Sentenza n. 155 del 1972

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 SENTENZA N. 155

ANNO 1972

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 composta dai signori:

Prof. Michele FRAGALI, Presidente

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI, Giudici,

ha pronunciato la seguente

        Avv. Leonetto AMADEI, Giudici,

        ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 1, 3 e 4, primo comma, della legge 11 febbraio 1971, n. 11 (nuova disciplina dell'affitto di fondi rustici), promossi con ordinanze emesse il 17 dicembre 1971 dal tribunale di Sassari - sezione specializzata agraria - nei procedimenti civili vertenti, rispettivamente, tra Sechi Antonio e Fancellu Pietro, e tra Gandolfo Carla e Mura Sebastiana ed altro, iscritte ai nn. 46 e 47 del registro ordinanze 1972 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 78 del 22 marzo 1972 e n. 90 del 25 aprile 1972.

Visti gli atti di costituzione di Sechi Antonio, Fancellu Pietro e Gandolfo Carla e d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 4 luglio 1972 il Giudice relatore Ercole Rocchetti;

uditi gli avvocati Aldo Sandulli e Gavino Pinna, per il Sechi e la Gandolfo, gli avvocati Emilio Romagnoli e Giuseppe Di Stefano, per il Fancellu, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Michele Savarese, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

Nel corso del procedimento civile tra Sechi Antonio e Fancellu Pietro, avente per oggetto il pagamento di canoni d’affitto di fondi rustici, il tribunale di Sassari, con ordinanza 17 dicembre 1971, riteneva, oltre che rilevante, non manifestamente infondata, con riferimento agli artt. 42, terzo comma, e 3, primo comma, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, 3 e 4, primo comma, della legge 11 febbraio 1971, n. 11, avente per oggetto la nuova disciplina dell'affitto dei fondi rustici.

Secondo l'ordinanza di rimessione, la nuova normativa (artt. 3 e 4), che impone di determinare il canone moltiplicando il reddito dominicale risultante dal catasto terreni, per il coefficiente che la Commissione tecnica provinciale (di cui all'art 2 della legge 18 agosto 1948, n. 1140) stabilisce ogni quadriennio, per zone agrarie omogenee e per ciascuna qualità di cultura e classe, ma entro i coefficienti che la legge impugnata fissa nel minimo di 12 e nel massimo di 45, viola l'art. 42, terzo comma, della Costituzione, perché riduce il canone ad una misura irrisoria e quindi produce, in sostanza, gli effetti di un’espropriazione della proprietà del concedente senza la corresponsione del dovuto indennizzo.

Inoltre, il detto sistema automatico di determinazione del canone in base ai redditi dominicali, la cui ultima revisione generale rimonta all'anno 1939, viola l'art. 3, comma primo, della Costituzione, perché applica un trattamento uguale a situazioni che sono andate fortemente differenziandosi tra loro, con evoluzione variata da regione a regione, negli oltre trenta anni da allora decorsi, a causa del mutamento dei tipi di cultura, dei modi di lavorazione, delle trasformazioni delle strutture aziendali e del prezzo dei prodotti, e su cui ha inciso anche la svalutazione monetaria.

Infine, l'obbligo, sancito contro l'antica tradizione e l'anteriore normativa, di determinare il canone soltanto in danaro (art. 1) viola parimenti, secondo l'ordinanza di rimessione, l'art. 42, terzo comma, della Costituzione, perché nullifica nel tempo il valore del canone già irrisorio, ove si consideri la lunga durata stabilita per il contratto e il fenomeno, connaturale all’economia moderna, della svalutazione monetaria.

Nel giudizio dinanzi alla Corte si sono costituiti sia il Sechi che il Fancellu ed é anche intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri a mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato.

Nelle deduzioni e nelle memorie presentate, il Sechi ha sostenuto che le disposizioni denunziate, determinando il canone con un procedimento arbitrario, in misura irrisoria e in valori non stabili, come quelli monetari, violano le norme della Costituzione cui l'ordinanza fa riferimento; invece, secondo il Fancellu, le censure prospettate dal giudice a quo, con riferimento all'art. 42, terzo comma, Cost., non sono pertinenti, in quanto le norme denunciate non incidono sul diritto di proprietà, ma sull'autonomia contrattuale che non riceve una tutela diretta dalla Costituzione. Aggiunge il Fancellu che, comunque, il canone, dato l'arco dei coefficienti entro i quali esso viene determinato, non é affatto irrisorio né é avulso dalla concreta situazione cui deve aderire.

