Sentenza n. 290 del 1974
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SENTENZA N. 290

ANNO 1974

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Avv. Giovanni Battista BENEDETTI

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE   

Prof. Paolo ROSSI     

Avv. Leonetto AMADEI

Dott. Giulio GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Prof. Guido ASTUTI

Dott. Michele ROSSANO

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 503 del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 31 marzo 1972 dal pretore di Monfalcone nel procedimento penale a carico di Antonaci Giuliano ed altri, iscritta al n. 200 del registro ordinanze 1972 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 165 del 28 giugno 1972.

Udito nella camera di consiglio del 24 ottobre 1974 il Giudice relatore Leonetto Amadei.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nel corso di un procedimento penale a carico di esponenti sindacali e politici, imputati del reato previsto e punito dagli artt. 503 e 511 del codice penale, il pretore di Monfalcone ha sollevato d'ufficio, con ordinanza del 31 marzo 1972, la questione di legittimità costituzionale del precitato art. 503 del codice penale, in riferimento agli artt. 3 e 40 della Costituzione.

Vale precisare che gli esponenti politici e sindacali erano stati incriminati per avere indetto e organizzato uno sciopero di protesta per i fatti di Catanzaro del febbraio 1972 e in particolare contro "il revanscismo fascista diretto ad annullare le conquiste dei lavoratori e a bloccare le ulteriori avanzate popolari sulla via del progresso e delle riforme civili; per la difesa e la integrale applicazione della Costituzione; nonché per dare pubblica testimonianza di attaccamento ai valori della resistenza e della democrazia contro ogni ritorno a metodi e ideali che la storia e la coscienza civile del popolo italiano hanno condannato". Tali finalità erano state precisate nei manifesti di invito a partecipare allo sciopero e fatti affiggere dai promotori.

2. - Nella motivazione dell'ordinanza l'illegittimità costituzionale della norma impugnata poggia su un duplice ordine di considerazioni, le une di carattere generale e le altre di carattere specifico.

3. - In via generale si osserva che appare difficile, se non impossibile, distinguere tra sciopero per fini economici e sciopero per fini politici, attesa la stretta connessione esistente tra le due forme, tanto da doversi considerare sciopero economico anche quello che sostanzialmente si risolve in una pressione politica nei riguardi dei pubblici poteri al fine di stimolarli all'accoglimento di determinate rivendicazioni di categoria o di classe, quali una più adeguata normativa in materia di sicurezza del lavoro, provvedimenti più congrui in materia di assistenza del lavoratore e della sua famiglia, negli ambienti di lavoro, ecc. Il rilievo porterebbe, a parere del giudice a quo, a dover concludere che, nel presente momento storico della società italiana, al concetto di sciopero dovrebbe attribuirsi un significato ed una portata molto più ampi di quella di semplice astensione dal lavoro per fini contrattuali e tali da abbracciare non solo il contesto degli articoli che precedono o seguono nello stesso titolo della Costituzione l'art. 40, ma anche i principi fondamentali della stessa Costituzione. In sostanza la tutela offerta dall'art. 40 oltre ad includere gli artt. 35, 38, 45, 46 della Costituzione, si estenderebbe anche all'art. 3 della stessa. Non solo, ma tale articolo rappresenterebbe addirittura la base di partenza per la interpretazione dell'art. 40 e di tutte le altre norme ricordate nel titolo che lo comprende.

In particolare l'ordinanza precisa che tra i fini di tutela economico-sociale propri del diritto di sciopero, non potrebbero non essere inclusi anche quelli a contenuto politico, dato che ad ogni espressione politica corrisponde ineluttabilmente un determinato indirizzo politico normativo che può tradursi in una condizione o di progresso o di regresso della classe lavoratrice.

4. - Sulla base delle suesposte considerazioni generali l'ordinanza rileva che l'art. 503 del codice penale, come quello che, nella sua attuale formulazione, consentirebbe di colpire e di incriminare penalmente ogni astensione collettiva dal lavoro che appena appena si discostasse dalla rivendicazione diretta ed immediata di carattere contrattuale-patrimoniale, offre il destro a soluzioni autoritarie nella vasta materia dei delicati conflitti di lavoro. D'altra parte la mancata regolamentazione del diritto di sciopero non potrebbe senz'altro legittimare la sopravvivenza dell'art. 503 del codice penale per il suo diretto ed esclusivo collegamento all'ordinamento corporativo fascista, ispirato a principi rigidamente repressivi di ogni forma di sciopero e di tutela unilaterale del lavoro.

