Sentenza n. 179 del 1970
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SENTENZA N. 179

ANNO 1970

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE 

composta dai signori giudici:

Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI,

ha pronunciato la seguente  

SENTENZA 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma terzo, del D.L.C.P.S. 4 aprile 1947, n. 207 (trattamento giuridico ed economico del personale civile non di ruolo in servizio nelle Amministrazioni dello Stato), promosso con ordinanza emessa il 9 novembre 1968 dal Consiglio di Stato - sezione sesta - sul ricorso di Renucci Fiorella e Danilo contro il Provveditore agli studi di Roma ed il Ministero della pubblica istruzione, iscritta al n. 107 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 98 del 16 aprile 1969.

Visto l'atto di costituzione di Renucci Fiorella e Danilo;

udito nell'udienza pubblica dell'11 novembre 1970 il Giudice relatore Vincenzo Michele Trimarchi;

udito l'avv. Ezio Milesi, per i Renucci.  

Ritenuto in fatto 

1. - Fiorella e Danilo Renucci, premesso che nella qualità di figli di Giuseppina Rascelli vedova Renucci, bidella non di ruolo presso il Provveditorato agli studi di Roma, deceduta il 10 novembre 1963 per cause comuni in costanza del rapporto d'impiego, avevano chiesto la corresponsione dell'indennità di anzianità relativa al rapporto d'impiego della loro madre, e che il Provveditorato aveva comunicato che a sensi dell'art. 9, comma terzo, del D.L.C.P.S. 4 aprile 1947, n. 207, l'indennità non spettava ad essi richiedenti perché maggiorenni all'atto della morte della de cuius, impugnavano in sede giurisdizionale il provvedimento, chiedendone l'annullamento. A fondamento del ricorso davanti al Consiglio di Stato, deducevano preliminarmente che il citato art. 9 fosse in contrasto con l'art. 35 (in relazione all'art. 3) della Costituzione: la norma porrebbe in essere un aggravio e conseguente danno patrimoniale per i figli dei prestatori d'opera dipendenti dello Stato, la cui condizione giuridica - sarebbe limitata rispetto al datore di lavoro privato ed a proposito del trattamento di indennità in caso di morte. In quest'ultima ipotesi, infatti, mentre l'art. 9 per i dipendenti non di ruolo dello Stato, dispone che l'indennità "deve essere corrisposta al coniuge, ai figli minorenni e se vivevano a carico del dipendente stesso, ai parenti entro il secondo grado", l'art. 2122, comma primo, del codice civile, per i dipendenti da privati datori di lavoro, prescrive che le indennità (di anzianità e di preavviso) "devono corrispondersi al coniuge, ai figli e, se vivevano a carico del prestatore di lavoro, ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo grado". Deducevano, inoltre, i ricorrenti che, essendo l'indennità de qua null'altro che l'indennità di anzianità, di cui la Corte costituzionale, con sentenza n. 75 del 1968, ha riconosciuto il carattere di quota parte del salario, dalla mancata corresponsione nella specie la pubblica amministrazione verrebbe a conseguire un ingiustificato arricchimento.

Per i resistenti (Provveditorato agli studi di Roma e Ministero della pubblica istruzione) l'Avvocatura dello Stato rilevava che la norma di cui all'art. 2122, comma primo, volta a garantire i mezzi di sussistenza al nucleo familiare comunque composto del lavoratore defunto, fosse giustificata dall'aleatorietà del relativo rapporto e che questa non trovasse riscontro in quello di pubblico impiego. Mancherebbe quindi la pretesa disparità di trattamento, essendo i dipendenti dello Stato in posizione ben diversa rispetto ai dipendenti privati.

2. - Il Consiglio di Stato, con ordinanza del 9 novembre 1968, sollevava la questione di legittimità costituzionale del citato art. 9, comma terzo, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione.

Riteneva che l'indennità prevista dalla detta norma e, almeno per una delle sue due componenti, l'indennità a causa di morte prevista dall'art. 2122 del codice civile avessero lo stesso fondamento, e che, attesa la identità strutturale e funzionale dell'indennità di cui si discute nei due rapporti, la differenziazione di trattamento non trovasse una ragionevole giustificazione in base alla diversità del rapporto di impiego pubblico non di ruolo da quello privato: ciò specie ove si fosse tenuto presente che prima del 1966 gli impiegati pubblici non di ruolo erano soggetti alle stesse assicurazioni obbligatorie cui erano sottoposti i lavoratori privati. E concludeva per la non manifesta infondatezza della questione in riferimento all'art. 3 della Costituzione.

