Sentenza n. 152 del 1971
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SENTENZA N. 152

ANNO 1971

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE 

composta dai signori giudici:

Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI,

ha pronunciato la seguente  

SENTENZA 

nel giudizio promosso con ricorso del Presidente della Regione del Friuli - Venezia Giulia, notificato il 28 ottobre 1970, depositato in cancelleria il 31 successivo ed iscritto al n. 23 del registro ricorsi 1970, per conflitto di attribuzione sorto a seguito della nota 31 agosto 1970, n. 24296, dell'Intendenza di finanza di Udine in materia di competenza a riscuotere i canoni per le piccole derivazioni d'acqua.

Visto l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 3 giugno 1971 il Giudice relatore Luigi Oggioni;

uditi l'avv. Gaspare Pacia, per la Regione, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Michele Savarese, per il Presidente del Consiglio dei ministri.  

Ritenuto in fatto 

Con nota del 31 agosto 1970, n. 24296, diretta al Presidente della Giunta della Regione Friuli - Venezia Giulia, l'Intendenza di finanza di Udine nell'informare che la Direzione generale del demanio, su conforme parere dell'Avvocatura generale dello Stato, aveva confermato le direttive a suo tempo impartite circa la spettanza allo Stato dei canoni afferenti alle concessioni di piccole derivazioni d'acqua effettuate nella Regione, faceva rilevare che la Regione stessa continuava ed aveva continuato nelle more del carteggio precedentemente svoltosi al riguardo, a disporre nei propri decreti di concessione che il versamento dei canoni relativi al periodo successivo al 1 novembre 1965 venisse effettuato presso le casse regionali. Ciò premesso, con la nota citata l'Intendenza prospettava l'opportunità di non disporre più oltre l'incameramento alla Regione dei predetti canoni demaniali, non potendosi più giustificare ormai l'atteggiamento di tolleranza osservato fino ad allora dall'Intendenza stessa "per evitare di rendere pubblico un conflitto di attribuzioni fra organi statali e regionali", e informava che, in caso diverso, si sarebbe vista costretta a "rivolgersi direttamente ai concessionari per richiedere il versamento dei canoni all'erario dello Stato".

Il Presidente della Giunta regionale pro tempore, con ricorso notificato il 28 ottobre 1970, ha sollevato conflitto di attribuzione con lo Stato in relazione alla citata nota dell'Intendenza di finanza di Udine.

Si afferma nel ricorso che la Regione, ai sensi degli artt. 5, n. 14, e 8 dello Statuto regionale, ha competenza legislativa secondaria e correlativa potestà amministrativa in materia di "utilizzazione delle acque pubbliche, escluse le grandi derivazioni". In applicazione di tali precetti e dell'art. 22 delle norme di attuazione dello Statuto, approvate con d.P.R. 26 agosto 1965, n. 1116, la Regione aveva effettivamente fin dall'entrata in vigore di tali ultime norme, cioè dal novembre 1965, sempre esercitato la propria potestà amministrativa per quanto concerne l'utilizzazione delle acque predette, per tutta l'estesa gamma dei relativi usi, ivi comprese le attribuzioni relative alla emanazione dei decreti di concessione di piccole derivazioni, e la determinazione e la riscossione dei relativi canoni, che ne costituirebbero elemento essenziale.

La nota dell'Intendenza, pertanto, nella parte in cui si invita a non riscuotere i canoni di utenza, e nella parte in cui si prospetta l'intervento diretto dell'Intendenza presso i concessionari, in contrasto con le statuizioni contenute nei relativi decreti di concessione, invaderebbe la sfera di competenza della Regione, in violazione delle già citate norme statutarie e di attuazione.

