Sentenza n. 75 del 1968
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SENTENZA N. 75

ANNO 1968

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Aldo SANDULLI, Presidente

Dott. Antonio MANCA

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI,

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 2120, primo comma, del Codice civile, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 4 luglio 1966 dal Tribunale di Roma nel procedimento civile vertente tra Gualtieri Ada e la soc. r.l. "Docere", iscritta al n. 215 del Registro ordinanze 1966 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 324 del 24 dicembre 1966;

2) ordinanza emessa il 19 novembre 1966 dal Tribunale di Roma nel procedimento civile vertente tra Gallo Francesco e l'istituto d'istruzione media "Mons. E. Tozzi", iscritta al n. 8 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51 del 25 febbraio 1967;

3) ordinanza emessa il 4 ottobre 1967 dal Tribunale di Siena nel procedimento civile vertente tra Ghiribelli Francesco e Castelli Mandosi Mignanelli Adele, iscritta al n. 254 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 321 del 23 dicembre 1967;

4) ordinanza emessa il 14 novembre 1967 dal Tribunale di Lucca nel procedimento civile vertente tra Giannini Franca e Cerrini Tullio, iscritta al n. 267 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24 del 27 gennaio 1968;

5) ordinanze emesse il 10 ed il 17 novembre 1967 dalla Corte suprema di cassazione - sezione 2 civile - nei procedimenti civili vertenti tra Cremonesi Erminio e l'Azienda tramviaria municipale di Milano e tra Bertuccio Sebastiano e Abbate Giovanni, iscritte ai nn. 17 e 18 del Registro ordinanze 1968 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 65 del 9 marzo 1968.

Visti gli atti di costituzione di Gualtieri Ada, Gallo Francesco, eredi di Cremonesi Erminio, Bertuccio Sebastiano, società "Docere" e istituto "Mons. E. Tozzi";

udita nell'udienza pubblica del 21 maggio 1968 la relazione del Giudice Costantino Mortati;

uditi l'avv. Pasquale d'Abbiero, per Gualtieri e Gallo, l'avv. Ugo Di Segni, per gli eredi Cremonesi, l'avv. Giuseppe Di Stefano, per Bertuccio, e l'avv. Domenico Cipollone, per la società "Docere" e l'istituto "Mons. E. Tozzi".

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Con atto di citazione 25 febbraio 1964 la prof. Ada Gualtieri in Turchetti citava innanzi al Tribunale di Roma la S.r.l. "Docere", ente gestore dell,istituto d'istruzione media "Mons. E. Tozzi", per sentirla condannare al pagamento di una somma che affermava esserle dovuta ad integrazione della retribuzione corrispostale durante il periodo in cui aveva prestato servizio presso detto istituto in qualità di insegnante di materie letterarie, retribuzione a suo avviso inadeguata rispetto al disposto dell'art. 36 della Costituzione, e tra le varie componenti della somma richiesta ne comprendeva una concernente la differenza fra l'indennità di anzianità effettivamente percepita e quella che sarebbe stata dovuta. Avendo la convenuta eccepito che, a norma dell'art. 2120, primo comma, del Codice civile, tale indennità non spettava alla Gualtieri per essersi costei spontaneamente dimessa, il Tribunale, con ordinanza 4 luglio 1966, sollevava, su istanza di parte attrice, questione di legittimità costituzionale di detta norma, osservando che non appariva manifestamente infondata la tesi della violazione dell'art. 36 (ritenendosi l'indennità di anzianità quota parte della retribuzione) e dell'art. 3 (dato che ai dipendenti statali tale indennità é riconosciuta dalla legge, anche in caso di dimissioni).

Dopo la regolare notifica, comunicazione e pubblicazione dell'ordinanza nella Gazzetta Ufficiale n. 324 del 24 dicembre 1966, ambedue le parti private si sono costituite avanti la Corte. Nell'atto di costituzione depositato il 5 gennaio 1967, l'avv. prof. Pasquale D'Abbiero fa rilevare, per l'attrice, che, nelle more del giudizio, l'art. 2120 é stato modificato dall'art. 9 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il quale ha stabilito che l'indennità di anzianità é dovuta al prestatore d'opera in ogni caso di risoluzione del rapporto di lavoro, ma che, poiché é dubbio se tale norma si applichi anche ai rapporti cessati prima della sua entrata in vigore, permane l'interesse delle parti a veder decisa la questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale. Nel merito osserva che l'abrogazione della norma impugnata costituisce una conferma della sua illegittimità e illustra gli argomenti già svolti nell'ordinanza del Tribunale, nonché altri relativi alla assenta violazione degli artt. 2 e 4 e dell'art. 35, primo e secondo comma, della Costituzione. Di questi ultimi, quelli relativi agli artt. 2 e 4 si fondano sull'osservazione che la possibilità di perdere l'indennità di anzianità rappresenterebbe per il lavoratore un ostacolo all'esercizio del diritto-dovere di assumere un lavoro "secondo le proprie possibilità e la propria scelta"; l'altro sulla considerazione che il lavoratore il quale abbia elevato la sua qualifica professionale e non possa utilizzarla nell'azienda in cui é occupato sarebbe costretto dalla norma impugnata a perdere l'indennità di anzianità se decidesse di scegliere un altro posto di lavoro più consono alle sue possibilità. Conclude chiedendo che la Corte dichiari la fondatezza della questione a essa sottoposta.

