).

Nel caso di violazione di norme penali tributarie si sarebbe perciò frapposto, da parte del legislatore, un ostacolo alla repressione di siffatti reati che nell'attuale momento attengono alla criminalità finanziaria, particolarmente ampia e diffusa.

Il giudice istruttore aggiungeva che, in forza del principio di specialità, pur sussistendo tutti gli estremi del delitto di truffa continuata ai danni dello Stato, all'evasore che abbia compiuto atti fraudolenti devesi contestare il reato di cui al terzo comma del citato art. 56, con conseguente violazione del principio di eguaglianza (art. 3 della Costituzione), in quanto l'inizio dell'azione penale sarebbe subordinato all'accertamento definitivo sì da creare, per l'evasore, una situazione di favore del tutto ingiustificata, rispetto agli imputati di truffa ai danni dello Stato.

Tanto premesso, e ritenuta rilevante ai fini del decidere la sollevata questione di costituzionalità, il giudice sospendeva il processo in corso e rimetteva gli atti a questa Corte.

4. - Con ordinanza in data 14 dicembre 1979 (n. 144 del reg. ord. 1980), il giudice istruttore del tribunale di Frosinone, nel corso di più procedimenti penali riuniti a carico di Nestore Evangelisti sollevava, su analoga richiesta del P.M., questione di legittimità costituzionale dell'art. 56 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nella parte in cui detta norma subordina l'inizio ed il proseguimento dell'azione penale alla definitività dell'accertamento dell'imposta, e ciò per preteso contrasto con gli artt. 3, 53 e 112 della Costituzione.

Ad avviso del giudice a quo la normativa in esame contrasterebbe:

- con l'art. 3 della Costituzione, in quanto si verrebbe a creare una situazione di ingiustificata disparità tra i cittadini "meno abbienti ed economicamente impossibilitati" a rivolgersi a professionisti, definiti "piccoli evasori", i quali possono essere perseguiti immediatamente in sede penale e gli altri, "grossi evasori", i quali, potendo avvalersi dell'opera di "specialisti", potrebbero procrastinare assai più a lungo la fase tributaria contenziosa, sì da essere eventualmente sottoposti ad azione penale a grande distanza di tempo dal compimento dell'illecito;

- con l'art. 53 della Costituzione in quanto, "concedendo la possibilità di procrastinare a lungo il pagamento del dovuto, il soggetto verrebbe a locupletare somme su quanto dovuto alla collettività, non venendo così a concorrere alla spesa pubblica in relazione alla propria capacità contributiva";

- con l'art. 112 della Costituzione, atteso che l'accertamento definitivo dell'imposta crea un ostacolo all'immediato esercizio dell'azione penale; nella definitività dell'accertamento tributario il giudice a quo ravvisa una condizione di procedibilità dell'azione penale, peraltro subordinata alla volontà del contribuente, il quale, esperendo o meno tutti i ricorsi previsti dal sistema, potrebbe procrastinare ad libitum l'inizio dell'azione penale nei suoi confronti.

5. - Con ordinanza in data 18 giugno 1981 (n. 632 del reg. ord. 1981), il giudice istruttore del tribunale di Bologna, nel corso del procedimento penale a carico di Leo Grasso e altra, sollevava questione incidentale di legittimità costituzionale dell'art. 56, ultima parte, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in relazione al terzo comma del medesimo articolo, per preteso contrasto con gli artt. 3 e 112 della Costituzione.

Osservava il giudice a quo che, a suo avviso, la disposizione in esame prevede varie ipotesi criminose, ma solo in relazione a quella prevista dal primo comma l'accertamento dell'imposta sarebbe elemento costitutivo della fattispecie. In tutte le altre infatti sarebbero invece "previsti comportamenti sistematici finalizzati all'evasione dell'imposta, punibili in virtù della loro intrinseca fraudolenza, indipendentemente dall'accertamento della imposta evasa".

Senonché prevarrebbe l'orientamento interpretativo di subordinare in ogni caso lo svolgimento del procedimento penale alla definitività dell'accertamento dell'imposta; e ciò in ragione della letterale formulazione normativa.

Su questa base, non parrebbe manifestamente infondato il dubbio di incostituzionalità della norma predetta per possibile contrasto con gli artt. 112 e 3 della Costituzione.

