Sentenza n. 49 del 1971
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SENTENZA N. 49

ANNO 1971

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE 

composta dai signori giudici:

Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI,

ha pronunciato la seguente   

SENTENZA 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 553 del codice penale e dell'art. 112 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con r.d. 18 giugno 1931, n. 773, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 1 aprile 1969 dal tribunale di Viterbo nel procedimento penale a carico di Bertinelli Virginio ed altri, iscritta al n. 256 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 186 del 23 luglio 1969;

2) ordinanza emessa il 5 maggio 1970 dal pretore di Roma nel procedimento penale a carico di De Marchi Luigi, iscritta al n. 240 del registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 235 del 16 settembre 1970.

Visti gli atti di costituzione di De Marchi Luigi e d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 24 febbraio 1971 il Giudice relatore Giuseppe Chiarelli;

uditi l'avv. Giorgio Moscon, per il De Marchi, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.  

Ritenuto in fatto 

1. - Il tribunale di Viterbo, nel procedimento penale a carico di Virginio Bertinelli e altri, con ordinanza 1 aprile 1969 ha rimesso a questa Corte la questione di legittimità costituzionale dell'art. 553 del codice penale e dell'articolo 112 del t.u. delle leggi di p.s. (approvato con r.d. 18 giugno 1931, n. 773), con riferimento agli artt. 21, primo comma, e 32 della Costituzione.

Nell'ordinanza si premette che la precedente sentenza 19 febbraio 1965, n. 9, di questa Corte, che ebbe per oggetto lo stesso art. 553 c.p., non preclude la riproponibilità della questione, sotto altri profili e con nuovi argomenti. Sotto il riflesso della violazione dell'art. 21 della Costituzione, l'ordinanza osserva quindi che la norma impugnata, ispirata a suo tempo dalla politica che si riassumeva nel motto "il numero é potenza", non trova giustificazione nella difesa del buon costume, che, per quanto riguarda la propaganda anticoncezionale, é tutelato da altre norme del codice penale. D'altronde la nozione di buon costume si evolve coi tempi e i mutamenti nel modo di considerare il problema non consentono oggi di considerare illecita quella propaganda.

Viene inoltre dedotta la violazione dell'art. 32 della Costituzione, in considerazione dei danni alla salute che procura la frequenza degli aborti e la superprolificità, dovuta all'ignoranza dei mezzi anticoncezionali.

2. - La questione di legittimità costituzionale dell'articolo 553 c.p. é stata proposta anche, d'ufficiò, dal pretore di Roma, in un procedimento a carico di Luigi De Marchi, con ordinanza 5 maggio 1970. Anche questa denuncia la violazione degli artt. 21 e 32 della Costituzione, richiamando e illustrando i motivi già addotti nell'ordinanza del tribunale di Viterbo. L'ordinanza deduce inoltre la violazione dell'art. 18 della Costituzione sulla libertà di associazione, in quanto, in base all'attuale sistema, i singoli che concorressero nella organizzazione e nell'attività di una associazione per il birth control incorrerebbero nella sanzione di cui all'articolo 553 c.p.; e la violazione dell'art. 31, secondo cui la Repubblica tutela la maternità e l'infanzia, in quanto le gravidanze troppo ravvicinate creano uno stato gravissimo alla salute della madre e della prole.

3. - Nel giudizio promosso dal pretore di Roma é intervenuto il Presidente del Consiglio, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, e si é costituito il dott. De Marchi, a mezzo dell'avv. Giorgio Moscon.

L'Avvocatura dello Stato, premesso che la Corte, con la sentenza n. 9 del 1965, pervenne a una interpretazione adeguatrice dell'art. 553 c.p., afferma che la norma, così come interpretata dalla Corte, tutela interessi ai quali é tuttora particolarmente sensibile una non piccola parte della comunità.

Sostiene quindi l'infondatezza delle proposte censure.

La difesa della parte privata, premesse, nella memoria, ampie considerazioni sugli aspetti sociali ed etici della questione, sostiene nel merito che da quando fu emanata la sentenza n. 9 del 1965 sono sopravvenuti nuovi ed essenziali sviluppi, che rendono insostenibile il mantenimento dell'articolo 553 c.p. in nome del buon costume, tutelato da altre norme del codice penale; vengono inoltre citati casi in cui la magistratura di merito ha espressamente ripudiato l'interpretazione data dalla Corte all'art. 553 codice penale. La memoria si diffonde, infine, sull'utilità, per la tutela della salute, della propaganda e dell'assistenza anticoncezionale.