L'avv. Domenico Cipollone, per la convenuta, argomenta invece, nelle deduzioni depositate il 5 gennaio 1967, l'infondatezza della questione, negando, in tesi, che l'indennità di anzianità costituisca integrazione della retribuzione (rifacendosi alle decisioni della Cassazione n. 971 del 1961 e n. 1229 del 1963), anziché una forma di previdenza sotto forma di premio attribuito ex post per la fedeltà e l'attaccamento al datore di lavoro, e che essa possa quindi rientrare nella previsione dell'art. 36 della Costituzione. Ma alla stessa conclusione si dovrebbe pervenire anche ove si ammettesse il carattere retributivo dell'indennità di anzianità, poiché l'art. 36 della Costituzione riguarderebbe soltanto le prestazioni che il lavoratore riceve nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, e non anche quelle successive alla sua estinzione, come sarebbe dimostrato anche dal fatto che l'indennità di anzianità non potrebbe assicurare da sola al lavoratore ed alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa (Cassazione, sentenze n. 1229 e n. 2250 del 1963). Il principio della parità di trattamento delle retribuzioni, non sarebbe da confondersi col principio di eguaglianza di cui all'art. 3, né colla garanzia del diritto-dovere al lavoro di cui all'art. 4. L'art. 2120 del Codice civile, non opera una discriminazione fra determinati gruppi di lavoratori, ma detta, al contrario, una disciplina unitaria per eguali condizioni oggettive e soggettive, né apporta alcuna effettiva limitazione alla libertà del lavoratore, il quale resta pienamente arbitro di scegliere, senza vincoli di sorta, la via che ritiene più conveniente per lo sviluppo della propria personalità.

In una memoria depositata il 7 maggio 1968, la difesa dell'attrice illustra ulteriormente i motivi dedotti a sostegno dell'incostituzionalità della norma impugnata, ed in particolare fa rilevare come la natura retributiva dell'indennità di anzianità sia stata presupposta dalla sentenza di questa Corte n. 3 del 1966, mentre con la sentenza n. 78 del 1967 é stato chiarito che la Costituzione vieta che i lavoratori siano privati del trattamento retributivo ad essi spettante per qualsiasi causa, e quindi non solo nel caso di licenziamento per colpa, ma anche in quello di dimissioni volontarie e che di questo spirito é espressione l'art. 9 della legge n. 604 del 1966, che ha modificato l'art. 2120 del Codice civile. Alla sentenza n. 3 del 1966 egli si richiama inoltre anche per quanto riguarda la dedotta violazione dell'art. 3 della Costituzione, dato che agli impiegati statali l'indennità una tantum é concessa anche in caso di dimissioni (art. 125 del T.U. 10 gennaio 1957, n. 3). Illustra poi gli altri motivi di incostituzionalità della norma impugnata, già sopra ricordati, e ribadisce le conclusioni già enunciate.

Anche la difesa della convenuta ha depositato, in data 8 maggio 1968, una memoria nella quale insiste perché la questione sia dichiarata infondata, sostenendo che il fatto dell'estensione del diritto all'indennità de qua al caso delle dimissioni volontarie, disposta dalla contrattazione collettiva, non ne ha trasformato la natura nel senso di farla considerare retribuzione differita, anziché secondo la sua effettiva funzione, che é di copertura del rischio della perdita del posto di lavoro. Tale indole, non retributiva ma previdenziale, sarebbe confermata dal confronto fra la disciplina dell'indennità di anzianità prevista con riferimento al contratto di prestazione d'opera e le analoghe statuizioni riguardanti il contratto di assicurazione sulla vita, che prevede la perdita della corresponsione delle somme pel rischio oggetto dell'assicurazione, ove l'assicurato receda volontariamente dal contratto, salvo che non sia stato espressamente stipulato un patto di riscatto. Insiste per la dichiarazione di infondatezza della questione.