La difesa dello Stato, nel chiedere che la Corte dichiari infondata la questione proposta, sostiene che il sistema di determinazione del canone con riferimento ai valori catastali ha il pregio dell’obiettività e della certezza, mentre i coefficienti minimi e massimi, proprio perché consentono di tenere conto delle situazioni modificantisi nel tempo, conferiscono al canone un valore che risolve nell'equità i contrapposti interessi delle parti contraenti, nel quadro di un più razionale sfruttamento del suolo e dell’instaurazione di più giusti rapporti sociali.

Con altra ordinanza, emessa in pari data, nel corso del procedimento civile promosso da Gandolfo Carla contro i coniugi Onida Raffaele e Mura Sebastiana, lo stesso tribunale di Sassari ha denunciato soltanto gli artt. 1 e 3, secondo comma, della legge n. 11 del 1971, con riferimento non solo agli artt. 42, terzo comma, e 3, primo comma, della Costituzione, ma anche alle disposizioni di cui agli artt. 42, secondo comma, e 44 della Costituzione.

Il tribunale ribadisce in questa ordinanza gli argomenti esposti nella precedente, ampliandone il discorso per quanto attiene alla tutela del diritto di proprietà che, pur nei limiti previsti, é riconosciuta e garantita dalla legge, e che, se piccola e media, é da essa "aiutata".

Nel giudizio dinanzi alla Corte si é costituita, per le parti private, soltanto la Gandolfo che, nelle sue deduzioni, aderisce alle censure prospettate nella ordinanza di rinvio; é altresì intervenuta, per il Presidente del Consiglio, l'Avvocatura generale dello Stato che, con argomentazioni analoghe a quelle esposte nel precedente giudizio, ha chiesto che la Corte dichiari infondate le dedotte questioni di legittimità costituzionale.

Nella discussione orale le parti costituite hanno ulteriormente illustrato le proprie tesi ed hanno insistito nelle rispettive conclusioni.

 

Considerato in diritto

 

1. - I giudizi proposti dal tribunale di Sassari con le due ordinanze di pari data, poiché hanno per oggetto le medesime questioni, vanno riuniti e decisi con unica sentenza.

2. - Nelle dette ordinanze vengono denunciati gli artt. 1, 3 e 4, comma primo, della legge 11 febbraio 1971, n. 11, avente per oggetto "nuova disciplina dell'affitto dei fondi rustici", perché ritenuti in contrasto con gli artt. 3, comma primo, 42, commi secondo e terzo, e 44 della Costituzione.

Secondo il giudice a quo, la legge impugnata, per aver stabilito che il canone debba essere determinato con riferimento al reddito imponibile del fondo, espresso in catasto con la tariffa formata in base ai prezzi del 1939 (1. 29 giugno 1939, n. 976) e aggiornata con coefficienti di moltiplicazione fissati nel minimo di 12 e nel massimo di 45, violerebbe, tra le altre norme costituzionali richiamate, l'art. 3, comma primo, della Costituzione perché "mentre si preoccupa di assicurare l'equa remunerazione del fattore della produzione agricola, che é costituito dal lavoro (garantito fin dai principi fondamentali della Costituzione e massimamente degno di tutela), sembra però ignorare le esigenze della proprietà della terra, frutto anch'essa di lavoro e di risparmio, protetta da una norma costituzionale specifica nelle forme piccole e media e fonte, non di rado, di un sostentamento essenziale a favore della persona".

Secondo questa prima censura, sarebbe dunque illegittimo comprimere, peraltro in modo massiccio, il reddito del proprietario concedente per ampliare corrispondentemente l'utile dell'affittuario.