Nella discussione orale le difese delle parti hanno ribadito i rispettivi argomenti.  

Considerato in diritto 

1. - Le cause possono essere decise con unica sentenza, avendo il medesimo oggetto.

2. - La questione di legittimità costituzionale dell'articolo 553 del codice penale (incitamento a pratiche contro la procreazione) e dell'art. 112 t.u. delle leggi di p.s., già proposta con riferimento all'art. 21 primo comma, della Costituzione, era stata esaminata e decisa da questa Corte con sentenza n. 9 del 1965. In tale sentenza fu riconosciuto che l'art. 553 c.p. non vieta la propaganda che genericamente miri a convincere dell'utilità e necessità, in un determinato momento storico, di limitare le nascite, o che propugni una politica di controllo dell'aumento della popolazione; tuttavia si ritenne che la norma non contrastasse con l'art. 21 della Costituzione, in quanto diretta a tutelare il buon costume. Su la base di tale interpretazione, la questione fu dichiarata infondata "nei sensi e nei limiti di cui in motivazione".

Successivamente alla ricordata sentenza, la norma ha avuto scarsa applicazione, ma vi sono stati casi in cui nella pratica giudiziaria é stata disattesa l'interpretazione della Corte, e la norma é stata ritenuta applicabile nel suo senso letterale, indipendentemente dalla connessione, in essa ravvisata dalla Corte, con la difesa del buon costume.

Le ordinanze del tribunale di Viterbo e del pretore di Roma hanno ora riproposto la questione, con nuovi argomenti rispetto all'art. 21, ed inoltre con riferimento all'articolo 32 (ordinanze del tribunale di Viterbo e del pretore di Roma) e agli artt. 18 e 31 (ordinanza del pretore di Roma) della Costituzione.

Si rende quindi necessario il riesame di essa.

3. - Va riconosciuto che la norma di cui all'art. 553 c.p. corrispondeva alla politica demografica del tempo, diretta all'incremento della popolazione, considerato come fattore di potenza, e alle concezioni a cui quella politica si ispirava. Ciò é documentato, a parte la collocazione dell'articolo nel titolo relativo ai "delitti contro la integrità e la sanità della stirpe", dalla Relazione del Guardasigilli al Progetto di codice penale.

Del resto, che, sopravvenuto il nuovo ordinamento costituzionale, la norma dell'art. 553 c.p. non trovasse più giustificazione in quelle concezioni fu riconosciuto nella sentenza n. 9 del 1965, la quale, come si é visto, ritenne consentita la propaganda genericamente diretta alla limitazione del numero delle nascite e alla promozione di una politica di controllo dell'aumento della popolazione, e fece salva la legittimità costituzionale della norma solo sotto il riflesso della difesa del buon costume.

Ma il riesame della questione, anche alla luce delle ragioni e degli elementi emersi nella nuova prospettazione di essa, induce la Corte a ritenere che la norma non può essere mantenuta in vita, senza contrasto con la Costituzione.

Infatti, la disposizione dell'art. 553 c.p., appunto perché collegata, nella sua ragione originaria, alla ricordata politica di espansione demografica e alle concezioni su cui questa si basava, vietava la pubblica trattazione di argomenti riguardanti la procreazione soltanto se svolta nel senso di favorire, mediante l'incitamento o la propaganda di pratiche contro la procreazione, la riduzione delle nascite. Le esigenze del buon costume erano tutelate, come sono tuttora, da altre disposizioni del codice penale, in qualunque senso e a qualunque fine si svolga la predetta attività.

D'altra parte, il problema della limitazione delle nascite ha assunto, nel momento storico attuale, una importanza e un rilievo sociale tale, ed investe un raggio di interesse così ampio, da non potersi ritenere che, secondo la coscienza comune e tenuto anche conto del progressivo allargarsi della educazione sanitaria, sia oggi da ravvisare un'offesa al buon costume nella pubblica trattazione dei vari aspetti di quel problema, nella diffusione delle conoscenze relative, nella propaganda svolta a favore delle pratiche anticoncettive.

