Sentenza n. 9 del 1965
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SENTENZA N. 9

ANNO 1965

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. GASPARE AMBROSINI, Presidente

Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO

Prof. ANTONINO PAPALDO

Prof. NICOLA JAEGER

Prof. GIOVANNI CASSANDRO

Prof. BIAGIO PETROCELLI

Dott. ANTONIO MANCA

Prof. ALDO SANDULLI

Prof. GIUSEPPE BRANCA

Prof. MICHELE FRAGALI

Prof. COSTANTINO MORTATI

Prof. GIUSEPPE CHIARELLI

Dott. GIUSEPPE VERZÌ

Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI

Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 553 del Codice penale e dell'art. 112 del T.U. delle leggi di p. s. approvato con R.D. 18 giugno 1931, n. 773, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 3 febbraio 1964 dal Pretore di Lendinara nel procedimento penale a carico di Matteotti Giancarlo, iscritta al n. 42 del Registro ordinanze 1964 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 91 dell'11 aprile 1964;

2) ordinanza emessa il 23 maggio 1964 dal Pretore di Firenze nel procedimento penale a carico di De Marchi Luigi, iscritta al n. 111 del Registro ordinanze 1964 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 169 dell'11 luglio 1964.

Visti l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri e gli atti di costituzione in giudizio di Matteotti Giancarlo e di De Marchi Luigi;

udita nell'udienza pubblica del 2 dicembre 1964 la relazione del Giudice Giovanni Cassandro;

uditi gli avvocati Renato Sansone, Giorgio Moscon, Paolo Barile e Leopoldo Piccardi, per Matteotti e De Marchi, ed il vice avvocato generale dello Stato Dario Foligno, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nel corso di un procedimento penale a carico dell'On. Giancarlo Matteotti, il Pretore di Lendinara ha sollevato d'ufficio la questione sulla legittimità costituzionale dell'art. 553 del Codice penale, che punisce "chiunque pubblicamente incita a pratiche contro la procreazione o fa propaganda a favore di esse" e dell'art. 112 del T.U. delle leggi di p.s. nella parte in cui questo vieta di mettere in circolazione scritti o disegni "che divulgano, anche in modo indiretto o simulato o sotto pretesto terapeutico o scientifico, i mezzi rivolti a impedire la procreazione o a procurare l'aborto o che illustrano l'impiego dei mezzi stessi", in relazione all'art. 21 della Costituzione, giusta il quale "tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione".

I motivi che sorreggono la proposta questione di costituzionalità sono, a parere del Pretore, i seguenti:

I) non si nega che una libertà garantita dalla Costituzione possa trovare dei limiti al suo esercizio, ma codesti limiti devono nascere da diritti e beni "concorrentemente" tutelati dalla Costituzione o da questa posti contestualmente alla concessione del diritto di libertà, il quale nasce, così, subordinato al rispetto di determinate condizioni. Ora, il bene giuridico tutelato dall'art. 553 del Codice penale, rappresentato dall'incremento demografico del popolo italiano, non é considerato nemmeno implicitamente o indirettamente dalla Costituzione, né nella parte che raccoglie i "principi fondamentali", né nell'altra che considera i "rapporti etico-sociali";

Il) il contrasto delle norme impugnate con l'art. 21 della Costituzione non può essere superato col richiamo al buon costume, che lo stesso articolo pone come limite alla libertà di manifestazione del pensiero. Dei due significati che il concetto di buon costume può assumere - quello ampio che lo identifica con la coscienza etica di un popolo in un dato momento storico, e l'altro più ristretto o "giuridico-penalistico", come dice il Pretore, desumibile dalle norme del Titolo IX, libro II, del Codice penale (Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume) e dalle altre che trovano luogo in altre parti del Codice penale, ma che tutelano sostanzialmente lo stesso bene -, il Pretore afferma di dover accogliere il secondo per ricavarne la conseguenza che la norma dell'art. 553, che considera e vieta una propaganda svolta con mezzi e intenti che non attentano di per sé al buon costume, cioè alla morale e al pudore sessuale, non può essere considerata conforme alla Costituzione;

