Sentenza n. 88 del 1982
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SENTENZA N. 88

ANNO 1982

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Leopoldo ELIA

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 60 della legge 7 gennaio 1929, n. 4 (Norme generali per la repressione delle violazioni delle leggi finanziarie) promosso con ordinanza emessa il 6 agosto 1975 dalla Corte d'Appello di Palermo, nel procedimento penale a carico di De Maria Domenico, iscritta al n. 436 del registro ordinanze 1975 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 306 del 19 novembre 1975.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 12 gennaio 1982 il Giudice relatore Oronzo Reale;

udito l'avvocato dello Stato Giuseppe Angelini Rota, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

Con ordinanza in data 6 agosto 1975 la Corte di Appello di Palermo, nel corso del procedimento penale a carico di De Maria Domenico, imputato della contravvenzione di cui all'art. 243 del T.U. 19 gennaio 1958, n. 685, per avere omesso di presentare tempestivamente la denunzia unica dei redditi da lui percepiti nell'anno 1969, sollevava questione incidentale di legittimità costituzionale dell'art. 60 della legge 7 gennaio 1929, n. 4, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui detta norma vincolerebbe il giudizio sulla sussistenza dei reati in materia di imposte dirette agli accertamenti dell'autorità amministrativa, sì da impedire di fatto la cognizione piena delle fattispecie costitutive della responsabilità penale. Ciò comporterebbe menomazione delle garanzie di difesa degli imputati nonché violazione dell'art. 3 della Costituzione "per cui tutti i cittadini (nel caso tutti gli imputati di reati tributari, riferiti a tributi diretti o indiretti) sono eguali davanti alla legge".

Premesso che il De Maria era stato condannato dal primo giudice per il reato di cui si é detto, la Corte remittente osservava che la pratica amministrativa si era risolta mediante concordato intervenuto tra il legale delegato dall'imputato e l'Ufficio, sul presupposto che i redditi accertati fossero riferiti all'anno 1969.

Tanto in istruttoria quanto nel corso del giudizio di primo grado, il De Maria aveva chiesto di provare che in realtà i redditi in contestazione erano stati da lui percepiti nel 1970, richiesta questa ribadita sia nell'atto di appello che nel dibattimento relativo.

La norma di cui all'art. 60 della legge n. 4 del 1929, soggiunge il giudice a quo, esclude - come da costante giurisprudenza della Corte di Cassazione - che in materia di imposte dirette il giudice penale possa conoscere dei fatti che hanno originato la controversia concernente il tributo da cui dipende l'esistenza del reato, costituendo in tal modo un vincolo tassativo ad ogni indagine della giurisdizione penale al riguardo.

Il disposto di tale norma, secondo il collegio a quo, costituirebbe deroga a due dei fondamentali principi che reggono la giustizia penale: quello del libero convincimento del giudice in merito all'accertamento dei fatti soggetti al suo esame e quello che ammette vincoli di pregiudizialità in materia penale solo con riferimento a specifici casi di decisioni di altri giudici.

Sulla base delle considerazioni sin qui esposte, la Corte d'Appello di Palermo ravvisa nella norma citata le remore che impediscono al giudice penale un pieno accertamento dei fatti; ciò comporterebbe una lesione della pienezza delle garanzie di difesa proprie del giudizio penale, con conseguente violazione sia dell'art. 24 Cost. (limitata possibilità di difesa dà parte dell'imputato in relazione agli aspetti già oggetto del procedimento tributario), sia dell'art. 3 Cost., in quanto si sarebbe creata una situazione di disuguaglianza tra gli imputati di reati tributari a seconda che si tratti di tributi diretti o indiretti.

Affermata la rilevanza della questione di costituzionalità come sopra indicata, la Corte d'Appello di Palermo sospendeva il giudizio in corso ed inviava gli atti a questa Corte.

Non si aveva costituzione di parti; spiegava intervento il Presidente del Consiglio dei ministri per il tramite dell'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la sollevata questione fosse dichiarata non fondata.

A sostegno di tale tesi l'Avvocatura osservava che nella specie non esisterebbe alcuna menomazione dei diritti di difesa degli imputati di reati tributari in materia di imposte dirette, i quali, avvalendosi di un amplissimo sistema di ricorsi, amministrativi prima e giurisdizionali poi, usufruiscono sia di diverse e collegate facoltà difensive, sia del vantaggio di non essere esposti a denunce penali prima della conclusione del contenzioso stesso.

Ricordava ancora l'Avvocatura che quando il sistema descritto venne modificato con l'art. 35, ultimo comma, della legge n. 1 del 1956, al fine di colpire tempestivamente i responsabili di frodi fiscali con una disciplina più rigorosa avverso le evasioni, tale innovazione fu legislativamente abolita in forza dell'art. 252 T.U. 29 gennaio 1958, n. 645; e che questa ulteriore innovazione fu ritenuta costituzionalmente legittima con la sentenza della Corte Costituzionale n. 32/1968.

Né (e citava al riguardo la sentenza n. 8 del 1973 della Corte Costituzionale la quale concerne il diverso termine di decorrenza della prescrizione in materia di reati tributari) sarebbe fondato il dubbio di costituzionalità riferito all'art. 3 della Costituzione, atteso che la complessità tecnica degli accertamenti nonché la speciale natura dei tributi diretti giustificherebbero ampiamente "le particolarità della relativa disciplina" attinenti a tali reati e perché "comunque, tali particolarità, proprio in funzione di quelle caratteristiche, determinano una più intensa tutela dei relativi imputati".