Accantonando per il momento il problema se la riduzione così operata sul reddito rispetti o no, per la sua entità, il diritto del proprietario a conseguire dalla cosa, anche se utilizzata direttamente da altri, un beneficio, e restringendo l'esame al rilievo concernente lo squilibrio apportato dalla legge nella ripartizione del rendimento della terra, occorre dire che la questione, così proposta, é solo parzialmente fondata.

Essa non é fondata se ad aver vantaggio della compressione che la legge esercita sul beneficio fondiario sia un affittuario che coltivi direttamente la terra con le forze di lavoro proprie e dei suoi familiari, mentre é invece fondata se di quella compressione dei diritti dominicali debba lucrare gli utili conseguenti un affittuario imprenditore che la terra presa in fitto faccia lavorare da altri.

Ciò perché, mentre l'affittuario coltivatore gode della situazione privilegiata che gli artt. 35 e segg. Cost. assicurano alla posizione del lavoratore, garantendo, tra l'altro, che la sua retribuzione sia in ogni caso sufficiente ad assicurare a lui e alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa, l'affittuario imprenditore ha a sua tutela solo il principio sancito dall'art. 41 Cost. e relativo alla libertà della iniziativa economica privata.

La legge quindi, nel dettare, negli artt. 3 e 4, primo comma, le nuove norme sulla formazione del canone con riferimento a tutti gli affittuari, siano essi coltivatori diretti, come imprenditori non coltivatori, viola l'art. 3, comma primo, della Costituzione che, nel sancire, tra i principi fondamentali, l'eguaglianza fra i cittadini, postula, come é stato sempre ritenuto da questa Corte, che a situazioni differenziate tra loro non possa praticarsi identico trattamento.

Con ciò, ed in riferimento al caso specifico, non vuol dirsi che la determinazione del canone tra il proprietario concedente e l'affittuario imprenditore debba lasciarsi affidata alle sole regole dell'economia di mercato. Ma vuol dirsi soltanto che tra due forme d’attività economiche, più o meno equivalenti sul piano della tutela costituzionale (perché entrambe fruenti di garanzie generiche), quali appunto l'esercizio dei diritti dominicali sulla terra e la gestione dell'impresa che provvede, con lavoro altrui, alla cultura di essa, il pubblico interesse volto ad assicurare risultati vantaggiosi alla comunità, quali il razionale sfruttamento del suolo, l'abbondanza della produzione, il contenimento del prezzo dei prodotti, ecc., deve utilizzare, perché il canone d’affitto sia equo, altre forme d’intervento, che trovino la loro estrinsecazione in un'analisi più approfondita dei dati economici del fenomeno produttivo e non possano limitarsi alla semplice massiccia compressione del beneficio fondiario come mezzo per devolvere l'ampio margine di differenza all'impresa, a copertura delle spese di produzione e alla formazione del profitto.

3. - Le ordinanze deducono poi che il sistema introdotto dalla legge, di determinare il canone assumendo a parametro il reddito imponibile risultante dal catasto, la cui ultima revisione rimonta al 1939, "si presenta ictu oculi, ove appena si consideri i rivolgimenti politici, sociali ed economici degli ultimi trent'anni, e la svalutazione monetaria in questo tempo intervenuta, tanto falso e anacronistico che vorrebbe dirsi arbitrario". Il che, sempre secondo le ordinanze, produrrebbe anche gravi squilibri tra le varie zone agricole del Paese, perché "l'ancoraggio al reddito dominicale del 1939, nelle regioni che fin da allora avevano conseguito un alto grado di sviluppo e di produzione agricola, non produce effetti così iniqui, e così stridenti con la realtà, come in queste altre regioni" (Italia meridionale e insulare) "in cui il progresso é cominciato da poco".

La censura investe gli artt. 3 e 4, primo comma, della legge e il riferimento é all'art. 3, primo comma, della Costituzione.

La questione non sembra fondata.

Per quanto, in linea di massima, gli anzidetti argomenti non possano dirsi privi di consistenza, tuttavia essi appaiono di scarso rilievo se si considera che il legislatore, nella sua discrezionalità, intendeva non instaurare, con quegli accorgimenti che si esamineranno tra poco, un metodo di determinazione del canone che abbia il carattere preminente della precisione (impossibile, per altro, a conseguirsi con qualsiasi procedimento di valutazione), ma adoperare un mezzo che serva solo a fissarne i valori in maniera più o meno prossima alla realtà, mediante un sistema semplice e ispirato a un automatismo volto a contenere le contestazioni cui aveva dato luogo la normativa precedente.

