Sentenza n. 70 del 1982
 CONSULTA ONLINE 

 

SENTENZA N. 70

ANNO 1982

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Leopoldo ELIA

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 15 della legge 25 gennaio 1962, n. 20 (Norme sui procedimenti e giudizi di accusa) promosso con ordinanza emessa l'8 luglio 1976 dal Tribunale di Roma, nel procedimento penale a carico di De Martino Renato ed altri, iscritta al n. 727 del registro ordinanze 1976 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24 del 26 gennaio 1977.

Visti l'atto di costituzione di De Martino Renato ed altri - l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 26 gennaio 1982 il Giudice relatore Livio Paladin;

uditi l'avv. Nino Gaeta e l'avv. Paolo Genazzini per De Martino Renato ed altri e l'avvocato dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nel corso di un procedimento penale a carico di Renato De Martino ed altri, rinviati a giudizio per rispondere - fra l'altro - di concorso nei reati continuati di interesse privato in atti di ufficio e di peculato, che sarebbero stati commessi dal Ministro delle finanze pro-tempore, il Tribunale di Roma ha sollevato - con ordinanza emessa l'8 luglio 1976 - questione di legittimità costituzionale dell'art. 15 della legge 25 gennaio 1962, n. 20, in riferimento agli artt. 90, 96, 134, 25, primo comma, 102, 112, 3, 101 e 104 della Costituzione.

Il giudice a quo premette che, relativamente al Ministro delle finanze pro-tempore, la Commissione inquirente deliberava di "non doversi procedere in ordine ai fatti oggetto dell'inchiesta"; e tale deliberazione diveniva definitiva, non essendosi raggiunta - entro il Parlamento in seduta comune - la maggioranza necessaria per la messa in stato di accusa. Con ciò, per effetto della norma impugnata, si sarebbe tuttavia determinata una preclusione processuale, "operativa ... anche nei confronti di soggetti non ancora giudicati e, quindi, anche per imputati diversi da quelli esaminati" in sede parlamentare.

Il Tribunale non condivide, infatti, la tesi del giudice istruttore, per cui la preclusione non opererebbe se non "nei confronti delle persone sottoposte ad inchiesta da parte del Parlamento, per gli stessi fatti già esaminati": ivi compresi gli imputati "laici", ma solo in quanto il Parlamento avesse disposto, "nella sua insindacabile valutazione politica", la riunione dei procedimenti connessi per ragioni soggettive. In quest'ultima ipotesi - obietta l'ordinanza di rimessione - la preclusione sarebbe "conseguenza ovvia" della pronuncia adottata dal Parlamento medesimo, "in applicazione del principio del ne bis in idem"; laddove l'art. 15 della legge n. 20 del 1962 tenderebbe invece ad "evitare, per ragioni di convenienza politica, più che per assicurare la certezza del diritto, il contrasto di giudicati emessi sugli stessi fatti, dal Parlamento nei confronti di imputati politici e dalla magistratura ordinaria nei confronti degli imputati laici".

Ciò posto, però, la norma impugnata contrasterebbe anzitutto con gli artt. 90, 96 e 134 Cost., poiché - sostanzialmente - essa estenderebbe "la sfera soggettiva della giurisdizione penale degli organi di giustizia politica", al di là dei reati politici addebitabili a persone aventi la qualità di Presidente della Repubblica o di Ministro. Per le stesse ragioni, l'art. 15 violerebbe inoltre gli artt. 25, primo comma, 102 e 112 Cost., in quanto sottrarrebbe l'imputato "laico" alla giurisdizione ordinaria (a vantaggio di un giudice che, per questi aspetti, dovrebbe considerarsi speciale), lo distoglierebbe dunque dal giudice naturale e impedirebbe l'inizio ed il proseguimento dell'azione penale.

Del pari, si profilerebbe sotto un duplice aspetto la violazione dell'art. 3 Cost., poiché da una parte - osserva il giudice a quo - "l'estensione soggettiva della giurisdizione costituzionale penale pregiudica i diritti dell'imputato laico che, per effetto delle norme sulla connessione, si vede privare dei tre gradi della giurisdizione ordinaria"; e d'altra parte "il soggetto, per effetto dell'art. 15 e dell'estensione soggettiva della preclusione, viene a trarre giovamento dalla pronuncia politica della Commissione Inquirente, vede estinguersi l'azione penale esercitata nei suoi confronti davanti all'autorità giudiziaria ordinaria e viene a trovarsi in una posizione di privilegio rispetto agli altri cittadini che, per analoghi reati, si vedono sottoposti a procedimento penale".