2. - Con altra ordinanza pronunciata il 19 novembre 1966 nella causa promossa dal prof. Francesco Gallo contro la stessa società "Docere", il medesimo Tribunale sollevava nei confronti della stessa norma (ma rispetto al solo art. 36 della Costituzione) una analoga questione fondata sul medesimo argomento, tratto dal carattere retributivo dell'indennità.

Dopo che anche questa ordinanza era stata regolarmente notificata, comunicata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 51 del 25 febbraio 1967, ambedue le parti private si costituivano avanti la Corte svolgendo deduzioni identiche a quelle viste in relazione alla precedente ordinanza di rimessione.

3. - Con atto di citazione notificato il 30 settembre 1959, Ghiribelli Francesco conveniva avanti il Tribunale di Siena Adele Castelli Mandosi Mignanelli per ottenere il pagamento di varie somme fra cui lire 1.988.733 per indennità di anzianità, che affermava essergli dovute in seguito alle prestazioni di lavoro svolte alle dipendenze della convenuta. Avendo questa eccepito la perdita del diritto all'indennità, ai sensi dell'art. 27 del contratto collettivo 21 ottobre 1958, per avere il Ghiribelli dato giusta causa al licenziamento per gravi mancanze (risultanti tra l'altro da un processo penale in seguito al quale egli era stato prosciolto per amnistia dal reato di appropriazione indebita aggravata continuata), il Tribunale osservava, nell'ordinanza in data 4 ottobre 1967, che la perdita o la mancata insorgenza, a favore del Ghiribelli, del diritto all'indennità di anzianità, non deriverebbe tanto dall'art. 27 del contratto collettivo citato dalla convenuta, quanto dall'articolo 2120, primo comma, del Codice civile, e, propostasi d'ufficio la questione di legittimità costituzionale di tale norma, nel punto in cui stabilisce che non spetta l'indennità di anzianità in caso di licenziamento per colpa del lavoratore, ne ravvisava la rilevanza e la non manifesta infondatezza con riferimento all'art. 36 della Costituzione, anche in considerazione dell'affermazione circa il carattere retributivo del trattamento di quiescenza contenuta nelle sentenze della Corte costituzionale n. 3 del 1966 e n. 78 del 1967. Osservando poi che la legge 8 giugno 1966, n. 434, ha abrogato le norme che stabiliscono, con riferimento ai pubblici impiegati, la perdita del diritto alla pensione, assegno o indennità nel caso in cui abbiano riportato determinate condanne, ravvisava la non manifesta infondatezza anche della questione relativa alla stessa norma, in relazione all'art. 3 della Costituzione.

L'ordinanza é stata regolarmente notificata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 321 del 23 dicembre 1967, ma nessuno si é costituito avanti la Corte.

4. - Analoga questione sorgeva altresì nel corso di una controversia vertente fra Giannini Franca e Cerrini Tullio avanti il Tribunale di Lucca, nella cui ordinanza del 14 novembre 1967 si svolgono simili argomentazioni e si dà espressamente atto che il sopravvenuto art. 9 della legge n. 604 del 1966 non ha effetto rispetto ai rapporti sorti anteriormente alla sua entrata in vigore, per cui non può dubitarsi dell'applicabilità dell'art. 2120 alla causa da decidere e quindi della non manifesta infondatezza della medesima in riferimento all'art. 36 della Costituzione.

L'ordinanza é stata regolarmente comunicata, notificata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 24 del 27 gennaio 1968, ma nessuno si é costituito nel giudizio avanti la Corte costituzionale.

5. - Sempre con riferimento all'ipotesi del licenziamento per colpa, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2120, primo comma, del Codice civile, é stata sollevata altresì nell'ordinanza 10 novembre 1967 della Corte di cassazione (pronunciata sulle conformi conclusioni del Procuratore Generale in relazione ad una causa in corso fra Cremonesi Erminio e l'Azienda tramviaria municipale di Milano), con riferimento al solo art. 36 della Costituzione. Nel provvedimento, succintamente motivato, si dà atto del carattere non retroattivo della legge n. 604 del 1966.

Dopo che l'ordinanza é stata regolarmente notificata, comunicata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 65 del 9 marzo 1968, si sono costituiti davanti la Corte costituzionale gli eredi del Cremonesi - deceduto il 13 marzo 1967 - per i quali l'avv. Ugo Di Segni, nelle deduzioni depositate il 27 marzo 1968, ha svolto, a favore della dichiarazione d'illegittimità costituzionale, argomentazioni simili a quelle viste in relazione alle altre cause.