Ma tale scopo che il legislatore si é proposto non varrebbe a salvare il sistema dalla censura di irrazionalità se nel contempo non si fosse dato cura, con quegli accorgimenti di cui é fatto cenno, di rendere meno distanti dalla realtà attuale i dati catastali che si riferiscono al lontano anno dell'ultima revisione.

Per conseguire tale accostamento dei vecchi dati alla odierna realtà economica, la legge dispone (art. 4) che, qualora la qualità e classe dei terreni componenti il fondo risultassero mutati, si possa chiedere la revisione e il nuovo classamento; e dispone altresì che, nei casi di migliorie introdotte (si intende fra il 1939 e l'entrata in vigore della legge) dal proprietario del fondo, e che non giustifichino una modifica della qualità e classe (costruzione di edifici ed altri manufatti, ecc. non tassati in catasto), le Commissioni tecniche provinciali possono stabilire criteri e misure di aumento del canone.

Ottenuto così un certo aggiornamento della consistenza dei dati catastali, il legislatore, tenuto conto che le relative valutazioni, anche in caso di revisione di qualità e classe, sono espresse in moneta del 1939, ha cercato di effettuare una rivalutazione di quei dati sul piano dei valori monetari, mediante coefficienti di moltiplicazione fissati entro il minimo di 12 e il massimo di 45 e stabiliti in 36 nel caso di cui al sesto comma dell'art. 3. Tuttavia tali coefficienti, per quanto si dirà in seguito, risultano inadeguati.

Ma, a questo punto, il discorso sulla utilizzabilità in astratto dei dati catastali, ai fini della determinazione del canone può concludersi in senso positivo, stante che non mancano, come si é visto, nella legge, procedimenti che tendano ad aggiornare dati e valori e, se non pervengono a risultati accettabili, non é detto che, con opportune modifiche, non possano conseguire l'effetto.

Per gli stessi motivi non é fondato il rilievo che eccepisce la violazione dell'art. 3, primo comma, della Costituzione per l'applicazione delle stesse norme denunciate alle zone agrarie del territorio nazionale, senza tener conto del loro vario grado di sviluppo.

4. - Si lamenta poi nelle ordinanze di rimessione che il "pretendere di accertare il reddito dominicale secondo la stima di prima della guerra, significa creare una finzione che può solo condurre, qualunque coefficiente moltiplicatorio voglia congetturarsi, a un canone legale incongruo, elusivo nella sostanza della garanzia costituzionale, che esige un indennizzo serio, anche se non completo, del diritto colpito, e che ha da essere lealmente rispettato". Dal che deriverebbe la violazione dell'art. 42, secondo e terzo comma, della Costituzione.

L'assunto dell'ordinanza, secondo il quale, qualsiasi coefficiente si adottasse, si giungerebbe sempre a un canone incongruo, va precisato nel senso che quelli stabiliti dalla legge sono insufficienti e conducono alla formazione di un canone inaccettabile per la sua distanza dai valori reali.

Quei coefficienti hanno infatti lo scopo di aggiornare i valori monetari per eliminare o ridurre gli effetti della svalutazione, e ragione della loro determinazione fra un minimo ed un massimo é quella di fornire un dato variabile che meglio si adatti alla molteplicità dei casi cui deve aderire, e che é differenziata in rapporto alle modificazioni intervenute nel tempo nella formazione dei prezzi dei prodotti, soprattutto a seguito dei mutamenti tecnologici nella cultura della terra.