Infine, la norma in esame contrasterebbe anche con gli artt. 101 e 104 Cost., poiché la preclusione da essa sancita, "importando l'estinzione od impedendo il proseguimento dell'azione penale" - afferma ancora il giudice a quo - "costringe il magistrato, sostanzialmente, a far proprio il giudizio politico della Commissione Inquirente". E, quanto alla natura politica di quest'organo e delle sue decisioni, il Tribunale si richiama al testo dell'art. 20 del relativo regolamento parlamentare, considerato alla luce dei lavori preparatori che sottolineano appunto "il carattere non obbligatorio, ma di opportunità, della prosecuzione dell'azione punitiva costituzionale".

2. - Nel giudizio innanzi alla Corte si sono costituiti gli imputati, i quali eccepiscono, in via preliminare, l'irrilevanza delle sollevate questioni. I reati di peculato e d'interesse privato, compresi fra i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, sono infatti - si osserva - "reati propri del pubblico ufficiale": con la conseguenza che, una volta prosciolto il Ministro, anche senza far applicazione dell'impugnato art. 15, la preclusione in esame avrebbe comunque "la sua radice naturale in ovvi principi giuridici di diritto sostanziale e procedurale".

In ogni caso, le sollevate questioni sarebbero manifestamente infondate, non essendo violato nessuno dei precetti costituzionali invocati nella specie: non l'art. 25, primo comma, "poiché nel procedimento d'accusa si osservano le norme dei codici penale e di procedura penale e, giusta tali norme, la disciplina degli effetti della connessione dei procedimenti sulla competenza dei giudici é inerente al sistema ed é perfettamente attinente alla predeterminazione legale del giudice naturale"; non gli artt. 101, 102 e 104, "poiché la funzione giurisdizionale é attribuita al Parlamento dalla Costituzione ed alla Commissione Interparlamentare inquirente dall'art. 12 della legge costituzionale n. 1/1953"; non l'art. 112, "poiché nel Parlamento sono cumulate funzioni istruttorie ed accusatorie che possono dar luogo alla messa in stato di accusa come al proscioglimento"; e neppure l'art. 3 Cost., poiché la norma che attribuisce alla definizione del procedimento d'accusa efficacia preclusiva, "oltre a corrispondere a rilevantissimo interesse costituzionale, é coerente" - si aggiunge - "con i principi che reggono l'istituto della cosa giudicata penale".

3. - É inoltre intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, che "si rimette interamente" all'interpretazione della Corte, per ciò che riguarda la controversa portata della preclusione in esame.

Nondimeno, nell'atto di costituzione si aggiunge che sono di certo irrilevanti le questioni sollevate in riferimento agli artt. 90 (sulle accuse nei riguardi del Presidente della Repubblica) e 134 Cost. (sui poteri della Corte costituzionale). Comunque infondate sarebbero invece le altre impugnative. Quanto all'art. 96 Cost., la competenza istruttoria ed accusatoria del Parlamento sarebbe comprensiva dei "reati connessi", essendo stata istituita "ratione materiae e non già ratione personae per creare in favore dei ministri un foro privilegiato".

Quanto all'art. 25 Cost., basterebbe considerare che il giudice in questione e la sua competenza sono stati precostituiti dalla legge in esame. Quanto all'art. 102, non si potrebbe parlare di giudici straordinari o speciali a proposito delle Camere riunite e della Corte costituzionale, entrambi direttamente previsti dalla Costituzione. Né sussisterebbe violazione del principio di eguaglianza - osserva l'Avvocatura dello Stato - "dato che la norma si applica indiscriminatamente ed oggettivamente a tutti coloro che siano imputati di reati connessi a reati ministeriali".