Avendo la Costituzione repubblicana ripudiato tale ordinamento corporativo e i principi autoritari che lo ispiravano, anacronistica, oltretutto, si prospetterebbe una legittimazione della sopravvivenza dell'art. 503 e della sua matrice antidemocratica. Spetterà eventualmente al legislatore, sciogliendo la riserva di legge contenuta nell'art. 40 della Costituzione, emanare norme di disciplina del diritto di sciopero adeguate e corrispondenti a quei principi di modernità, socialità e democrazia sui quali poggia la società italiana contemporanea, nel quadro e nello spirito della Carta costituzionale.

5. - Non vi é stata costituzione di parte né atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Considerato in diritto

 

1. - Con l'ordinanza indicata in epigrafe il pretore di Monfalcone solleva la questione di legittimità costituzionale dell'art. 503 del codice penale - nella parte in cui punisce lo sciopero per fine politico - , in riferimento agli artt. 3 e 40 della Costituzione.

Il primo motivo di illegittimità costituzionale poggia sulla considerazione che la prevista sanzione penale per lo sciopero per fini non contrattuali violerebbe l'art. 3 della Costituzione nella parte in cui questo riconosce esplicitamente il diritto dei cittadini e in particolare dei lavoratori a che la Repubblica rimuova "gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza... impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale del paese", disposizione ricollegabile alla successiva norma dell'art. 40 della Costituzione, come quella nella quale gli interessi di ordine economico e sociale dei lavoratori sono particolarmente tutelati.

Al secondo motivo, partendo dal presupposto "essere difficile, se non impossibile", operare una netta distinzione tra sciopero politico e sciopero per fine economico, stante la loro stretta connessione, si attribuisce all'art. 40 della Costituzione una portata che va al di là della semplice astensione dal lavoro per scopi meramente retributivi fino ad assorbire oltre agli articoli contemplati nel titolo terzo della prima parte della Costituzione anche alcuni aspetti dei principi fondamentali.

La questione é fondata nei limiti che saranno qui di seguito specificati.

2. - Nel decidere l'attuale questione di legittimità costituzionale non si può prescindere dalla premessa che nel codice penale del 1930 - in piena coerenza con i principi propri dello stato fascista e corporativo, quali già risultavano dalla legge 3 aprile 1926 sulla disciplina dei rapporti collettivi di lavoro - il divieto generale e assoluto dello sciopero, con le conseguenti sanzioni penali a carico dei lavoratori, ancorché differenziate secondo la diversità delle finalità di esso, risponde ad un'unica fondamentale ratio di difesa del sistema politico, e segna, come si esprime drasticamente la relazione ministeriale (vol. II, p. 289), "un netto trapasso tra due regimi" e più precisamente "un energico disconoscimento del principio democratico che, all'opposto, ammette la libertà di coalizione e di sciopero". Ne deriva che, se il divieto di sciopero a fine contrattuale può essere correlato al sistema di risoluzione autoritaria dei conflitti di lavoro, ciò avviene non perché il sistema stesso sia a fondamento di quel divieto, ma, più esattamente, perché ne é conseguenza; mentre la punizione dello sciopero, quale che sia la sua finalità, trova la sua più profonda, più vera motivazione, nella logica di un assetto costituzionale repressivo di ogni libertà e in una concezione del rapporto di lavoro non conciliabile con quella che risulta da vari articoli della Costituzione.

Né si può prescindere da una seconda, altrettanto non controvertibile premessa. Infatti la Costituzione repubblicana, rovesciando i principi di fondo di quella logica, ha dato ampio spazio alla libertà dei singoli e dei gruppi, riconoscendola e tutelandola con i soli limiti che risultino strettamente necessari a salvaguardare altri interessi che concorrano a caratterizzare il nuovo assetto democratico della società.