Ora, la assoluta inadeguatezza dei coefficienti stabiliti dalla legge risulta innanzi tutto dal loro confronto con l'entità della svalutazione monetaria che, rispetto al 1939, ha, secondo i dati Istat, superato la quota 100. Ma, in modo che appare anche più evidente, risulta dall'ammontare del carico fiscale che, per il solo complesso dei tributi strettamente gravanti sul reddito dominicale dei terreni, ha superato la cifra di lire 1.400 per ogni 100 lire accertate in catasto a seguito della revisione del 1939. Ove si aggiungano a quei tributi gli altri connessi, come l'imposta complementare e quella di famiglia, si vedrà che una larga fascia di canoni, ottenuta con coefficienti di rivalutazione anche superiori al minimo di 12, resta assorbita dalle imposte e che il beneficio fondiario ne risulta annullato. La constatazione resta confermata e non eliminata dal successivo intervento legislativo (l. 4 agosto 1971, n. 592) che ha esentato dal pagamento delle imposte e sovrimposte sui terreni quei proprietari di fondi concessi in affitto il cui reddito dominicale complessivo non superi le lire 8.000 e l'imponibile in complementare non superi lire 1.800.000. Ciò perché tale intervento, se ha sollevato i minori e i minimi proprietari, non ha modificato la situazione rispetto a tutti gli altri, le cui condizioni economiche meno disagiate, o anche addirittura floride, non autorizzano a privarli di quanto é loro dovuto entro i limiti segnati dalla tutela costituzionale loro spettante.

A conferma della assoluta inadeguatezza dei coefficienti fissati tra 12 e 45 stanno, inoltre, altri elementi deducibili da uno studio proveniente dall'Amministrazione del Catasto e pubblicato in calce alle relazioni parlamentari sulla legge in esame. Trattasi del "promemoria dell'Amministrazione del Catasto in data 18 giugno 1969", in cui si rende noto che, nel primo scorcio degli anni sessanta, in vista di una allora progettata e poi non attuata revisione generale degli estimi catastali, si effettuò, operando, col metodo del campione, su 300 Comuni sparsi in quasi tutte le provincie del territorio nazionale e su oltre ventimila aziende, la determinazione dei redditi catastali con riferimento alla consistenza e ai valori monetari del triennio 1958-1960. I risultati ottenuti portarono alla conclusione che, rispetto ai dati catastali del 1939, i nuovi si attestavano fra le 25 e le 75 volte quelli anteriori. Partendo da questi dati, e, con un calcolo assai semplice ma indicativo, applicando ad essi i coefficienti di ulteriore svalutazione della lira 1971 rispetto a quella del 1960, che é di 1,5365 (Istat, costo vita) si ha che ora essi dovrebbero raggiungere i valori di 38 nel minimo e di 105 nel massimo.

La minore misura dei coefficienti, che la legge fissa in cifre tanto lontane da queste, non é giustificata sul piano economico e quindi neppure su quello giuridico-costituzionale.

Dalla assoluta inadeguatezza dei coefficienti consegue infatti una misura del canone tanto esigua da rendere lo stesso privo di ogni valore rappresentativo del reddito che la terra deve pur fornire al proprietario ai sensi delle norme della Costituzione.

Al riguardo, le ordinanze richiamano l'art. 42 nei suoi commi secondo e terzo e l'art. 44. Ora, ai sensi del secondo comma dell'art. 42, la proprietà é riconosciuta e garantita dalla legge la quale, per l'art. 44, primo comma, aiuta la piccola e media proprietà. Entrambi gli articoli indicano poi numerosi limiti che la legge può imporre alla proprietà allo scopo di assicurarne la funzione sociale, conseguire il razionale sfruttamento del suolo e stabilire equi rapporti sociali. Ma é ovvio che tali limiti, se possono comprimere le facoltà che formano la sostanza del diritto di proprietà, non possono mai pervenire ad annullarle. Del che fornisce riprova il disposto del terzo comma dello stesso art. 42 il quale, nel sancire che la proprietà privata può essere espropriata per motivi di interesse generale, fa salvo in tal caso per il proprietario il diritto alla corresponsione di un indennizzo. La proprietà non può quindi cedere del tutto, e cioé scomparire, senza che il proprietario ne riceva un corrispettivo, e quindi un utile, persino quando il pubblico interesse ne richieda il sacrificio, perché anche in tal caso é dovuta la corresponsione di un indennizzo (nei limiti che la pubblica amministrazione é in grado di corrispondere in rapporto all'interesse che persegue), ma che, come questa Corte ha più volte affermato, non sia né simbolico né irrisorio.