Al riguardo, il giudice a quo svolge considerazioni sostanzialmente analoghe a quelle contenute, con riferimento agli artt. 58 e 50 del d.P.R. n. 633 del 1972, nell'ordinanza n. 515 del 1981 della Corte di cassazione, partendo anch'egli dalla constatazione che l'accertamento definitivo dell'imposta sarebbe del tutto estrinseco alla struttura dei reati, sicché ci si troverebbe di fronte ad una "vera e propria condizione di procedibilità".

Su questa base, le ragioni addotte a sostegno della prospettata violazione dell'art. 112 della Costituzione sono coincidenti con quelle contenute nell'ordinanza della Corte di cassazione, mentre, con riferimento all'art. 3, il giudice a quo rileva anche che é frequente che dalla valutazione dei medesimi fatti contabili traggano origine tanto reati fiscali quanto reati "di altra natura (societari, di falso, di bancarotta)" e che la procedibilità immediata é esclusa solo per i primi, cosa questa assolutamente irragionevole ed ingiustificata.

6. - Con ordinanza emessa il 10 marzo 1980 (n. 499 del reg. ord. 1980), il tribunale di Genova, nel corso del procedimento penale a carico di Francesco Filippo Molié ed altro, sollevava questione incidentale di legittimità costituzionale dell'ultimo comma dell'art. 21 della legge 7 gennaio 1929, n. 4, nella parte in cui detta norma subordina l'esercizio dell'azione penale, per reati concernenti l'evasione di tributi diretti, all'esaurimento del contenzioso tributario.

All'uopo il tribunale osservava che tale situazione normativa non appare fondata su esigenze tali da imporre di discostarsi dalla regola generale contenuta nell'art. 20 del c.p.p., in base alla quale il corso dell'azione penale non é impedito, ma é prevista la facoltà (per il giudice penale) di sospendere il giudizio soggetto al suo esame in attesa che il giudice competente decida la questione pregiudiziale.

Tanto premesso, il collegio a quo dubitava della conformità dell'ultimo comma dell'art. 21 della legge n. 4 del 1929 all'art. 3 della Costituzione in ragione della ingiustificata disparità di trattamento (quanto alla promovibilità dell'azione penale nei rispettivi confronti) tra gli imputati di reati comuni (per i quali vale la regola di cui all'art. 20 c.p.p.) e gli imputati di reati connessi ai tributi diretti (per i quali opera l'art. 21 della legge n. 4 del 1929); ed anche all'art. 53 della Costituzione, perché l'attuale sistema "favorisce i contribuenti meno onesti nell'adempimento dei propri doveri rispetto a tutti gli altri cittadini".

Nei giudizi innanzi la Corte promossi con le ordinanze del tribunale di Forlì, dei giudici istruttori presso i tribunali di Napoli, Frosinone e Bologna e del tribunale di Genova non si aveva intervento né costituzione di parte. La causa proveniente dal giudice istruttore di Napoli fu trattata all'udienza del 19 marzo 1980 ma, per la sopravvenuta scomparsa del giudice prof. Astuti, fu rimessa all'udienza del 12 gennaio 1982.

 

Considerato in diritto

 

1. - Le sei ordinanze di cui in epigrafe sollevano questioni che per la loro identità o connessione o continuità rendono opportuno l'esame e la decisione con unica sentenza.

2. - Va esaminata, in primo luogo, la identica questione sollevata dalla Corte di cassazione con l'ordinanza n. 515 del reg. ord. 1981, e dal tribunale di Forlì con l'ordinanza n. 578 del reg. ord. 1981.

Come esposto in narrativa, la Cassazione era investita di ricorso avverso mandati di cattura spiccati nei confronti di tre imputati del reato di cui all'art. 50, quarto comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (falsa fatturazione e annotazione nel registro degli acquisti IVA): i ricorrenti, peraltro in libertà provvisoria, deducevano "la nullità dei mandati per il reato tributario per difetto della condizione di procedibilità di cui all'art. 58, ultimo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972", il quale stabilisce appunto che "nelle ipotesi previste nell'art. 50 l'azione penale ha corso dopo che l'accertamento dell'imposta é divenuto definitivo e la prescrizione del reato é sospesa fino alla stessa data". La Cassazione, respingendo la interpretazione restrittiva del detto ultimo comma dell'art. 58, secondo la quale esso non é riferibile anche alla ipotesi del quarto comma dell'art. 50 (e ciò in ragione del generale rinvio che il richiamato ultimo comma dell'art. 58 fa a tutte le ipotesi dell'art. 50), riteneva dubbia, relativamente alla ipotesi considerata, la costituzionalità ex artt. 3 e 112 Cost. della norma.