Del resto, il Presidente del Consiglio contesta la premessa dell'ordinanza di rimessione per cui la messa in accusa deriverebbe da una valutazione essenzialmente politica e non giuridica. Sia dal raffronto fra l'art. 47 dello Statuto albertino e l'art. 96 Cost. (in cui si afferma che i ministri "sono" posti in stato d'accusa dal Parlamento in seduta comune), sia dagli atti della Costituente, sia dalla sentenza n. 259/1974 di questa Corte risulterebbe, infatti, "applicabile anche al Parlamento il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale".

Ma, anche se così non fosse, la questione rimarrebbe infondata, poiché i pretesi vizi "deriverebbero non già dalla norma impugnata o da qualsiasi altra norma di legge ordinaria o regolamentare, bensì dalla stessa Costituzione". E, fermo restando che la Costituzione non abbia inteso stabilire in materia un privilegio personale, sarebbe pur sempre "giusto che la valutazione favorevole compiuta dal Parlamento estenda i suoi effetti anche a vantaggio dei laici che abbiano concorso o collaborato con il ministro". In entrambe le ipotesi interpretative, la norma impugnata troverebbe cioè la propria giustificazione nell'"evitare che alla valutazione del fatto, compiuta dal Parlamento nell'esercizio di una competenza ad esso espressamente conferita dalla Costituzione, possa sovrapporsi una difforme valutazione del fatto medesimo compiuta dall'autorità giudiziaria".

4. - In prossimità della pubblica udienza, la difesa degli imputati ha depositato una memoria, per ribadire le conclusioni dell'inammissibilità o della manifesta infondatezza. Nel primo senso, la memoria riafferma che la proposta impugnativa "non ha rilevanza al riguardo dei reati propri (del Ministro), mentre astrattamente potrebbe averne per quanto concerne i reati comuni". Nel secondo senso, premesso che sarebbe "apodittica" l'interpretazione dell'art. 15 assunta dal giudice a quo, la memoria osserva che comunque non potrebbe dirsi costituzionalmente imposta "la limitazione soggettiva della cosa giudicata" (come verrebbe tra l'altro dimostrato dalle varie ipotesi di "efficacia riflessa" del giudicato stesso).

La difesa degli imputati richiama infine l'attenzione della Corte sulle seguenti circostanze della vicenda processuale: primo, che relativamente ai reati di peculato e di interesse privato la definizione del procedimento d'accusa fu operata dalla Commissione inquirente e non dal Parlamento in seduta comune; secondo, che in ordine alle imputazioni delle quali si tratta nel giudizio a quo il pubblico ministero aveva chiesto la cancellazione delle frasi aventi specifico riguardo al Ministro delle finanze pro-tempore: il che invece non fu fatto dalla sentenza di rinvio a giudizio.

5. - Alla pubblica udienza, tanto la difesa degli imputati quanto l'Avvocatura dello Stato hanno dedotto l'infondatezza dell'impugnativa, chiedendosi - per altro - se la sopravvenuta legge n. 170 del 1978, in forza della quale é stato abrogato l'art. 15 della legge n. 20 del 1962, non importi un riesame della rilevanza da parte del giudice a quo.

 

Considerato in diritto

 

1. - Va preliminarmente respinta la richiesta di restituzione degli atti al giudice a quo, avanzata in udienza dall'Avvocatura dello Stato.

La preclusione già frapposta all'inizio od al proseguimento dell'azione penale innanzi all'autorità giudiziaria ordinaria o militare, "per gli stessi fatti" in ordine ai quali la Commissione inquirente o il Parlamento in seduta comune avessero deliberato di non doversi procedere, non sussiste più dal momento che l'art. 9 della legge 10 maggio 1978, n. 170, ha espressamente abrogato l'art. 15 della legge 25 gennaio 1962, n. 20 (come pure l'intero complesso degli artt. 1-16). Ma ciò non significa che sia venuta meno la rilevanza della questione sollevata dal Tribunale di Roma. É chiaro, al contrario, che l'effetto abrogativo così determinato dalle nuove norme sui procedimenti d'accusa non opera se non per l'avvenire. Ne offre la riprova l'art. 10 della legge n. 170 del 1978, in cui si esclude l'applicabilità della parte essenziale della nuova disciplina concernente la Commissione istituita ai fini delle accuse contro il Presidente della Repubblica ed i Ministri, quanto agli stessi "procedimenti in corso innanzi alla Commissione per i quali siano stati già compiuti atti aventi rilevanza istruttoria": il che conferma che la legge n. 170 non potrebbe farsi retroagire nel senso ipotizzato dall'Avvocatura dello Stato, là dove si tratti di procedimenti ormai esauriti, come appunto si verifica nel caso dell'"inchiesta svolta nei confronti del senatore Giuseppe Trabucchi per alcuni atti da questi compiuti nella sua qualità di Ministro delle finanze relativamente alla importazione di tabacco messicano", che la Commissione inquirente concluse in via definitiva - per la parte riguardante le imputazioni di contrabbando, di peculato e di interesse privato in atti d'ufficio - con la relazione comunicata alle Presidenze delle Camere il 26 giugno 1965 (mentre il Parlamento fu chiamato a pronunciarsi limitatamente all'imputazione di "abuso di potere" del Ministro medesimo).