3. - Questa duplice premessa trova ampia e sicura verifica nella constatazione che il codice penale Zanardelli, ispirato ai principi di libertà, non puniva affatto lo sciopero politico. Ed é altamente significativo che in ordinamenti di Stati democratici lo scopo politico dell'astensione collettiva dal lavoro non acquisti, di per sé, rilevanza penale.

L'art. 503 c.p. appare, perciò, un unicum nella storia della nostra legislazione e nella comparazione di ordinamenti democratici: il che conferma la sua matrice storica e politica, connaturata alla struttura totalitaria del passato regime.

Già queste considerazioni inducono ad escludere che la punibilità indiscriminata dello sciopero per il solo fatto che esso abbia fine politico possa sopravvivere alla Costituzione, nella quale lo sciopero - anche a prescindere dalla sua specifica configurazione come "diritto" e dai limiti nei quali questa va contenuta - trova il suo primo titolo di legittimità nei fondamentali principi di libertà che caratterizzano il nuovo ordinamento, così come nella sentenza n. 29 del 1960 la Corte ebbe ad affermare a proposito della serrata, ancorché nessuna norma costituzionale espressamente la consideri come esercizio di un diritto.

Da ciò discende che l'area della illegittimità costituzionale di norme incriminatrici dello sciopero non necessariamente coincide con l'area entro la quale esso é protetto dall'art. 40 Cost. come puntuale, specifico diritto. L'astensione collettiva dal lavoro, se finalizzata a scopi economici, non può neppure essere assunta a legittima causa giustificatrice di licenziamento o di altre misure previste dalla disciplina del rapporto di lavoro (come affermato da ultimo nella sentenza n. 1 del 1974); ma non ne discende che, se volta ad altri scopi, essa astensione, pur conservando ogni rilevanza nell'ambito della disciplina del rapporto di lavoro, debba o quantomeno possa sempre essere qualificata illecito penale. Lo sciopero, invero, acquista rilievo costituzionale in una duplice direzione: come specifico strumento di tutela degli interessi che fanno capo ai lavoratori, ed in tal caso il suo esercizio non può dar luogo ad alcuna conseguenza svantaggiosa per coloro che vi partecipino; e come manifestazione di una libertà che non può essere penalmente compressa se non a tutela di interessi che abbiano rilievo costituzionale.

Quanto fin qui si é detto rivela di per sé l'illegittimità costituzionale dell'art. 503 c.p., almeno nella sua attuale e generica sfera di operatività. Ma ulteriori considerazione valgono a rafforzare la validità di questa conclusione.

Approfondendo il discorso, una prima osservazione si impone. La norma penale, nella sua formulazione omnicomprensiva di ogni sciopero per fini non contrattuali, certamente abbraccia fattispecie nelle quali l'astensione collettiva dal lavoro é esercizio di un vero e proprio diritto ai sensi dell'art. 40 Cost. Con ciò si vuol dire che, secondo la ormai costante e di recente (cfr. sent. n. 1 del 1974) ribadita giurisprudenza di questa Corte, in quel diritto rientrano sicuramente gli scioperi proclamati "in funzione di tutte le rivendicazioni riguardanti il complesso degli interessi dei lavoratori, che trovano disciplina nelle norme poste sotto il titolo terzo della parte prima della Costituzione". Vi rientrano, dunque, anche gli scioperi che, caratterizzati dal fine di tutelare interessi che possono essere soddisfatti solo da atti di governo o da atti legislativi, indubbiamente sarebbero "politici" ai sensi dell'art. 503 c.p. orbene, se per questa parte sicura é l'illegittimità costituzionale della norma, questo primo risultato illumina con chiarezza l'intera questione in esame. Ed infatti, se fosse sostenibile la tesi che nel vigente assetto costituzionale la punibilità dello sciopero in considerazione del suo fine "politico" possa trovare fondamento nella necessità di assicurare il rispetto delle competenze costituzionali (quasi che la non punibilità si risolvesse col' dare ai lavoratori e per essi ai sindacati attribuzioni costituzionali che ad essi non competono), ed ulteriore ragion d'essere nell'esigenza di garantire l'eguaglianza dei cittadini nella determinazione dell'indirizzo politico (i lavoratori oltre agli strumenti istituzionali messi a disposizione di tutti, potrebbero servirsi dello sciopero), la conseguenza dovrebbe esser quella di rendere punibile ogni sciopero diretto a sollecitare i poteri politici: conseguenza questa fin dal 1962 (cfr. sent. n. 123 di quell'anno) respinta dalla Corte in base a considerazioni che, confermate in successive decisioni, vanno qui ribadite. Ed invero ammettere che lo sciopero possa avere il fine di richiedere l'emanazione di atti politici non significa affatto incidere sulle competenze costituzionali rendendone partecipi i sindacati, né significa dare ai lavoratori una posizione privilegiata rispetto agli altri cittadini. Significa soltanto ribadire quanto dalla Costituzione già risulta: esser cioè lo sciopero un mezzo che, necessariamente valutato nel quadro di tutti gli strumenti di pressione usati dai vari gruppi sociali, é idoneo a favorire il perseguimento dei fini di cui al secondo comma dell'art. 3 della Costituzione.