A sostegno di tale assunto si osserva nel ricorso che la pretesa dello Stato si fonderebbe su un non accettabile concetto della demanialità delle acque, poiché mal si adatterebbe alla natura delle medesime quel "diritto eminente e reale" cui fanno riferimento le argomentazioni svolte dall'Avvocatura nel suo parere, diritto di cui, sempre secondo il citato parere rimarrebbe titolare lo Stato, non risultando dallo Statuto l'attribuzione di un demanio idrico alla Regione, salvo che per le acque minerali e termali (Statuto art. 55, n. 2). L'acqua, invero, quale elemento primario e vivo non sarebbe suscettibile di proprietà esclusiva, ma piuttosto di diritto di utilizzazione, e potrebbero ritenersi riservati allo Stato solo il potere di polizia e quello di utilizzazione delle grandi derivazioni (art. 5, n. 14, Statuto regionale), mentre tutti gli altri poteri di utilizzazione sarebbero di spettanza della Regione. Alla quale, secondo il ricorso, dovrebbe così riconoscersi una sorta di contitolarità del demanio idrico, in dipendenza appunto dell'attribuzione statutaria della quasi totalità dei poteri di utilizzazione del medesimo. Quanto meno, "anche a volere inquadrare tali poteri nell'ambito dell'art. 825 c.c.", la Regione sarebbe titolare di un complesso di diritti demaniali sulle acque fluenti nel suo territorio, e pertanto non si comprenderebbe perché i canoni di utenza dovrebbero essere collegati al supposto diritto eminente dello Stato e non piuttosto ai diritti di utilizzazione spettanti alla Regione.

D'altra parte, poiché non é contestato che alla Regione spetti il potere di concessione relativamente alle piccole derivazioni, ed é pacifico il legame esistente fra la concessione e il canone, che costituiscono le necessarie componenti del rapporto di concessione, indispensabili per il conseguimento del risultato finale, sarebbe strano che il diritto al canone di utenza sorgesse a favore dello Stato, estraneo a tale rapporto, quasi si trattasse di una stipulazione a favore di terzi.

Nessuna argomentazione poi potrebbe trarsi a favore dello Stato dall'art. 49, n. 3, dello Statuto, secondo cui "nove decimi dei canoni per le concessioni idroelettriche" spettanti allo Stato sono devolute alla Regione, senza distinguere fra grandi o piccole derivazioni.

La norma invero avrebbe esclusivamente riguardo alle grandi derivazioni idroelettriche, poiché solo i canoni relativi costituirebbero "proventi dello Stato" ai quali appunto la citata norma si riferisce.

La Regione conclude pertanto chiedendo che la Corte annulli l'atto impugnato e dichiari che il potere di riscuotere i canoni di utenza per le piccole derivazioni d'acqua pubblica, nell'ambito del territorio regionale, spetta alla Regione medesima.

Avanti alla Corte costituzionale si é costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, depositando deduzioni difensive il 16 novembre 1970.

L'Avvocatura pone in evidenza che la Regione Friuli - Venezia Giulia, a differenza di altre regioni a statuto speciale, non ha un demanio idrico, fatta eccezione per le acque minerali e termali. La pretesa contitolarità sul demanio idrico sarebbe pertanto una mera asserzione, oltre tutto in contrasto con i principi generali sulla demanialità dei beni, per cui la titolarità del demanio non può essere che unica ed appartiene all'ente al quale é tassativamente riconosciuta dalla legge.

La titolarità sul corso d'acqua comporta la piena disponibilità delle acque, ivi compreso lo sfruttamento relativo, che si realizzerebbe con l'incameramento dei canoni di utenza. I poteri attribuiti statutariamente alla Regione in materia di piccole derivazioni mirerebbero pertanto esclusivamente a garantire l'adattamento alle esigenze locali del sistema statale di utilizzazione delle acque, con esclusione quindi dell'acquisto dei relativi proventi.

Il canone di utenza, d'altra parte, sarebbe stabilito dalla legge in funzione non solo e non tanto del riconoscimento dei poteri pubblicistici dell'Amministrazione sulle acque, ma della quantità di acqua utilizzata, cioè in funzione della produttività del bene acqua, la quale sarebbe inscindibilmente connessa con il relativo ius proprietatis. Il collegamento fra titolarità del diritto dominicale sulle acque e devoluzione del canone troverebbe, secondo l'Avvocatura, implicita conferma nella sentenza n. 46 del 1962 della Corte, ove si sarebbe affermato che la potestà legislativa regionale del Trentino - Alto Adige in materia di utilizzazione delle acque comprende sia la determinazione dei vari modi di sfruttamento sia la determinazione del canone a carico dei concessionari, senza negare che la titolarità dei canoni resta pur sempre connessa alla titolarità del demanio idrico cui essi si riferiscono. La determinazione dei canoni non potrebbe infatti essere rimessa alla Regione, appunto in funzione dell'adattamento alle esigenze locali, senza che ciò comporti necessariamente il riferimento del canone dallo Stato, titolare del bene, alla Regione.