2. - Del pari, va rigettata l'eccezione d'inammissibilità della questione in esame, proposta dalla difesa degli imputati nel giudizio a quo.

Nell'atto di costituzione e nella conseguente memoria di tale difesa, si afferma in sostanza che la sorte degli imputati non dipenderebbe dall'applicazione dell'art. 15 della legge n. 20 del 1962; poiché, in ogni caso, la deliberazione di non doversi procedere contro il Ministro delle finanze pro- tempore, in ordine a reati propri di un pubblico ufficiale come quelli di peculato e di interesse privato, determinerebbe - secondo il vigente ordinamento penale, sostanziale e processuale l'impossibilità di perseguire penalmente altri soggetti, per essere concorsi nei reati medesimi. Ma l'assunto si risolve in una petizione di principio. Il vigente ordinamento penale non stabilisce in proposito, di massima, se non le preclusioni risultanti dall'art. 90 cod. proc. pen.: il quale, per altro, si limita a vietare - con riferimento a situazioni ben diverse, dalle indagini e dalle deliberazioni della Commissione inquirente o dello stesso Parlamento in seduta comune - un secondo giudizio, "per il medesimo fatto", a carico di un imputato condannato o prosciolto mediante "sentenza divenuta irrevocabile". Al di là di tale espressa previsione, vale invece il criterio - saldamente seguito dalla giurisprudenza - che il giudicato penale formatosi sopra un certo fatto non vincola il giudice chiamato a rivalutare il fatto medesimo, relativamente ad un altro imputato.

Se fosse dunque annullato l'art. 15 della legge n. 20 del 1962, inteso nel senso di farne derivare una preclusione "assoluta ed oggettiva" (secondo le parole adoperate nell'ordinanza di rimessione) quanto ai fatti esaminati nei relativi procedimenti di accusa, in diritto positivo non sarebbe dato rintracciare altre norme o principi generali suscettibili d'impedire al giudice penale l'autonoma ricerca della verità, per effetto di pregiudizialità del tipo descritto dalla difesa degli imputati. In altre parole, non é sulla base dei principi ma soltanto alla stregua di un'apposita disposizione legislativa che le deliberazioni di non doversi procedere, adottate dalla Commissione parlamentare inquirente, potrebbero assumere l'autorità della cosa giudicata o dispiegare comunque un'efficacia riflessa, quanto al concorso di altre persone imputate dei medesimi fatti già considerati dalla Commissione stessa, che formino però l'oggetto di procedimenti penali rimasti separati.

3. - La soluzione dei problemi prospettati dal Tribunale di Roma presuppone, tuttavia, che si determini esattamente la portata della preclusione derivante dall'art. 15 della legge n. 20 del 1962.