Considerava poi l'eccepito contrasto con l'art. 35, comma primo, come sostanzialmente concernente l'art. 36, comma primo, e ad ogni modo sollevava d'ufficio la questione in riferimento a quest'ultima disposizione. Ed al riguardo osservava che con la sentenza n. 75 del 1968 questa Corte aveva affermato che l'indennità di anzianità ex art. 2120 del codice civile ha carattere retributivo e costituisce parte del compenso dovuto per il lavoro prestato, anche se la sua corresponsione viene differita al momento della cessazione del rapporto, e che non incidono sulla natura giuridica dell'indennità le finalità previdenziali che giustificano il differimento del pagamento suddetto, e la parziale deroga alle norme del diritto comune, in caso di morte del lavoratore, quale risulta dall'art. 2122, comma primo, del codice civile.

Conseguentemente, la norma denunciata sarebbe in contrasto con l'art. 36, comma primo, dato che limita le categorie degli aventi diritto iure proprio ed esclude poi che l'impiegato, nel caso che non lasci persone appartenenti alle suddette categorie, possa disporre di dette indennità per dopo la sua morte, sia pure secondo le norme della successione legittima.

L'ordinanza é stata regolarmente comunicata e notificata ed é stata infine pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 98 del 16 aprile 1969.

3. - Davanti a questa Corte si costituivano solamente Fiorella e Danilo Renucci, a mezzo dell'avv. Ezio Milesi, con deduzioni depositate il 14 aprile 1969, e non spiegava intervento il Presidente del Consiglio dei ministri.

I germani Renucci, con l'atto di costituzione e con la memoria depositata il 29 ottobre 1970, si riportavano alle ragioni svolte davanti al Consiglio di Stato, nei sensi precisati e integrati di cui all'ordinanza, e insistevano perché questa Corte volesse dichiarare illegittima la norma denunciata.

All'udienza dell'11 novembre 1970, l'avv. Milesi si riportava alle precedenti ragioni e richieste. Dopo di che la causa passava in decisione.  

Considerato in diritto 

1. - Secondo l'ordinanza di rimessione l'art. 9, terzo comma, del D.L.C.P.S. 4 aprile 1947, n. 207, sarebbe in contrasto con gli artt. 3 e 36 della Costituzione.

Sarebbe violato il principio di uguaglianza in quanto che la norma denunciata, la quale dispone circa la spettanza dell'indennità per cessazione del rapporto di impiego pubblico non di ruolo in caso di morte del dipendente, detta per i figli superstiti una disciplina diversa e meno favorevole di quella prevista, in caso di morte del lavoratore subordinato, dall'articolo 2122 del codice civile e la differenziazione di trattamento non sarebbe razionalmente giustificata.

E sarebbe del pari violato l'art. 36 per ciò che la norma denunciata limita le categorie degli aventi diritto iure proprio (e non vi comprende quella dei figli maggiorenni non viventi a carico) ed esclude poi che l'impiegato, per il caso di mancanza di persone appartenenti a tali categorie, "possa disporre di detta indennità per dopo la sua morte sia pure secondo le norme della successione legittima".

2. - É rilevabile una differenza di trattamento a proposito dei due rapporti, di impiego pubblico non di ruolo e lavoro privato. Nel primo caso, infatti, a sensi del citato art. 9 del D.L.C.P.S. n. 207 del 1947, l'indennità dovuta per cessazione del rapporto a causa della morte del dipendente, deve essere corrisposta al coniuge, ai figli minorenni e, se vivevano a carico del dipendente stesso, ai parenti entro il secondo grado, e nulla é espressamente detto per l'ipotesi di mancanza di persone appartenenti alle dette categorie. A proposito del secondo rapporto, invece, le indennità in caso di morte, a sensi dell'art. 2122 del codice civile, devono corrispondersi al coniuge, ai figli e, se vivevano a carico del prestatore di lavoro, ai parenti entro il terzo grado ed agli affini entro il secondo grado; ed in mancanza di dette persone sono attribuite secondo le norme della successione legittima.