Ora, la legge impugnata, rendendo, specie a ragione della insufficienza dei suoi coefficienti di rivalutazione, a volte addirittura onerosa la proprietà della terra, ed a volte determinandone il reddito in misura irrisoria, viola gli artt. 42, secondo comma, e 44, primo comma, della Costituzione perché incide fortemente, fino ad annullarlo, su di un diritto riconosciuto e garantito, e talvolta addirittura oggetto di una specifica tutela.

Le ordinanze denunciano poi, in rapporto alla stessa fattispecie, anche la violazione del comma terzo dell'art. 42 circa la mancanza di un indennizzo in quella che viene prospettata come una sostanziale espropriazione, attuata mediante la compressione dei diritti dominicali.

Poiché, però, alla dichiarazione di illegittimità delle norme della legge impugnata si perviene di già con riferimento al secondo comma dello stesso articolo, questa ulteriore questione va dichiarata assorbita.

5. - Le ordinanze denunciano infine "l'art. 1 della legge, in rapporto anche all'art. 3, secondo comma, in cui il canone é determinato in danaro, e per un tempo lungo" perché "allarga ancora la divergenza tra diritto e indennità, a causa della continua svalutazione monetaria e dell'inverso movimento di ascesa dei prodotti agricoli".

Anche qui il riferimento é all'art. 42, secondo comma, della Costituzione.

La questione é fondata.

É innanzi tutto da premettere che, per l'art. 17 della legge, la durata del contratto di affitto per l'affittuario imprenditore é di anni 15, mia quella durata può essere, a richiesta dell'affittuario, e per effetto dell'art. 1, terzo comma, della richiamata legge 22 luglio 1966, n. 607, aumentata di altri 3 anni e, inoltre, può ancora essere, a mezzo di sua iniziativa concretantesi nella esecuzione a sue spese di miglioramenti, accresciuta di almeno altri 12 anni; laddove l'affitto a coltivatore diretto non ha alcuna scadenza (art. 14 l. 15 settembre 1964, n. 756). In sostanza, il contratto, sol che l'affittuario lo voglia, ha una durata superiore in complesso ai trenta anni, quando non ne ha una illimitata, come per l'affittuario coltivatore. Di fronte a una simile lunga o indefinita durata del rapporto, il disposto dell'art. 1 della legge impugnata, stabilendo che "nell'affitto di fondo rustico il canone é determinato e corrisposto in danaro" introduce un nuovo strumento di riduzione del canone, la cui azione é prevedibile come certa se si pensa che la svalutazione monetaria, almeno nei limiti di quella così detta strisciante, é considerata fenomeno naturale e, in certo senso, necessario, dell'economia dei paesi moderni.

Ora, se la corresponsione del canone in danaro costituisce una innovazione che trova ragione nel nuovo sistema di sua formazione ottenuta con riferimento al reddito catastale, che é appunto espresso in danaro, nessuna ragione può trovare la soppressione di ogni forma di ragguaglio al prezzo di determinati prodotti che era antica regola sancita anche, da ultimo, nell'art. 1 della legge 12 giugno 1962, n. 567; come nulla può giustificare la mancata introduzione di qualsiasi altra forma di aggiornamento monetario.

Né alcun ausilio può fornire a tal fine la periodicità della determinazione della tabella dei canoni di equo fitto che, per l'art. 3 della legge, la Commissione tecnica provinciale é tenuta ad elaborare ogni quattro anni, perché, nel compimento di tale operazione, essa é tenuta a restare entro i limiti dei coefficienti minimi e massimi stabiliti dalla legge. Mentre é ovvio che, determinata che sia la tabella e stabilito poi (art. 4) il canone entro quei limiti, il suo ammontare, se si ammette che un aggiornamento monetario sia necessario, deve essere indipendente dai limiti stessi, potendo anche, ove il calcolo lo comporti, superarli.