L'impugnazione di tale disposto si fonda, in effetti, sopra un'interpretazione ben precisa, ma tutt'altro che pacifica, dell'"intenzione del legislatore". Il Tribunale respinge, cioè, l'impostazione del giudice istruttore, che sosteneva conclusivamente, nella sentenza di rinvio a giudizio: "Solo nel caso in cui venga disposta la riunione dei procedimenti, potrà ritenersi operante la preclusione in esame anche nei confronti delle altre persone (diverse dal Ministro) sottoposte al procedimento di accusa ... essendo evidentemente il Parlamento stesso, nella sua insindacabile valutazione politica, arbitro di disporre o meno una estensione dei limiti soggettivi della inchiesta e, correlativamente, della efficacia preclusiva dell'eventuale atto di definizione della medesima". All'opposto, nell'ordinanza di rimessione si contesta che "il silenzio della norma in ordine ai limiti soggettivi della preclusione" sia la "conseguenza di una dimenticanza e, quindi, di un errore di formulazione della dizione legislativa": per sostenere, invece, che la norma stessa, ben lontano dal rappresentare "una inutile ripetizione dell'art. 90 c.p.p.", risponderebbe allo scopo di evitare qualsiasi tipo di contraddizione fra i "giudicati"politici degli organi parlamentari e quelli altrimenti suscettibili di essere formati dall'autorità giudiziaria ordinaria. Ed éprecisamente su questa premessa che s'innestano i dubbi sollevati dal giudice a quo, circa la conformità dell'art. 15 rispetto ad una serie di norme costituzionali: vale a dire, in relazione agli artt. 3, 25, primo comma, 90, 96, 101, 104, 112 e 134 della Costituzione.

4. - Senonché la Corte non può fare propria la ricostruzione della norma impugnata, dalla quale traggono origine le censure in questione.

Per prima cosa, tale interpretazione non é affatto consolidata, così da costituire "diritto vivente". Al contrario, dell'art. 15 della legge n. 20 sono state fatte, sino ad ora, isolatissime e non certo uniformi applicazioni: come stanno a dimostrare, poco dopo l'emissione dell'ordinanza in esame, le decisioni e le motivazioni adottate dallo stesso Tribunale e poi dalla Corte d'appello di Roma, nel procedimento penale a carico di Chiatante Ennio ed altri. Né si ricavano elementi conclusivi, a sostegno della tesi adottata dal giudice a quo, ripercorrendo le argomentazioni che la Corte ha svolto, in vista di problemi comunque diversi da quello che viene attualmente in considerazione, con le sentenze n. 13 del 1975 e n. 125 del 1977. Nella prima di tali decisioni, si legge anzi "che il normale corso della giustizia penale non può essere paralizzato" se non "nel momento in cui l'esercizio di questa verrebbe ad incidere su fatti soggettivamente ed oggettivamente ad essa sottratti e in ordine ai quali sia stata ritenuta la competenza degli organi parlamentari"; mentre nella pronuncia più recente si rileva - tra l'altro - come "venuta a cadere la necessarietà della connessione, o sopravvenute prevalenti esigenze di rapida definizione del processo, venga restaurata la competenza del giudice ordinario".

D'altra parte, non é determinante, nella direzione cui mira il Tribunale di Roma, il ricorso ai lavori preparatori della legge n. 20. Quanto all'art. 15 della legge stessa, la relazione alla corrispondente proposta si risolve, infatti, nel ripetere che la delibera della Commissione inquirente "é vincolativa per l'autorità giudiziaria ordinaria o militare, nel senso che impedisce l'inizio o il proseguimento dell'azione penale, da parte di questa per gli stessi fatti"; ma non chiarisce per nulla in che senso si debbano intendere i fatti medesimi.

In tali circostanze, non giova sforzarsi di trarre argomento da labili e controvertibili dati testuali: a cominciare da ciò che l'art. 15 si limita a mettere in rilievo "gli stessi fatti" per cui sia intervenuta la definizione del procedimento d'accusa, senza far menzione di alcun requisito soggettivo. Occorre privilegiare, invece, l'interpretazione sistematica, basata sui principi del processo penale, che non potrebbero non riflettersi sulla cognizione dei "reati connessi" a quelli ministeriali (come conferma il finale richiamo alle norme dei codici penale e di procedura penale, contenuto nell'art. 34 della legge n. 20 del 1962).

Sistematicamente, dunque, l'interpretazione restrittiva dell'art. 15 non implica affatto che esso si riduca ad una "inutile ripetizione" dell'art. 90 cod. proc. pen.: per l'evidente motivo che le deliberazioni di non doversi procedere, adottate dalla Commissione inquirente (o dal Parlamento in seduta comune), non hanno natura di sentenze, né possono considerarsi irrevocabili, in nome dei soli principi del diritto penale processuale. La legge n. 20, nel primo comma dell'art. 3, assimila infatti la Commissione inquirente al pubblico ministero nell'istruzione sommaria. Ed in ogni caso la regola dell'"inammissibilità di un secondo giudizio" non coinvolge le sentenze di proscioglimento pronunciate dal giudice istruttore (cui si é voluto - secondo un orientamento dottrinale - equiparare il Parlamento in seduta comune), data la distinta e diversa previsione dell'art. 402 cod. proc. pen., fatta espressamente salva dallo stesso art. 90.