III) nemmeno se si accogliesse il concetto più ampio di buon costume verrebbe meno il contrasto delle norme impugnate con l'art. 21 della Costituzione, dato che é opinione del Pretore che la coscienza etica della collettività é quella espressa dalla media dei cittadini in un determinato momento storico, e sarebbe tale oggi da non consentire di ritenere "rilevantemente contrario ai principi etico-sociali il fatto della limitazione delle nascite". Vero é che la morale cattolica condanna l'impiego dei mezzi antifecondativi, ma essa non può influire sulla determinazione di un concetto giuridico-statale perché ne mancherebbero le condizioni: il rinvio ad essa da parte di una norma statale, la conformità della coscienza collettiva alla dottrina cattolica. Infatti non si potrebbe individuare codesto rinvio nel richiamo dell'art. 7 della Costituzione ai Patti Lateranensi; non si potrebbe negare che quel divieto non é più sentito della coscienza collettiva in armonia coi tempi;

IV) sarebbe, infine, da escludere un contrasto della propaganda anticoncezionale col mantenimento e la garanzia dell'ordine pubblico.

L'ordinanza, emessa il 3 febbraio 1964, é stata ritualmente notificata e comunicata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 91 dell'11 aprile 1964.

2. - Nel presente giudizio si é costituito l'On. Giancarlo Matteotti, rappresentato e difeso dagli avvocati Renato Sansone, Paolo Barile e Giorgio Moscon, con atto depositato il 1 aprile 1964, chiedendo che la Corte dichiari la incostituzionalità dell'art. 553 del Codice penale e dell'art. 112 del T.U. delle leggi di p. s. nella "parte riguardante la propaganda anticoncezionale".

3. - É intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con atto depositato il 30 aprile 1964, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.

Secondo l'Avvocatura, la nozione di buon costume, quale é assunta dall'art. 21 della Costituzione, coincide con l'altra, tradizionale, di "boni mores" e ricomprende perciò tutto quanto é contrario alla coscienza etica di un popolo. Alla stregua di questa interpretazione e con riferimento all'ampiezza della previsione dell'art. 553 del Codice penale che comprenderebbe anche ogni riferimento all'aborto, le norme impugnate troverebbero giustificazione nel precetto dell'ultimo comma dell'art. 21 della Costituzione, che vieta "le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume".

Non costituirebbe ostacolo a questa tesi il fatto che le norme impugnate fossero, in passato, ispirate anche alla finalità dello incremento demografico del popolo italiano, perché esse intendono tutelare obiettivamente un interesse protetto dal precetto costituzionale, come sarebbe confermato dal fatto che nel progetto preliminare di riforma del Codice penale del 1949-50 la disposizione dell'art. 553 é stata conservata sotto il Titolo: "Le contravvenzioni contro la moralità pubblica e il buon costume".

Infine, la libertà di manifestare il pensiero può trovare limiti in altri diritti riconosciuti anche implicitamente dalla Costituzione. Nel caso in esame, l'Avvocatura ritiene che possano essere richiamate le norme degli artt. 30 e 31, relativi alla tutela della famiglia e del matrimonio, e soprattutto quella dell'art. 32, primo e secondo comma, della Costituzione, che tutela la salute e l'integrità fisica come interesse collettivo - tutti beni che si pongono in logica correlazione con la pubblica moralità e il buon costume.

4. - La stessa questione di legittimità costituzionale, limitatamente all'art. 553 del Codice penale, é stata sollevata, su richiesta della difesa, dal Pretore di Firenze nel corso di un procedimento penale a carico del dott. Luigi De Marchi. A sostegno della non manifesta infondatezza della questione, il Pretore di Firenze ripete succintamente gli stessi motivi addotti dal Pretore di Lendinara.

L'ordinanza, emessa il 23 maggio 1964, ritualmente notificata e comunicata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 169 dell'11 luglio 1964.