Di ciò si ha conferma nella già ricordata scarsissima applicazione dell'art. 553 c.p.; nelle ripetute proposte di legge per la sua abrogazione; nel diffuso convincimento dell'esigenza di una informata coscienza sociale in materia, rilevabile dalla letteratura, dai dibattiti e da note dichiarazioni internazionali sull'argomento.

Si deve pertanto riconoscere che, venuta meno la ragione dell'autonoma configurazione del reato di cui all'art. 553 c.p., il limite da esso posto alla libera manifestazione del pensiero si trova in contrasto con l'art. 21, primo comma, della Costituzione.

Con la conseguente dichiarazione di illegittimità costituzionale, la propaganda di pratiche anticoncettive e l'incitamento ad esse restano subordinate all'osservanza delle norme penali riguardanti gli atti, le pubblicazioni e gli spettacoli osceni (artt. 527, 528, 529 c.p.); gli atti e il commercio di scritti, disegni e oggetti contrari alla pubblica decenza (articoli 725, 726 c.p.); nonché all'osservanza delle norme riguardanti l'istigazione a delinquere e l'apologia di reato (art. 414 c.p.): in particolare, l'istigazione all'aborto (art. 548 c.p.).

É da considerare che il rilevante numero degli aborti é portato, dalla difesa della parte privata nel presente giudizio e da gran parte della letteratura sull'argomento, come una delle ragioni a favore della diffusione della conoscenza delle pratiche antifecondative. Sarebbe palesemente contraddittorio che la consentita propaganda antiprocreativa comprendesse l'incitamento a pratiche che possano essere, oltre che contrastanti col diritto alla vita, produttive di quei danni alla salute che con quella propaganda si vuol concorrere ad evitare.

A questo proposito la Corte ritiene necessario rilevare che la tutela della salute e della maternità, garantite dalla Costituzione (artt. 31 e 32), richiede che, riconosciuta la liceità della propaganda anticoncezionale, questa formi oggetto di una appropriata disciplina, diretta a impedire l'incitamento all'uso di mezzi riconosciuti dannosi, direttamente o nei loro effetti secondari, per la salute. In questo senso, il tempestivo intervento del legislatore, già autorevolmente auspicato nel Parere del Consiglio superiore di sanità (Assemblea generale) del 21 aprile 1967, dovrà assicurare l'attuazione, in questa materia, delle ricordate norme costituzionali protettive della salute e della maternità.

L'accoglimento del motivo di illegittimità costituzionale della norma impugnata, per contrasto con l'art. 21, primo comma, della Costituzione, assorbe le altre censure dedotte nel presente giudizio.

4. - Le ragioni innanzi esposte valgono anche per riconoscere l'illegittimità costituzionale dell'impugnato art. 112 del t.u. delle leggi di p.s., limitatamente alla parte in cui vieta la produzione, l'acquisto, la detenzione, l'importazione, l'esportazione e la circolazione di scritti, disegni ed immagini che divulgano i mezzi diretti a impedire la procreazione o ne illustrano l'impiegò.

Esse si estendono inoltre all'art. 114, primo comma, del medesimo t.u., nella parte in cui vieta l'inserzione, in giornali o periodici, di avvisi o corrispondenze che si riferiscano ai predetti mezzi; nonché all'art. 2 del decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 561, nella parte in cui stabilisce che si può far luogo al sequestro di giornali o altre pubblicazioni o stampati che divulgano i mezzi medesimi, ne illustrano l'impiego o contengono inserzioni o corrispondenze ad essi relative.

Ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, va pertanto dichiarata l'illegittimità costituzionale anche di queste ultime norme.  

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE 

dichiara l'illegittimità costituzionale:

dell'art. 553 del codice penale;

dell'art. 112, primo comma, del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (approvato con r.d. 18 giugno 1931, n. 773), limitatamente alle parole: "a impedire la procreazione";

dichiara inoltre, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale:

dell'art. 114, primo comma, del medesimo testo unico, limitatamente alle parole: "a impedire la procreazione";

dell'art. 2, primo comma, del decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 561 (norme sul sequestro dei giornali e delle altre pubblicazioni), limitatamente alle parole: "a impedire la procreazione".  

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 1971.

Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI

 

Depositata in cancelleria il 16 marzo 1971.