Si ha per ciò un trattamento differenziato per i figli maggiorenni non viventi a carico, ai quali nel primo caso e non anche nel secondo non spetta l'indennità, sia iure proprio che secondo le norme della successione legittima. Ma tale differenziazione di trattamento, anche se non ha riscontro in una oggettiva ed importante diversità dei due rapporti, ha una. giustificazione razionale.

É vero che, come é rilevato dal giudice a quo, prima dell'entrata in vigore della legge 6 dicembre 1966, n. 1077, gli impiegati pubblici non di ruolo erano soggetti alle stesse assicurazioni obbligatorie (ed in particolare alla stessa assicurazione per i familiari superstiti) cui erano sottoposti i lavoratori privati, e che quindi da quella disciplina comune potrebbe trarsi un argomento a sostegno della pretesa irrazionabilità della norma denunziata. Ma dal complessivo esame della disciplina relativa ai diritti ed alle aspettative dei superstiti, emergono elementi tali per cui é possibile ritenere opportuna ed adeguata la normativa di cui si tratta.

Posto che, in armonia con precedenti pronunce di questa Corte (sentenze nn. 75 e 112 del 1968), deve ritenersi che l'indennità (d'anzianità), dovuta in caso di cessazione del rapporto di impiego o di lavoro per morte del lavoratore, pur facendo parte del complessivo trattamento retributivo del lavoro, rifletta al tempo stesso un'esigenza di carattere previdenziale, va notato che destinatari e beneficiari di quel trattamento sono sostanzialmente persone legate al lavoratore da un obbligo di mantenimento o dal fatto del mantenimento, e gode di particolare considerazione lo stato di bisogno di ciascuna di esse. Ed infatti, a sensi dell'art. 2 della legge 4 aprile 1952, n. 218 (che ha sostituito l'art. 13 del r.d.l. 14 aprile 1939, n. 636), la pensione da parte dell'INPS é dovuta "al coniuge ed ai figli superstiti che al momento della morte dell'assicurato non abbiano superato l'età di 18 anni e non esercitino alcuna attività lavorativa, ed ai figli di qualunque età riconosciuti inabili al lavoro ed a carico del genitore al momento del decesso di questo"; e, in caso di morte dell'impiegato privato ed in forza dell'art. 13 del r.d.l. 13 novembre 1924, n. 1825, l'indennità c.d. di licenziamento spetta al coniuge ed ai congiunti non oltre il quarto grado che vivevano a carico dell'impiegato stesso.

Alla luce di tali norme non appare per ciò irrazionale che il legislatore con la norma denunziata abbia voluto, nella ipotesi di cessazione del rapporto pubblico non di ruolo per morte del dipendente, riservare l'indennità ai figli maggiorenni solo se viventi a carico del dipendente deceduto.

3. - Non si può ritenere d'altra parte che la disciplina de qua incida negativamente sul diritto alla giusta retribuzione garantito dall'art. 36 della Costituzione.

Non é infatti dimostrabile che le persone diverse da quelle specificamente previste dalla norma denunciata e legate al dipendente deceduto da un rapporto (di parentela o di affinità) astrattamente rilevante si trovino nella condizione necessaria e sufficiente per poter legittimamente aspirare alla titolarità del diritto in questione. Basta considerare che il diritto all'indennità di anzianità sorge solo all'atto (ed in dipendenza) della cessazione del rapporto e quindi in quanto tale non entra a far parte del patrimonio del lavoratore prima della di lui morte. Di conseguenza, in caso di cessazione del rapporto per morte del lavoratore, l'interesse dei superstiti e, tra gli altri, dei figli maggiorenni (non viventi a carico), é oggetto, in generale, di una autonoma tutela (che non deriva da quella accordata all'interesse del lavoratore, in caso di cessazione del rapporto per altra causa); e codesta tutela, in forza della quale ai soggetti diversi da quelli specificamente previsti dalla norma denunciata non spetta l'indennità de qua, risulta per le considerazioni sopra svolte razionalmente giustificata.  

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 9, terzo comma, del D.L.C.P.S. 4 aprile 1947, n. 207 (sul trattamento giuridico ed economico del personale civile non di ruolo in servizio nelle amministrazioni dello stato), sollevata, con l'ordinanza indicata in epigrafe, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione.  

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 novembre 1970.

Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI

  

Depositata in cancelleria il 2 dicembre 1970