5. - In questo giudizio si é costituito, con atto depositato il 22 luglio 1964, il dott. Luigi De Marchi, rappresentato e difeso dagli avvocati Leopoldo Piccardi, Paolo Barile e Giorgio Moscon, chiedendo che la Corte dichiari la incostituzionalità della norma impugnata.

Il Presidente del Consiglio non é intervenuto.

6. - Nei due giudizi le parti private hanno depositato il 19 novembre 1964 una identica memoria.

La difesa sostiene che l'art. 553 del Codice penale, l'art. 112 del T.U. delle leggi di p. s., nonché l'art. 114 di codesto medesimo T.U. , la illegittimità del quale deriverà come conseguenza dell'eventuale dichiarazione di illegittimità delle norme impugnate - quest'ultimo articolo vieta l'inserzione sui giornali e sui periodici di avvisi e corrispondenze che si riferiscono ai mezzi diretti a impedire la procreazione e a procurare l'aborto - , verterebbero senza dubbio nella materia attinente alla libera manifestazione del pensiero, stante che il reato consisterebbe nella pura e semplice manifestazione del pensiero intorno alla limitazione delle nascite, prescindendo da ogni pratica spiegazione di come codesta limitazione si possa conseguire. La difesa prosegue affermando che le situazioni soggettive costituzionali di vantaggio incontrano soltanto quei limiti, che la stessa norma che formula la situazione pone, o quelli contenuti in altre norme costituzionali che, indirettamente, la condizionino. Ora, la libertà di manifestare il pensiero non incontra il limite dell'ordine pubblico che non si rinviene nella Costituzione né come limite di efficacia generale, né nell'art. 21 come limite specifico. Non esattamente la Corte avrebbe ritenuto nel caso dell'art. 656 del Codice penale l'ordine pubblico sufficiente a rendere la norma conforme alla Costituzione; del che la difesa delle parti private assegna ampiamente le ragioni, soggiungendo, tuttavia, che le norme impugnate non presuppongono l'ordine pubblico come bene tutelato né espressamente, né implicitamente, e che la questione viene esaminata per ragioni di completezza sistematica.

Né la legittimità si può ricavare dal limite del buon costume, che l'art. 21 richiama nel suo ultimo comma.

La difesa ritiene che il concetto di buon costume abbia una sua accezione costituzionale più ampia di quella desumibile dal diritto penale - vi si ricomprenderebbero atti penalmente irrilevanti, ma ripugnanti -, e tuttavia diversa da quella di pubblica moralità e comunque non così estesa da coincidere con la nozione privatistica di essa. Senonché, sostiene che le finalità della difesa del buon costume non vengono punto in considerazione rispetto alle norme impugnate, le quali prescindono totalmente dal modo con cui l'incitamento alle pratiche anticoncezionali venga presentato e da ogni comportamento impudico, ed hanno come fine la tutela della stirpe e della razza e l'incremento demografico della popolazione italiana.

Nemmeno potrebbe dirsi che queste norme si pongano la tutela del buon costume come fine secondario, per il motivo assorbente, a giudizio della difesa, che le eventuali offese al buon costume in occasione della propaganda anticoncezionale avrebbero la loro sanzione in altre norme penali (artt. 527, 528, 725 e 726 del Codice penale). Infine, anche se si volesse identificare il buon costume con la morale corrente, bisognerebbe guardarsi dal far coincidere questa con quella cattolica, risultando essa anche da altre regole morali di condotta - laiche, liberali, marxiste o individuali del singolo cittadino -, a prescindere dalla circostanza che, proprio in tema di controllo delle nascite, la morale cattolica mostrerebbe i segni di un netto rivolgimento.