Negli stessi termini la questione, come si é detto, veniva sollevata dal tribunale di Forlì, che, nella motivazione, si riferiva all'ordinanza della Cassazione della quale si é già detto.

3. - Occorre innanzi tutto esaminare l'eccezione di inammissibilità per irrilevanza proposta dalla difesa di una delle parti private nell'atto di costituzione rispetto alla questione sollevata nell'ordinanza della Cassazione.

La Cassazione, si sostiene, non ha motivato sulla rilevanza, e, se lo avesse fatto, avrebbe indubbiamente dovuto negarla giacché nessun effetto potrebbe spiegare "sulla legalità o meno di un tipico atto processuale (mandato di cattura)" l'eventuale accoglimento della proposta questione di legittimità costituzionale.

L'eccezione (che, peraltro, non é proposta e non potrebbe proporsi nei confronti dell'ordinanza del tribunale di Forlì, sicché la Corte dovrebbe sempre scendere all'esame del merito dell'unica questione sollevata) non appare meritevole di accoglimento alla stregua del principio di stretta legalità, perché sarebbe assai difficile sostenere l'applicabilità di esso in materia che la stessa citata difesa riconosce di natura processuale, quella della carcerazione preventiva, che la Corte anche recentemente ha ritenuto estranea all'ambito dell'art. 25, secondo comma, della Costituzione (sent. n. 15 del 1982).

Va poi considerato che, da un punto di vista generale, il giudizio di rilevanza risulta evidente, anche se implicito, nella motivazione dell'ordinanza, allorché in essa si sostiene che la norma censurata opera come una paralizzante condizione di procedibilità.

Si può dunque esaminare nel merito la questione di legittimità costituzionale sollevata con le due ordinanze.

4. - La questione é fondata.

Giustamente i due giudici a quibus (chiamati ad esaminare casi nei quali la disposizione dell'art. 58, ultimo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972 aveva, in concreto, paralizzato sin dall'inizio l'azione penale) hanno rilevato (la Cassazione con espressa motivazione, richiamata dal tribunale) che la detta disposizione opera come una "vera condizione di procedibilità " che "impedisce l'esercizio dell'azione penale". Tale opinione é conforme alla prevalente dottrina, a numerose altre pronunzie anche della Cassazione nelle quali, sia in relazione alla normativa del 1929 che a quella entrata in vigore nel 1974, si afferma che il mancato accertamento definitivo "impedisce l'instaurazione (o "l'inizio") del procedimento penale"; ed é infine puntualmente confermata da una pronunzia della Cassazione, successiva all'ordinanza di rimessione, nella quale si nega l'operatività della citata disposizione rispetto alla ipotesi del quarto comma dell'art. 50 proprio sul rilievo che, diversamente, ci si troverebbe di fronte a "una mera condizione di procedibilità",

5. - L'art. 50 del d.P.R. n. 633 del 1972 prevede, come é noto, quattro distinte ipotesi di reato: la prima concerne chi si sottrae nel corso di un anno solare al pagamento dell'imposta dovuta (IVA) per un ammontare superiore a lire cento milioni; la seconda chi, sempre nel corso dell'anno solare, consegue un indebito rimborso per un ammontare superiore a cinquanta milioni; la terza chi ha sottoscritto la dichiarazione annuale nelle due ipotesi precedenti; la quarta chi emette fatture per operazioni inesistenti o indica nelle fatture i corrispettivi e le relative imposte in misura superiore a quella reale. I quattro distinti reati, dei quali solo il terzo é contravvenzionale, sono puniti con distinte pene edittali. Ma la differenza fondamentale fra i primi tre e il quarto sta nel fatto che dei primi é elemento costitutivo l'ammontare della sottrazione al pagamento o dell'indebito rimborso; l'esistenza del quarto, invece, é del tutto indipendente dall'ammontare delle false fatture o dalla misura, superiore a quella reale, dei corrispettivi indicati.