5. - Dato che sono infondate e, ripetesi, già da tempo respinte le ragioni assunte a giustificazione della indiscriminata punibilità dello sciopero, occorre verificare se e in che misura l'art. 503 c.p. possa essere considerato valido presidio di principi fondamentali della nostra Costituzione.

É opportuno chiarire che non vengono qui in considerazione quelle possibili lesioni a beni costituzionalmente protetti che possano derivare dallo sciopero né la corrispondente esigenza di prevenirle e punirle. La necessità di una scrupolosa osservanza della libertà di lavoro di chi non aderisca allo sciopero; di non compromettere servizi pubblici o funzioni essenziali aventi carattere di preminente interesse generale costituzionalmente protetto; della rigorosa astensione da ogni violenza e così via, pone problemi che attengono non già allo scopo dello sciopero, contrattuale o politico che sia, ma allo sciopero come tale: problemi che o sono già adeguatamente risolti dalle norme vigenti ovvero vanno affrontati dal legislatore nell'esercizio del potere che lo stesso art. 40 Cost. gli conferisce.

Ciò che, in base a quanto già si é detto, qui rileva é la conclusione che dell'art. 503 c.p. - dettato a tutela del regime dell'epoca - non può sopravvivere se non quella parte che possa essere volta a difesa dell'assetto previsto dalla vigente Costituzione. In questo quadro deve essere considerata legittima la punizione dello sciopero ove questo sia diretto a sovvertire l'ordinamento costituzionale, e proprio perché si deve riconoscere che in questo caso il fine politico si scontra con la stessa Costituzione, la quale non solo consente, ma impone quelle misure che siano indispensabili a preservare, contro ogni sovvertimento, i principi fondamentali che la caratterizzano. Ed altrettanto legittima é la punizione dello sciopero che, per il suo modo di essere, oltrepassando i limiti di una legittima forma di pressione, si converta in uno strumento diretto ad impedire od ostacolare il libero esercizio di quei diritti e poteri nei quali si esprime direttamente o indirettamente la sovranità popolare: non si può infatti dubitare che uno sciopero siffatto sarebbe in contrasto col fondamento stesso dell'attuale assetto costituzionale, che si basa, appunto, su un funzionamento di tutte le libere istituzioni che, aperto alla valutazione delle istanze che in varia guisa sono espresse dai gruppi sociali, non trovi nel suo esercizio impedimenti od ostacoli che compromettano la sovranità di cui quelle istituzioni sono, ad un tempo, espressione e garanzia.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 503 del codice penale nella parte in cui punisce anche lo sciopero politico che non sia diretto a sovvertire l'ordinamento costituzionale ovvero ad impedire o ostacolare il libero esercizio dei poteri legittimi nei quali si esprime la sovranità popolare.

 

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 dicembre 1 974.

 

Francesco Paolo BONIFACIO - Giovanni Battista BENEDETTI - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI - Leonetto AMADEI - Giulio GIONFRIDA - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO.

Arduino SALUSTRI - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 27 dicembre 1974.