In ultimo luogo, la legittimità costituzionale delle norme in esame non potrebbe dedursi - come sarebbe evidente a prima vista - dagli artt. 29 e 30 della Costituzione o dall'art. 31, primo comma, giusta il quale la Repubblica agevola con misure economiche od altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose (dove quest'ultimo inciso non autorizza una politica demografica, ma suggerisce un'azione di assistenza sociale), ma nemmeno dall'art. 32 che tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività. Vero é che il legislatore può disciplinare la materia in esame con norme sanitarie, ma ammettendo il controllo dei singoli medicinali, non già col divieto assoluto di manifestare il proprio pensiero intorno a certi medicinali. Né sarebbe vero che la illegittimità dell'art. 553 del Codice penale renderebbe lecita la propaganda a favore dell'aborto, dato che le pratiche abortive restano vietate dall'art. 545 e seguenti del Codice penale e qualunque propaganda a favore di esse sarebbe colpita, quale istigazione a delinquere o quale apologia di reato, dall'art. 414 del Codice penale.

7. - L'Avvocatura ha depositato il 19 novembre 1964, nel giudizio introdotto con l'ordinanza del Pretore di Lendinara nel quale é costituita, una memoria, nella quale, con ampi riferimenti dottrinali e giurisprudenziali, svolge le tesi già esposte nell'atto di intervento a sostegno della non fondatezza della questione.

In particolare, l'Avvocatura insiste sulla definizione della nozione di buon costume. Vi sarebbe nell'ordinamento giuridico un concetto di buon costume più ampio di quello penalistico, che, anzi, ricomprenderebbe questo come maggiore il minore, e secondo il quale la condotta conforme al buon costume é quella dell'onesto vivere, quale é inteso dalla coscienza media di un popolo in un determinato periodo storico. Questo concetto del buon costume sarebbe stato assunto nell'ultimo comma dell'art. 21 della Costituzione. Né può sostenersi che una nozione così ampia di buon costume priverebbe la libertà di manifestare il pensiero di una seria garanzia costituzionale, dato che soccorrerebbe la riserva di legge, che, interprete dei mores, statuirà sull'estensione del divieto. La riduzione del concetto di buon costume a quello penalistico non può dedursi nemmeno dalla previsione che l'ultimo comma dell'art. 21 della Costituzione fa di un'attività di prevenzione, stante che questa previsione può essere intesa come rivolta non già a coprire tutta l'area del precetto proibitivo costituzionale, ma soltanto quella parte di essa penalmente rilevante. Ma, anche se si ammettesse che la nozione costituzionale di buon costume vada intesa così com'é intesa nel diritto penale, va tenuto presente che la nozione penalistica non si limita alla libertà sessuale, al pudore e all'onore sessuale; oggetto della tutela penale é anche la pubblica decenza (artt. 725 e 726 del Codice penale), che si ritiene comunemente rientri nella nozione di buon costume.

Così si deve concludere che gli interessi tutelati nell'art. 553 del Codice penale in concomitanza con quelli principali (che ne spiegherebbero soltanto la nascita), possono essere ricondotti alla nozione di buon costume.

Ampio svolgimento trova poi nella memoria il riferimento della nozione di buon costume ai valori etico-religiosi della nostra civiltà, che costituiscono il fondamento della società italiana e ai quali il legislatore direttamente si é voluto riferire richiamandoci al buon costume.

Infine, l'Avvocatura sottolinea che l'art. 553 del Codice penale e l'art. 112 del T.U. delle leggi di p.s. non sarebbero rivolti contro il controllo delle nascite, bensì soltanto contro l'incitamento, la propaganda e la divulgazione delle pratiche contro la procreazione, sia nel senso di pratiche abortive, sia nell'altro di attentato alla perpetuazione della specie, sia nel terzo di pratiche indirizzate a garantire rapporti sessuali illeciti. Sono queste forme, sempre che si manifestino pubblicamente, che si vogliono vietate, non già ogni e qualsiasi discussione ispirata magari a motivi scientifici o culturali. Le pratiche contro la fecondazione non costituiscono di per sé reato, come si ricaverebbe dalla circostanza che l'art. 553 del Codice penale non deroga all'art. 115 del medesimo Codice. Considerazioni queste che valgono anche per l'art. 112 del T.U. delle leggi di p.s., che reprime non già, come l'art. 553, la propaganda in genere, ma la stampa e la divulgazione di mezzi propagandistici, dovendosi ravvisare nelle due disposizioni un concorso materiale.