Ne segue che la norma impugnata vale pur sempre a produrre una preclusione che non avrebbe potuto desumersi, neanche a favore dei soggetti per cui gli organi parlamentari competenti avessero reso impossibile o formalmente negato la messa in stato di accusa, dalle norme generali del codice di procedura penale. E ciò, sia nel senso di vietare che i soggetti inquisiti unicamente ad un ministro, per effetto della riunione dei procedimenti, vengano sottoposti alla giurisdizione penale ordinaria o militare, quanto alle medesime imputazioni; sia nel senso di mantenere immuni gli stessi ministri interessati dall'eventualità che il giudice penale possa procedere nei loro confronti, qualificando diversamente gli atti o i comportamenti per i quali gli organi parlamentari avessero deliberato di non doversi procedere, anziché dichiarare la propria incompetenza in base all'art. 14 della legge n. 20.

Né si può dire che un'opposta conclusione sia resa necessaria dalle peculiari esigenze e caratteristiche della cosiddetta giustizia politica, istituita per la cognizione dei reati presidenziali e ministeriali. Da un lato, la prova del contrario é oggi fornita dalla legge n. 170 del 1978, che ha ridisciplinato i procedimenti d'accusa, abrogando senz'altro l'art. 15 della legge n. 20 del 1962. D'altro lato, sarebbe contraddittorio sottolineare le ragioni di opportunità politica, in vista delle quali gli organi parlamentari potrebbero disporre od evitare la riunione dei procedimenti, per poi far giocare le medesime ragioni al fine di impedire qualsiasi tipo di rivalutazione dei medesimi fatti, oggettivamente assunti, sia che la riunione fosse stata effettuata, sia che i procedimenti relativi ai "reati connessi" fossero rimasti separati.

Correttamente inteso, l'art. 15 della legge n. 20 del 1962 va letto cioè, in collegamento con l'art. 16 della legge stessa, anziché venirne dissociato: il che significa che la preclusione non si determina, se non nella misura in cui sia stata fatta operare, da parte della Commissione inquirente (o del Parlamento in seduta comune), la connessione dei procedimenti.

5. - Ciò posto, non occorre nemmeno rilevare che ad una gran parte, se non alla totalità, delle censure proposte dal Tribunale di Roma, questa Corte ha già in sostanza replicato, con la motivazione della ricordata sentenza n. 125 del 1977. La questione é comunque infondata, per l'assorbente ragione che la norma impugnata non produce gli effetti ritenuti illegittimi dal Tribunale stesso.

Ma, prima ancora, la questione é sotto certi aspetti inammissibile, in quanto alcuni fra i parametri cui si fa richiamo nell'ordinanza di rimessione sono estranei al tema del giudizio a quo. Come ha giustamente notato l'Avvocatura dello Stato, l'art. 90 Cost. si riferisce, infatti, ai reati presidenziali, che in questa sede non vengono in considerazione; a sua volta, l'art. 134 attiene; alla giurisdizione penale della Corte, mentre l'art. 15 della legge n. 20 del 1962 é destinato a ricevere applicazione, da parte del giudice a quo, relativamente alla sola definizione del procedimento d'accusa per opera della Commissione inquirente; ed é inconferente anche il riferimento all'art. 112, dal momento che la impugnativa in esame risulta sollevata in una fase in cui era stata da tempo promossa l'azione penale del pubblico ministero.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 15 della legge 25 gennaio 1962, n. 20, in riferimento agli artt. 90, 112 e 134 Cost., sollevata dal Tribunale di Roma, con l'ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del predetto art. 15, in riferimento agli artt. 3, 25, primo comma, 96, 101, 102 e 104 Cost., sollevata dal Tribunale di Roma con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 aprile 1982.

 

Leopoldo ELIA - Michele ROSSANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Brunetto  - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA.

Giovanni VITALE - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 16 aprile 1982.