E d'altra parte la ripartizione dei proventi prevista dal citato art. 49 dello Statuto, rifletterebbe i canoni per concessioni idroelettriche, cioè tanto per le grandi quanto per le piccole derivazioni, e presupporrebbe così l'appartenenza di tutti i canoni allo Stato.

Chiede pertanto respingersi il ricorso.

La difesa della Regione Friuli - Venezia Giulia ha presentato nei termini una memoria illustrativa con cui riafferma le tesi già prospettate, svolgendole ampiamente.

In particolare, nella memoria, si rileva che, anche se, in non concessa ipotesi, i canoni di utenza delle acque pubbliche dovessero essere in definitiva devoluti allo Stato, ciò non escluderebbe la competenza della Regione a curare le operazioni di riscossione, che rientrerebbero comunque nell'ambito della potestà amministrativa regionale in materia di utilizzazione delle acque pubbliche, salvo successivo accredito allo Stato dei relativi importi in sede di regolazione delle reciproche partite di dare ed avere.  

Considerato in diritto 

1. - Il conflitto di attribuzione, sollevato, nei confronti dello Stato, dalla Regione Friuli - Venezia Giulia, concerne il potere di riscossione e di devoluzione dei canoni dovuti dagli utenti, concessionari di "piccole derivazioni" di acque pubbliche.

Secondo la Regione, tanto la riscossione che l'incameramento dei canoni sarebbero di sua spettanza, in dipendenza dell'art. 5 capoverso n. 14 e dell'art. 8 dello Statuto speciale, che le conferiscono potestà legislativa e di esercizio di funzioni amministrative in materia di "utilizzazione" di acque pubbliche, escluse le grandi derivazioni: nonché in dipendenza delle norme di attuazione dello Statuto stesso (art. 22 d.P.R. 26 agosto 1965, n. 1116) che, in materia, conferiscono alla Amministrazione regionale i compiti degli organi centrali e periferici dello Stato.

2. - La Corte ritiene di procedere, nell'ordine, anzitutto all'esame del punto riguardante la spettanza dei canoni di concessione, facendo poi seguire l'esame sulla competenza a provvedere alla loro riscossione.

Un dato che va posto in evidenza ed in particolare considerazione é quello dell'inesistenza, nell'ambito della Regione Friuli - Venezia Giulia, di un demanio idrico regionale. A differenza di quanto disposto in altri statuti (in quello per la Sicilia ed in quello per la Sardegna, dove la devoluzione, per successione, alla Regione di beni demaniali statali, comprese le acque pubbliche, é espressamente dichiarata) lo Statuto Friuli - Venezia Giulia circoscrive la possibilità di trasferimento alla Regione a determinati beni, elencati tassativamente negli artt. 55 e 56 e facenti parte del patrimonio indisponibile e disponibile: al quale elenco é del tutto estranea la materia delle acque pubbliche.

Situazione uguale a quella della Regione Friuli - Venezia Giulia esiste anche per la Regione Trentino - Alto Adige, dove, come riconosciuto da questa Corte con sentenza n. 46 del 1962, "le acque pubbliche, a qualunque uso destinate, continuano a far parte del demanio statale".

Da questa premessa, non può che derivare, in via di principio, la conseguenza che la titolarità del canone dovuto dai concessionari va riconosciuta coincidente e connessa con la titolarità del bene, da cui deriva e su cui incide.

Tale canone, sia se considerato, secondo particolari opinioni, di natura tributaria e più precisamente di tassa, sia se considerato come corrispettivo pecuniario dell'uso del bene acqua formante oggetto di concessione, resta, comunque, collegato al potere eminente di dar luogo allo sfruttamento del bene stesso, secondo la sua capacità intrinseca di produttività ed in funzione dell'attitudine a conseguire quei fini di "pubblico generale interesse" evidenziati nella legge fondamentale sulle acque (t.u. 11 dicembre 1933, n. 1775, art. 1).