8. - Nell'udienza del 2 dicembre 1964, le due cause sono state discusse congiuntamente e le difese delle parti hanno ribadito le rispettive tesi e insistito nelle conclusioni già prese.

 

Considerato in diritto

 

1. - Tanto l'ordinanza del Pretore di Lendinara, quanto quella del Pretore di Firenze sollevano la questione di legittimità costituzionale dell'art. 553 del Codice penale; ma la prima propone altresì quella relativa all'art. 112 del T.U. delle leggi di p.s. 18 giugno 1931, n. 773. Tuttavia i due giudizi possono essere decisi con un'unica sentenza, dato lo stretto legame che unisce le due questioni fino a farne una sola e medesima.

2. - Occorre preliminarmente sgombrare il campo da una tesi, che si può definire pregiudiziale, della difesa delle parti private, giusta la quale l'illegittimità delle norme impugnate deriverebbe immediatamente dalla circostanza che le norme stesse sarebbero state emanate a presidio della politica demografica del cessato regime, che si esprimeva sinteticamente nel motto "il numero é potenza"; esse sarebbero state poste, cioè, a tutela di un bene che non é tra quelli riconosciuti dalla Costituzione e che sono i soli, poi, che possono giustificare limitazioni alla libertà di manifestazione del pensiero.

La tesi non può essere condivisa. E confortato da tutta la giurisprudenza della Corte il principio che la legittimità o illegittimità di una norma - in un sistema giuridico che si estende nel tempo al di qua e al di là della promulgazione della Carta costituzionale e che la Costituzione della Repubblica ha profondamente modificato e rigidamente condizionato, ma non posto nel nulla -, dipende non già dal fine o dall'occasione che la fece nascere, ma dalla sua obiettiva conformità o difformità dalla legge fondamentale dello Stato. Da che discende che ciascuna norma di legge ordinaria deve essere esaminata nella sua propria struttura obiettiva e in questi termini confrontata col precetto costituzionale che da essa si assume violato. E del resto, quando nel T.U. delle leggi di p.s. 6 novembre 1926, n. 1848, comparve il divieto di diffondere scritti o disegni che divulgassero i mezzi di impedire la fecondazione o di interrompere la gravidanza o ne illustrassero l'impiego, il bene che si volle protetto fu quello della morale e del buon costume, quegli scritti e disegni essendo stati qualificati appunto come "offensivi della morale e del buon costume" (artt. 112 e 113). E la norma impugnata del Codice penale (art. 553) prese posto nel titolo X del libro II, che s'intitola ai delitti contro l'integrità e la sanità della stirpe, accanto ad altre ipotesi delittuose (artt. 545-551: aborto; art. 552: procurata impotenza alla procreazione; art. 554: contagio di sifilide e di blenorragia), il rapporto delle quali con la politica di potenza demografica perseguita dal passato regime é, quanto meno, soltanto indiretto.

3. - La libertà di manifestazione del pensiero é tra le libertà fondamentali proclamate e protette dalla nostra Costituzione, una di quelle anzi che meglio caratterizzano il regime vigente nello Stato, condizione com'é del modo di essere e dello sviluppo della vita del Paese in ogni suo aspetto culturale, politico, sociale. Ne consegue che limitazioni sostanziali di questa libertà non possono essere poste se non per legge (riserva assoluta di legge) e devono trovare fondamento in precetti e principi costituzionali, si rinvengano essi esplicitamente enunciati nella Carta costituzionale o si possano, invece, trarre da questa mediante la rigorosa applicazione delle regole dell'interpretazione giuridica.

E poiché non può dubitarsi che la previsione dell'art. 553 del Codice penale si traduca in una limitazione sostanziale della libera manifestazione del pensiero, occorre vedere se tale limitazione possa trovare giustificazione in un precetto o principio costituzionale.