6. - É opportuno, a questo punto, ricordare che il disegno di legge di delega al Governo per la riforma tributaria prevedeva ai punti 14 e 15 dell'art. 11 l'applicazione dei principi di cui all'art. 22 della legge n. 4 del 1929 ai reati dolosi relativi a tutti i nuovi tributi e la istituzione di sezioni specializzate della magistratura ordinaria competenti per i giudizi anche penali in materia tributaria. Ma il Parlamento non accolse tale previsione e dispose nel senso, poi concretizzato nella legislazione delegata, di attribuire alle Commissioni tributarie, organi giurisdizionali (con facoltà alternativa di ricorso alla Commissione centrale o alla Corte d'Appello), la cognizione delle controversie tributarie, sottraendo quindi al giudice penale ogni competenza ad accertare l'ammontare dell'imposta dovuta ed eventualmente sottratta all'Erario. Una volta adottato questo sistema, si comprende, ed é costituzionalmente lecito, che nei casi in cui da quell'accertamento dipende se il reato esiste oppure no, l'azione penale abbia corso solo dopo che l'accertamento sia divenuto definitivo, come dispone l'ultimo comma dell'art. 58 del d.P.R. n. 633 del 1972. In questi casi non può nemmeno propriamente parlarsi di una deroga al principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, perché manca al P.M. - né egli ha facoltà di determinarlo - un elemento essenziale della contestazione del reato, cioè la nozione di quell'elemento - il superamento del previsto ammontare del tributo evaso o del rimborso indebitamente ottenuto - che costituisce la soglia oltre la quale il fatto diviene reato. E comunque ben potrebbe chiamarsi in causa per giustificare il mancato corso dell'azione penale, in attesa dell'accertamento definitivo del tributo, pure quell'"esigenza fondamentale di evitare accertamenti discordanti anche a livello giurisdizionale dell'imposta dovuta", riconosciuta dalla Cassazione.

Ma quando, come nel quarto comma dell'art. 50 del d.P.R. n. 633, il reato é del tutto indipendente dalla entità del tributo, perché si tratta della falsa fatturazione di operazioni inesistenti, di indicazione in fattura di corrispettivi in misura superiore a quella reale, o delle relative registrazioni; quando cioè si tratta, come si esprime la Cassazione, "di un reato formale e di pericolo, indipendente da un fatto concreto di evasione e punibile di per sé a titolo di dolo generico"; quando manca perfino ogni riferimento della pena edittale all'entità dell'evasione: allora certamente il divieto di procedere fino a quando l'accertamento della imposta non sia divenuto definitivo integra una deroga, senza alcuna giustificazione, al principio dell'obbligatorietà dell'azione penale consacrato nell'art. 112 della Costituzione, il che basta a determinare l'illegittimità della norma denunciata e dispensa la Corte dall'esaminare la questione in relazione all'art. 3 della Costituzione.

7. - A questa conclusione la difesa della parte privata oppone una serie di considerazioni che si richiamano quasi interamente all'ultimo capoverso dell'art. 21 della legge n. 4 del 1929 e alle disposizioni del d.P.R. n. 600 del 1973, cioé alla materia delle imposte dirette, per poi farne applicazione, con un salto logico non consentito, a tutti i reati in materia di imposte indirette, quale é l'IVA. Pertanto é anche impropria e non producente la citazione della sentenza n. 32 del 1968 della Corte, la quale si riferisce all'art. 252 del T.U. 29 gennaio 1958, n. 645 sulle imposte dirette e nega che esso abbia violato l'art. 76 della Costituzione per avere soppresso l'ultimo comma dell'art. 35 della legge di delegazione n. 1 del 1956, che, "in deroga dell'art. 21 della legge 7 gennaio 1929, n. 4, consentiva che per certi reati fiscali l'azione avesse corso senza il preventivo accertamento dell'imposta".

La stessa difesa cerca conferma alla sua tesi nella tradizione legislativa che, invece, le é contraria.

L'IVA, infatti, é una imposta indiretta che ha sostituito l'IGE, vigente fino all'entrata in vigore del d.P.R. n. 633 del 1972. Ora la legge istitutiva dell'IGE (d.l. 9 gennaio 1940, n. 2, convertito nella legge 19 giugno 1940, n. 762) richiamava per l'applicazione delle sanzioni di carattere penale la legge n. 4 del 1929, cioè, non trattandosi di imposta diretta, dava via libera per il procedimento penale prima all'intendente di Finanza poi, a seguito della sentenza n. 60 del 1969 della Corte, al tribunale.