3. - La difesa della Regione obietta e sostiene che il rigore logico e la conseguenzialità dell'ora cennato principio, debbano subire eccezione nel senso della sua inapplicabilità nel caso in cui, come per la Regione Friuli - Venezia Giulia, le sia conferita potestà legislativa e amministrativa in materia di "utilizzazione delle acque pubbliche escluse le grandi derivazioni" (artt. 5-8 Statuto e 22 Norme di attuazione). Secondo la Regione, la devoluzione dei canoni a suo favore, dovrebbe essere considerata come la necessaria integrazione e conclusione della competenza ad essa riservata in materia.

Questo assunto implica che siano anzitutto precisati il contenuto ed i limiti della predetta "utilizzazione" rispetto al diritto ai canoni percepiti dalle concessioni.

Costituisce dato positivo e incontroverso che alla Regione spetti di provvedere alla formazione del "disciplinare" di concessione di piccole derivazioni avente per oggetto, secondo le indicazioni dell'art. 40 del testo unico del 1933, tutto ciò che riguardi quantità, modi, condizioni della raccolta, regolazione, derivazione, condotta ed uso delle acque, nonché spetti di provvedere, per evidente connessione e unitarietà di apprezzamento in materia, sulla misura del canone dovuto dai concessionari. Trattasi, in sostanza, di stabilire i "vari modi di sfruttamento delle acque", che questa Corte, con la citata sentenza n. 46 del 1962, ha indicato, in via generale e sia pure ai fini di altro oggetto del decidere, come costitutivi del concetto di utilizzazione: ciò senza includervi quello dell'incameramento dei rispettivi canoni.

L'affidamento del potere di utilizzazione delle acque sta, pertanto, a significare che alla Regione é assegnato il compito di disciplinarne le modalità di uso e consumo, senza con ciò superare l'osservanza di principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, entro i limiti previsti dall'art. 5 dello Statuto de quo.

Si ha conferma dell'esattezza di quanto ora detto col rilevare che dagli artt. 48 e seguenti dello Statuto si evince che di nessun cespite che si identifichi con i canoni di concessione é prevista la devoluzione a favore della finanza regionale. Soltanto l'art. 49, n. 3, dello Statuto stesso dispone la devoluzione alla Regione di nove decimi dei canoni per le concessioni idroelettriche. Ma, posto che queste particolari concessioni possono riguardare anche le piccole derivazioni, oltre che le grandi, ciò é dimostrativo che la percezione dei canoni spetti di regola allo Stato, salvo nel caso predetto, in via di eccezione, la cessione di una quota percentuale alla Regione.

Di conseguenza, l'assunto della Regione, contrario a ritenere dissociati i compiti ad essa riservati e la percezione del canone, non trova riscontro nel sistema e va disatteso, con pronuncia che dichiari spettare il canone allo Stato.

4. - Diversa statuizione richiede l'altro punto riguardante la competenza all'esazione dei canoni.

La Corte ritiene che, senza contraddire ai criteri indicati nel numero precedente, detta competenza vada riconosciuta di spettanza della Regione.

Trattasi di attività funzionale amministrativa contabile, che rientra tra quelle assegnate statutariamente alla Regione.

Nella serie di adempimenti, per disciplinare formalmente tutte le modalità di concessione, la riscossione viene a collocarsi, accanto alla sua determinazione, come chiusura del ciclo di attività riservato alla Regione e come mezzo per contribuire al buon andamento dell'organizzazione amministrativa.

La effettiva devoluzione del canone a chi di ragione, é poi problema di altra natura, come si é spiegato al numero precedente.  

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE 

a) dichiara che spetta allo Stato la devoluzione dei canoni attinenti alla concessione di piccole derivazioni d'acqua nel territorio della Regione Friuli - Venezia Giulia. Respinge, di conseguenza, su questo punto il ricorso proposto, come in narrativa, dalla Regione stessa in relazione alla Nota 31 agosto 1970, n. 24296, dell'Intendente di finanza di Udine;

b) dichiara che spetta alla Regione Friuli - Venezia Giulia provvedere alle operazioni di riscossione dei predetti canoni e, in accoglimento del ricorso della Regione, annulla la suindicata Nota intendentizia limitatamente a tal punto.  

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 giugno 1971.

Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI

 

Depositata in cancelleria il 30 giugno 1971.