4. - La Corte ritiene che il precetto costituzionale, che può essere richiamato in primo luogo per proteggere la norma impugnata da una pronunzia di illegittimità, sia contenuto nel medesimo art. 21 della Costituzione, il quale, riconoscendo a tutti nel suo primo comma, il diritto di manifestare il proprio pensiero con la parola, lo scritto e con ogni altro mezzo di diffusione, aggiunge, nell'ultimo, che "sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume", e riserva alla legge di stabilire "i provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni".

Ora, non é dubbio che l'art. 553 del Codice penale, interpretato nell'ambito del sistema giuridico vigente, abbia ad oggetto la tutela del buon costume. Ciò che la norma contenuta in quell'articolo vieta é, infatti, la pubblica propaganda e il pubblico incitamento a "pratiche contro la procreazione": il che significa che la figura del reato previsto dalla norma impugnata, si verifica quando l'azione del soggetto, che consiste nell'incitare o fare propaganda, illustrandone l'uso, di "pratiche", vale a dire di operazioni meccaniche ed esterne contro la procreazione, si compia pubblicamente - cioè in luogo pubblico o aperto al pubblico -, e viola per ciò stesso gravemente il naturale riserbo o pudore del quale vanno circondate le cose del sesso e non rispetta l'intimità dei rapporti sessuali, la moralità giovanile e la dignità della persona umana, per la parte che si collega a questi rapporti.

5. - Le parti hanno a lungo disputato sul contenuto e l'estensione del concetto di buon costume, e segnatamente sul punto se il "buon costume" che compare nell'art. 21 della Costituzione debba essere ricondotto a quello che si può costruire sulla base delle norme del diritto penale, limitatamente a quelle tra esse che tutelano il pudore, l'onore e la libertà sessuale, ovvero, più estensivamente, sulla base anche di quelle che tutelano la pubblica decenza e il comune sentimento morale, o se, invece, si debba costruire di esso una nozione costituzionale più ampia o comunque diversa da quella penalistica. Tuttavia ai fini della decisione non é necessario che la Corte affronti e risolva i contrasti e le divergenze d'opinione, dottrinali e giurisprudenziali, che si sono manifestati a questo proposito, né che dia una definizione puntuale ed esauriente del buon costume. In questa sede é sufficiente affermare che il buon costume non può essere fatto coincidere, come é stato adombrato dall'Avvocatura dello Stato, con la morale o con la coscienza etica, concetti che non tollerano determinazioni quantitative del genere di quelle espresse dal termine "morale media" di un popolo, "etica comune" di un gruppo e altre analoghe. La legge morale vive nella coscienza individuale e così intesa non può formare oggetto di un regolamento legislativo.

Quando la legge parla di morale, vuole riferirsi alla moralità pubblica, a regole, cioé, di convivenza e di comportamento che devono essere osservate in una società civile. Non diversamente il buon costume risulta da un insieme di precetti che impongono un determinato comportamento nella vita sociale di relazione, la inosservanza dei quali comporta in particolare la violazione del pudore sessuale, sia fuori sia soprattutto nell'ambito della famiglia, della dignità personale che con esso si congiunge, e del sentimento morale dei giovani, ed apre la via al contrario del buon costume, al mal costume e, come é stato anche detto, può comportare la perversione dei costumi, il prevalere, cioè, di regole e di comportamenti contrari ed opposti.

Il che é sufficiente per concludere che l'azione prevista dalla norma impugnata violi il buon costume e richiami giustificatamente la disposta repressione penale.

6. - Non può nemmeno essere accolta la tesi che l'art. 553 si riduca a vietare la generica propaganda anticoncezionale, laddove le offese al buon costume, che questa propaganda può eventualmente comportare, sarebbero punite da altre norme. La norma dell'art. 553 ha, nella sua configurazione obiettiva, una sua autonomia e non può essere ritenuta una duplicazione degli artt. 527 (atti osceni), 528 (pubblicazioni e spettacoli osceni), 725 (commercio di scritti, disegni e altri oggetti contrari alla pubblica decenza) e 726 (atti contrari alla pubblica decenza, turpiloquio) del Codice penale, come si può ricavare facilmente dal confronto di queste disposizioni tra loro.