Infine la difesa della parte privata assume che, se l'azione penale non può esercitarsi "perché non sussistono i presupposti per il suo esercizio", non può considerarsi violato l'articolo 112 della Costituzione. Senonché, nell'ipotesi di reato in esame, i presupposti sussistono perché il reato é perfetto in tutti i suoi elementi indipendentemente da ogni accertamento dell'esistenza ed entità dell'evasione.

8. - Le considerazioni che precedono vanno tenute presenti anche per la soluzione delle questioni sollevate dai giudici istruttori presso il tribunale di Napoli, presso il tribunale di Frosinone e presso il tribunale di Bologna (Ord.ze rispettivamente nn. 496 del reg. ord. 1978, 144 del reg. ord. 1980, 632 del reg. ord. 1981), nonché dal tribunale di Genova (n. 499 del reg. ord. 1980).

Si tratta di questioni tutte relative a reati in materia di imposte dirette, riferite nelle prime tre ordinanze a disposizioni del d.P.R. n. 600 del 1973, nella quarta (quella del tribunale di Genova) al T.U. n. 645 del 1958 sulle imposte dirette e all'art. 21 della legge n. 4 del 1929.

Passando all'esame congiunto delle questioni sollevate dalle prime tre ordinanze, occorre innanzi tutto precisare, in termini di rilevanza, l'ambito delle censure proposte.

Il giudice istruttore di Napoli, nel dispositivo dell'ordinanza di rimessione, solleva la "questione di legittimità costituzionale dell'art. 56, ultimo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nella parte in cui sancisce che l'azione penale per i reati di cui ai commi precedenti dello stesso articolo non può essere iniziata o proseguita prima che l'accertamento delle imposte sia divenuto definitivo". Ma sia dall'esame del fascicolo di causa (si trattava di emissione di fatture intestate a nomi di fantasia al fine di sottrarre redditi alle imposte dirette), sia dalla motivazione dell'ordinanza (in cui si afferma "che all'evasore che compie atti fraudolenti debba contestarsi il reato previsto dall'art. 56, comma terzo, lett. e"), risulta che nella specie la norma ostativa dell'azione penale era costituita dall'ultimo comma dell'art. 56 del d.P.R. n. 600 in relazione al comma terzo, lett. e.

Il giudice istruttore di Frosinone si riferisce nella ordinanza alla "eccezione di incostituzionalità proposta dal P.M. di Frosinone dell'art. 56 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 nella parte in cui subordina l'inizio o il proseguimento dell'azione penale alla definitività dell'accertamento dell'imposta" ritenendola non manifestamente infondata; e il P.M. aveva appunto ritenuto che potesse contestarsi "il reato di cui al terzo comma, lett. e, dell'art. 56" del d.P.R. n. 600.

Il giudice istruttore di Bologna nel dispositivo dell'ordinanza dichiara "non manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale dell'art. 56, ultima parte, del d.P.R. n. 600 del 1973 in relazione al comma terzo del medesimo articolo"; ma sia dal capo di imputazione, sia dalla sentenza della Cassazione che, risolveva - come si é ricordato in narrativa - il conflitto fra il P.M. e il giudice istruttore di Bologna, risulta che la imputazione si riferiva "al reato di cui all'art. 56, lett. e, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, per avere i due predetti imputati compiuto atti fraudolenti idonei e diretti in modo non equivoco ad evadere l'imposta sul reddito".

Risulta pertanto dalla sovraesposta identificazione della questione, che la Corte é chiamata a decidere se sia costituzionalmente legittimo in relazione al reato previsto nella lett. e del terzo comma dell'art. 56 del d.P.R. n. 600 del 1973 ("fatti fraudolenti al fine di sottrarre redditi all'imposta sul reddito"), l'ultimo comma dello stesso articolo ("L'azione penale per i reati di cui ai commi precedenti non può essere iniziata o proseguita prima che l'accertamento dell'imposta sia divenuto definitivo").

9. - La questione non é fondata.

Per tutti i reati previsti nel comma terzo l'art. 56 del d.P.R. n. 600 stabilisce la reclusione da sei mesi a cinque anni e la multa da lire duecentomila a due milioni. Ma il comma quarto del detto articolo dispone che "se i fatti indicati alle lettere a, c ed e del comma precedente comportano evasioni di imposta per un ammontare complessivo eccedente cinque milioni di lire la multa é applicata in misura pari all'imposta di tale ammontare e la reclusione non può essere inferiore a due anni. Si applica soltanto la multa se i fatti indicati nel terzo comma comportano un'evasione di imposta di speciale tenuità ". Il reato é dunque punito con pena edittale diversa secondo l'ammontare della evasione. Il che comporta che nel caso della lett. e del comma terzo dell'art. 56 del d.P.R. n. 600 non solo il processo penale non può essere definito, ma la stessa accusa non può essere contestata prima che sia accertato se l'evasione dell'imposta é superiore o inferiore a lire cinque milioni.