Pertanto, la mancata previsione di un qualche strumento di rivalutazione del canone, in ordine alla svalutazione, rappresenta una grave carenza della legge, che appare ancor più evidente ove si tenga presente che, nella disciplina generale della formazione dei prezzi imposti, introdotta dal d.l.lgt. 19 ottobre 1944, n. 347, istitutivo del Comitato interministeriale prezzi e norme successive, la revisione di essi al variare dei presupposti é ritenuta connaturale al sistema, mentre la legge 18 dicembre 1970, n. 1138, contenente nuove norme in materia di enfitensi, ha stabilito all'art. 6, per quanto concerne le enfiteusi urbane, che "il canone... può essere in ogni caso rivalutato a richiesta della parte interessata, in misura proporzionale al mutato potere di acquisto della lira quale risulta dalle statistiche dell'Istituto Centrale di Statistica".

In un caso del genere, in cui, in tema di espropriazione per pubblica utilità, la legge 167 del 1962 stabiliva che i prezzi dei beni espropriandi nel previsto corso di 10 anni dovevano essere determinati con riferimento a quelli vigenti nei due anni anteriori alla entrata in vigore della legge stessa, la Corte, nella sentenza n. 22 del 1965, riteneva la illegittimità della disposizione, in quanto essa poneva in essere, nei confronti dei proprietari compresi nei piani, una situazione di incertezza o di alea, stante la "possibilità che, nell'intervallo fra l'adozione dei piani e la loro attuazione, si verifichino eventi perturbatori tali da condurre a una liquidazione dell'indennità in misura irrisoria o addirittura simbolica".

Onde la Corte concludeva che, con la dichiarazione di illegittimità, non si intendeva "disconoscere la discrezionalità del legislatore di riportare la liquidazione dell'indennità ad una data anteriore a quella dell'espropriazione", la qual cosa non avrebbe dato luogo a rilievi purché fossero stati nel contempo dalla legge predisposti "anche i necessari temperamenti, così da eliminare la possibilità che l'indennizzo, con il concorso degli elementi di cui si é fatta menzione, possa perdere consistenza, in modo tale da non assolvere più la funzione di garanzia cui si é accennato".

L'analogia del caso é evidente: esproprio con indennizzo retrodatato, canone da pagarsi in futuro a valori nominali costanti, offrono le stesse alee e determinano gli stessi risultati erosivi della consistenza reale di un valore che la svalutazione, prevedibile come certa, produce nel tempo.

Si deve, in conclusione, riconoscere che la mancata previsione di una rivalutazione dei canoni in una misura corrispondente alle eventuali mutazioni del potere di acquisto della lira appare lesiva del diritto del proprietario concedente a conservare invariato nel valore di acquisto il canone autoritativamente determinato. Ed é ovvio che ciò é vero sia che si tratti di canone già anteriormente determinato in danaro, sia che si tratti di canone determinato in natura e convertito in danaro per effetto dell'art. 1 della legge.

Dal che la parziale illegittimità dell'art. 1 della legge impugnata per violazione dell'art. 42, secondo comma, Cost., per le stesse ragioni esposte nei numeri precedenti.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

1) dichiara l'illegittimità costituzionale degli artt. 3 e 4, primo comma, della legge 11 febbraio 1971, n. 11, avente per oggetto "nuova disciplina dell'affitto dei fondi rustici", nella parte in cui non limitano l'applicazione delle norme in essi contenute ai soli affittuari che coltivano il fondo col lavoro proprio e dei propri familiari, e non escludono gli affittuari imprenditori;

2) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 3, secondo e sesto comma, della stessa legge, nella parte in cui fissa fra 12 e 45 e, con riferimento a un caso particolare, in 36, i coefficienti di moltiplicazione del reddito dominicale ai fini della determinazione del canone;

3) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della stessa legge, nella parte in cui non prevede alcuna forma di periodica rivalutazione del canone in danaro;

4) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, secondo comma, della stessa legge, nella parte in cui dispone che, nella determinazione della tabella per i canoni di equo affitto, sono presi a base i redditi dominicali; questione proposta dalle ordinanze in epigrafe con riferimento agli artt. 3, 42, secondo e terzo comma, e 44 della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 luglio 1972.

Giuseppe CHIARELLI - Ercole ROCCHETTI

Depositata in cancelleria il 27 luglio 1972.