Né l'incitamento e la propaganda di pratiche dirette a provocare e favorire l'aborto, che pur rientrano nella previsione dell'art. 553, possono ritenersi coperti dalla norma dell'art. 414 del Codice penale, che punisce l'istigazione a delinquere, perché l'incitamento e più ancora la propaganda non sono riconducibili all'istigazione, rappresentando, quelle, ipotesi di reato meno gravi e comunque diversamente considerate e punite dal legislatore penale.

7. - Discende da quanto si é detto che l'art. 553 del Codice penale non vieta la propaganda che genericamente miri a convincere dell'utilità e necessità in un determinato momento storico e in un particolare contesto economico-sociale, di limitare le nascite e di porre regole al ritmo della vita; e che propugni una politica di controllo dell'aumento della popolazione, mediante una legislazione che consenta, in determinate forme e modi, e sempre che siano tutelati fondamentali beni sociali, al di fuori di una indiscriminata pubblica propaganda, la diffusione della conoscenza di pratiche anticoncezionali.

Tanto meno, poi, vuol limitare la libertà di manifestazione del pensiero scientifico la quale, lungi dal poter essere parificata all'incitamento e alla propaganda contemplati dall'art. 553 del Codice penale, gode di una tutela costituzionale rafforzata (art. 33, primo comma) rispetto a quella di cui gode la manifestazione del pensiero in generale, alla quale fa riferimento l'art. 21 della Costituzione. La preoccupazione espressa dalla difesa delle parti private che la norma impugnata vieti ogni e qualsiasi discussione pubblica su questa materia della limitazione delle nascite e voglia chiudere la bocca finanche a moralisti, economisti e scienziati in generale, é perciò infondata e si ispira al fine di comprovare, mediante un artificioso ragionamento e un'arbitraria estensione della portata della disposizione legislativa della legittimità della quale si controverte, una violazione della libertà di manifestare il proprio pensiero che, in realtà, non sussiste.

8. - Gli stessi motivi valgono ad escludere la illegittimità della norma contenuta nell'art. 112 del T.U. delle leggi di p. s. 18 giugno 1931, n. 773, nella parte impugnata, che é quella che vieta di mettere in circolazione scritti o disegni "che divulgano, anche in modo indiretto o simulato o sotto pretesto terapeutico e scientifico, i mezzi rivolti a impedire la procreazione ... o che illustrano l'impiego dei mezzi stessi", dovendo essa interpretarsi nel senso che il divieto é rivolto a scritti e disegni che per il modo come sono redatti offendano il buon costume. Stabilire quale sia il rapporto che sul piano penale intercorre tra le due norme impugnate - si ponga, cioè, oppure non, un concorso materiale di reati - , non é competenza della Corte costituzionale.

9. - Una volta dimostrato quale sia il rapporto che passa tra le norme impugnate e l'art. 21 della Costituzione non é necessario che la Corte si proponga il quesito se esse possano trovare giustificazione nella difesa dell'ordine pubblico, o nella tutela del matrimonio e della famiglia o della salute pubblica (artt. 30, 31 e 32 della Costituzione), precetti o principi costituzionali ai quali le difese delle parti hanno fatto variamente riferimento.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondate, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione, le questioni sollevate con ordinanza del Pretore di Lendinara del 3 febbraio 1964 e del Pretore di Firenze del 23 maggio 1964, sulla legittimità costituzionale delle norme contenute nell'art. 553 del Codice penale e nell'art. 112 del T.U. delle leggi di pubblica sicurezza 18 giugno 1931, n. 773, in riferimento all'art. 21, primo comma, della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 febbraio 1965.

 Gaspare AMBROSINI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI – Giuseppe VERZì - Giovanni Battista BENEDETTI -  Francesco Paolo BONIFACIO.

 

Depositata in Cancelleria il 19 febbraio 1965.