La causa fu discussa all'udienza del 19 marzo 1980 ma, per la sopravvenuta scomparsa del giudice prof. Astuti, fu poi rimessa all'udienza del 12 gennaio 1982.

 

Considerato in diritto

 

1. - Come si evince dalla narrativa, la Corte d'Appello di Palermo doveva giudicare della responsabilità penale di un contribuente che aveva denunciato nel 1971, con riferimento all'anno 1970, un reddito che - secondo le risultanze di un concordato fra un mandatario dello stesso contribuente e l'Ufficio delle Imposte - sarebbe stato invece prodotto nell'anno 1969 e avrebbe dovuto quindi essere denunciato nell'anno 1970. Il contribuente aveva chiesto in tribunale (dove era stato condannato), e chiedeva in appello, di essere ammesso a provare che il realtà il reddito era stato percepito nel 1970, e quindi la denuncia era stata tempestiva. Ma la Corte d'Appello rilevava che l'art. 60 della legge 7 gennaio 1929, n. 4, (come interpretato dalla Cassazione), escludendo l'applicabilità alla materia delle imposte dirette dell'art. 22 della stessa legge, vincolava "tassativamente il giudice penale all'esito di un procedimento amministrativo" e quindi, nella specie, precludeva la prova invocata dal contribuente al fine di escludere il fatto-reato imputatogli. La Corte dubitava quindi della costituzionalità del detto vincolo che "costituisce deroga a due principi fondamentali dell'ordinamento processuale penale: quello che affida l'accertamento dei fatti al libero convincimento del giudice, con esclusione assoluta, nel suo ambito, di prove legali; e quello che ammette rispetto al giudizio penale vincoli di pregiudizialità solo in rapporto a casi limitati di decisioni di altri giudici".

2. - La questione é fondata.

Occorre preliminarmente osservare che, pur avendo nel dispositivo invocato quali parametri soltanto gli artt. 3 e 24 della Costituzione, tutta l'impostazione dell'ordinanza, come espressamente risulta dalle proposizioni sopra citate, nelle quali si denuncia la violazione del principio del libero convincimento del giudice, chiama in causa anche l'art. 101, 2 comma, della Costituzione. Pertanto, in conformità di quanto già altre volte ritenuto dalla Corte (cfr. sent. n. 1 del 1971), la questione deve essere esaminata anche con riferimento all'art. 101, 2 comma, della Costituzione.

Il fatto che il reddito del quale si discuteva fosse stato percepito nel 1969 (non nel 1970, come sostenuto dal contribuente) risultava da un "concordato al riguardo intervenuto il 17 febbraio 1972 tra l'ufficio impositore e un legale da lui (il contribuente) incaricato".

Esattamente il giudice a quo ha attribuito al concordato il valore di un atto amministrativo, contrapponendolo alle "decisioni di altri giudici" rispetto alle quali sarebbero ipotizzabili "vincoli di pregiudizialità" per il giudice penale.

In effetti la giurisprudenza della Cassazione e della Commissione Centrale Tributaria e la prevalente dottrina, escludendo il carattere transattivo del concordato, lo qualificano come un atto di accertamento autoritativo cui il contribuente presti adesione; comunque, come "atto amministrativo", che esclude ogni connotato del provvedimento giurisdizionale.

Ora l'art. 60 della legge n. 4 del 1929, escludendo l'applicabilità ai tributi diretti dell'art. 22 della stessa legge, sostanzialmente conferma la disposizione del terzo comma dell'art. 21 ("per i reati previsti dalla legge sui tributi diretti l'azione penale ha corso dopo che l'accertamento dell'imposta e della relativa sovrimposta é divenuto definitivo a norma delle leggi regolanti la materia"), che, secondo la costante giurisprudenza, attribuisce a tale accertamento, anche quando si sia verificato in fase amministrativa, un'efficacia vincolante per il giudice penale, certamente incompatibile con il principio del libero convincimento, tanto più rigoroso in sede di giudizio penale. E anche l'art. 21, terzo comma, così interpretato e applicato, deve perciò intendersi compreso nella questione sollevata.

Tale evidente violazione dell'art. 101, secondo comma, della Costituzione si combina con quella degli artt. 24 e 3. Il primo é violato in quanto l'accertamento amministrativo che fa stato nel giudizio penale impedisce l'esercizio del diritto inviolabile della difesa. Il secondo perché la preclusione per il giudice penale, che deriva dall'accertamento amministrativo in materia tributaria, differenzia irrazionalmente la condizione degli imputati secondo che la imputazione sia conseguente a un accertamento amministrativo tributario o no e, nell'ambito degli accertamenti amministrativi tributari, sia relativa a imposte dirette o indirette.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara la illegittimità costituzionale degli artt. 60 e 21, terzo comma, della legge 7 gennaio 1929, n. 4, nella parte in cui prevedono che l'accertamento dell'imposta e della relativa sovrimposta, divenuto definitivo in via amministrativa, faccia stato nei procedimenti penali per la cognizione dei reati preveduti dalle leggi tributarie in materia di imposte dirette.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 aprile 1982.

 

Leopoldo ELIA - Michele ROSSANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA.

Giovanni VITALE - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 12 maggio 1982.