In conseguenza, per le ragioni suesposte al n. 6, in questo caso non può dirsi che il divieto, disposto nell'ultimo comma dell'art. 56, di iniziare o proseguire l'azione penale prima che l'accertamento dell'imposta sia divenuto definitivo, implichi una violazione del principio dell'obbligatorietà dell'azione penale. Che l'azione penale non possa essere iniziata o proseguita prima dell'accertamento definitivo dell'imposta, come prescrive la norma di legge in esame, e che sia inibito in sede penale simile accertamento necessario alla contestazione dell'accusa, deriva dalla scelta del legislatore in merito alla definizione degli accertamenti tributari, sottratta, appunto, alla sede penale.

Non esiste, dunque, la violazione dell'art. 112 della Costituzione e nemmeno quella, pure denunciata nelle tre ordinanze in esame, dell'art. 3, né quella, denunciata dal solo giudice istruttore di Frosinone, dell'art. 53.

Il principio di eguaglianza é stato evocato dal giudice istruttore di Napoli senza alcuna motivazione né indicazione del dato di comparazione: il che dispensa la Corte da ogni considerazione.

Esso é stato richiamato dal giudice istruttore di Frosinone, per la disparità di trattamento fra i contribuenti in quanto "si verrebbe a perseguire immediatamente solo il piccolo evasore meno abbiente. economicamente impossibilitato a rivolgersi a professionisti, mentre il grosso evasore, avendo possibilità di ricorrere all'attenta opera di specialisti, potrebbe continuare la propria attività fino all'esaurimento della fase contenziosa, sfuggendo spesso all'azione penale che avrà inizio a distanza di numerosi anni dal compimento dell'illecito".

Ma una volta che si é negata l'illegittimità, per violazione dell'art. 112 della Costituzione, del sistema scelto dal legislatore, e una volta che questo é eguale per tutti i contribuenti, non si può invocare l'art. 3 per la supposta diversa capacità di utilizzare la normativa di legge, che deriverebbe dalla diversa potenzialità economica. Tanto varrebbe, in caso contrario, invocare l'art. 3 in ogni controversia fra parti di diversa capacità economica.

Il giudice istruttore di Bologna attribuisce la violazione del principio di eguaglianza al fatto che é frequente "che dalla valutazione dei medesimi fatti contabili traggano origine tanto reati fiscali che reati di altra natura (societari, di falso, di bancarotta). Poiché tuttavia la procedibilità per alcuni fatti é impedita, mentre può procedersi per i reati di natura non fiscale, appare del tutto ingiustificata la diversità che in tal modo si determina".

Ma la denunciata diversità di trattamento sia che si riferisca a reati diversi compiuti dalla stessa persona, sia che si riferisca ad autori diversi di reati diversi, non sussiste perché non sono eguali le situazioni giuridiche poste a confronto.

Infine il solo giudice istruttore di Frosinone invoca a parametro anche l'art. 53 della Costituzione e sostiene che "concedendo la possibilità di procrastinare a lungo il pagamento del dovuto, il soggetto verrebbe a locupletare somme su quanto dovuto alla collettività, non venendo così a concorrere alla spesa pubblica in relazione alla propria capacità contributiva". Ora basta osservare (a parte ogni altra considerazione) che la possibilità di procrastinare il pagamento a causa del lungo iter degli accertamenti deriva non dalle norme denunciate, ma dal sistema degli accertamenti tributari e del suo concreto funzionamento, per escludere la fondatezza della censura.

10. - L'ultima questione, sollevata dal tribunale di Genova, concerne l'art. 21 della legge n. 4 del 1929 in relazione all'art. 243 del T.U. n. 645 del 1958. Il reato del quale il tribunale lamenta la non immediata perseguibilità in pendenza dell'accertamento dell'esistenza del reddito evaso (reato non indicato nell'ordinanza di rimessione, ma desumibile dal fascicolo) é costituito dalla mancata presentazione della denunzia di un presunto reddito di avviamento, che a norma del citato art. 243 del T.U. nel caso che il reddito non denunziato superi i sei milioni é punito con l'arresto fino a sei mesi e con l'ammenda e, nel caso che non li superi, é punito con la sola ammenda.

Il giudice a quo, "rilevato che, in base ai documenti prodotti dalla difesa, risulta che é tuttora pendente il procedimento di contenzioso tributario relativo ai fatti oggetto dell'imputazione, per cui ai sensi dell'art. 21, ultimo comma, della legge 7 gennaio 1929, n. 4, l'azione penale non può attualmente avere corso", sospetta di illegittimità costituzionale il citato art. 21, ultimo comma, della legge n. 4 del 1929 in relazione agli artt. 53 e 3 della Costituzione.

L'art. 53 sarebbe violato perché, mentre esso "prevede che tutti i cittadini sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in relazione alla loro capacità contributiva, tuttavia é notorio ... che la complessità del contenzioso tributario e l'improcedibilità dell'azione penale fino alla definizione di esso consentono ai cittadini i quali vogliano sottrarsi all'obbligo tributario su loro gravante di dilazionare molto a lungo l'adempimento di tale obbligo, così lucrando di numerosi benefici indebiti...".

L'art. 3 sarebbe violato perché "in tal modo vengono ad ottenere un indebito vantaggio i cittadini intenzionati a sottrarsi alle loro obbligazioni tributarie ed altrettanto vengono danneggiati i cittadini i quali sono invece fedeli esecutori dei loro obblighi".

Esiste certamente (e costituisce l'oggetto di un dichiarato ma non attuato impegno a livello politico) quell'esigenza di una vera e rapida giustizia tributaria, che il giudice a quo manifesta nel sollevare la questione di legittimità costituzionale dell'art. 21, ultimo comma, della legge n. 4 del 1929. Ma la questione non é fondata.

Per quanto riguarda il riferimento all'art. 53 della Costituzione, soccorrono, per dimostrare la non fondatezza, le medesime ragioni sopra esposte al n. 9 esaminando la identica questione sollevata dal giudice istruttore di Frosinone a proposito dell'art. 56 del d.P.R. n. 600 del 1973.

Per quanto riguarda il riferimento all'art. 3 della Costituzione, pure valgono a dimostrare la non fondatezza della questione le considerazioni sopra svolte al n. 9 a proposito di analoga questione sollevata dal giudice istruttore di Frosinone, ancorché in termini lievemente diversi, essendo stata allora la violazione del principio di eguaglianza prospettata per le diverse conseguenze che la norma denunciata avrebbe prodotto al "piccolo evasore meno abbiente" per la limitata possibilità di difesa rispetto al grosso evasore che può ricorrere all'opera di specialisti, mentre il giudice di Genova la prospetta più genericamente per il vantaggio che la denunciata procedura tributaria arrecherebbe ai cittadini che non osservano le leggi rispetto a quelli che le osservano.

Anche la questione sollevata dal giudice di Genova (che a differenza di quella sollevata dai giudici istruttori di Napoli, Frosinone e Bologna non investe l'art. 112 della Costituzione) non é dunque fondata.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

- dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 58 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 nella parte in cui dispone che l'azione penale ha corso dopo che l'accertamento é divenuto definitivo anche nel caso del reato indicato nel quarto comma dell'art. 50 dello stesso d.P.R. n. 633;

- dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 56, ultimo comma, in relazione al comma terzo, lett. e, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, sollevata dai giudici istruttori dei tribunali di Napoli e di Bologna con le ordinanze nn. 469 del reg. ord. 1978 e 632 del reg. ord. 1981 di cui in epiarafe, in relazione agli artt. 3 e 112 della Costituzione e dal giudice istruttore del tribunale di Frosinone con l'ordinanza n. 144 del reg. ord. 1980 di cui in epigrafe, in relazione agli artt. 3, 53 e 112 della Costituzione;

- dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 21, ultimo comma, della legge 7 gennaio 1929, n. 4, sollevata dal tribunale di Genova con l'ordinanza n. 499 del reg. ord. 1980 di cui in epigrafe, in relazione agli artt. 3 e 53 della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 aprile 1982.

 

Leopoldo ELIA - Michele ROSSANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giovanni CONSO.

Giovanni VITALE - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 12 maggio 1982.