6. - Analoga questione, infine, veniva sollevata d'ufficio, tanto con riferimento all'art. 36 che all'art. 3 della Costituzione, in altra ordinanza della Corte di cassazione, pronunciata il 17 novembre 1967 nel procedimento civile tra Bertuccio Sebastiano e Abbate Giovanni, nella quale si richiama la sentenza di questa Corte n. 3 del 1966 e si fa altresì riferimento alla legge n. 604 del 1966, giudicata peraltro inapplicabile alla causa in corso, sia per la sua irretroattività, sia perché riguardante datori di lavoro che occupano più di 35 dipendenti, ma tuttavia rilevante per configurare una violazione dell'art. 3 della Costituzione da parte dell'art. 2120, se la perdita del diritto all'indennità si dovesse far dipendere dalle minori proporzioni della impresa cui il lavoratore é addetto.

Dopo che l'ordinanza é stata regolarmente notificata, comunicata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 65 del 9 marzo 1968, si sono costituiti avanti la Corte costituzionale, per il Bertuccio, gli avvocati Aurelio Becca e Giuseppe Di Stefano i quali, nell'atto di costituzione depositato il 26 marzo 1968, hanno sostenuto che il giudizio della Corte dovrebbe estendersi anche all'art. 2118 del Codice civile per la parte riferentesi al datore di lavoro ed agli artt. 1 e 9 della legge n. 604 del 1966 (ritenuta applicabile alla causa in corso in virtù del principio secondo il quale le norme incostituzionali sarebbero nulle ab origine, principio del quale crede di trovare conferma nella citata sentenza di questa Corte n. 78 del 1967. Aggiunge che anche l'art. 11 della legge n. 604 stabilisce che per le imprese che non occupano più di 35 dipendenti debba tuttavia sempre farsi salvo l'impero degli artt. 4 e 9, il quale ultimo si riferisce appunto all'indennità di anzianità, mentre dovrebbe ritenersi incostituzionale la parte dell'art. 11 in parola che esclude dalle altre provvidenze i lavoratori delle imprese minori. Conclude chiedendo che sia dichiarata l'infondatezza della questione.

 

Considerato in diritto

 

1. - Le sei cause, discusse nella stessa udienza, avendo ad oggetto le medesime questioni, sono riunite per la loro decisione con unica sentenza.

2. - La questione é fondata. La disposizione denunciata dell'art. 2120 del Codice civile é stata abrogata con la legge 15 luglio 1966, n. 604, che, nel disciplinare ex novo la materia dei licenziamenti individuali nei rapporti di lavoro a tempo indeterminato, ha, nel suo art. 9, disposto l'obbligo del datore di corrispondere al lavoratore l'indennità di anzianità in qualsiasi caso di cessazione del rapporto, anche se per colpa di lui o per dimissioni volontarie. Ma poiché la disposizione richiamata esplica efficacia solo dal giorno successivo alla pubblicazione della legge (7 agosto 1966) e la risoluzione dei rapporti lavorativi, dei quali é controversia nei giudizi in corso avanti ai giudizi di merito, risalgono ad epoca anteriore alla predetta, si presenta rilevante, per gli eventuali diritti maturati nel frattempo, la questione sollevata in ordine al citato primo comma dell'art. 2120 del Codice civile.

Appare evidente che l'indennità di anzianità riveste carattere retributivo, costituendo parte del compenso dovuto pei lavoro prestato, la cui corresponsione viene differita al momento della cessazione del rapporto allo scopo di agevolare al lavoratore il superamento delle difficoltà economiche, possibili ad insorgere pel venir meno del salario. Tale finalità d'ordine pratico che sta a base del differimento del pagamento (e che giustifica altresì la parziale deroga alle norme di diritto comune, in caso di morte del lavoratore, quale risulta dall'art. 2122, primo comma, Cod. civ.), non incide in alcun modo sulla natura giuridica dell'indennità, la cui misura é da determinare in proporzione alla durata del lavoro prestato (quale che essa sia); nonché al complesso delle retribuzioni di carattere continuativo dovuto al dipendente, secondo i criteri indicati dall'art. 2121, e senza che si possa in nessun modo distinguere secondo il motivo (colpa del lavoratore - o dimissioni volontarie) che dà luogo alla risoluzione.

Il diritto in questione (alla pari di quello avente ad oggetto pensioni o assegni a carico dello Stato e di enti pubblici, secondo statuito da questa Corte con la sentenza n. 3 del 1966) deve quindi farsi discendere dai principi consacrati nell'art. 36 della Costituzione ed informarsi ad essi. Non vale dire in contrario, come si fa dalla difesa dei resistenti che l'indennità, di per sé, può non essere sufficiente ad assicurare la libertà e dignità dell'esistenza secondo richiesto dal citato art. 36 della Costituzione poiché la sua funzione é solo integrativa di quella propria del salario nel senso che si é prima chiarito.

D'altra parte la corresponsione della indennità medesima, appunto perché giova, almeno di norma, a far fronte alle contingenti difficoltà che possono a volte presentarsi nel trapasso da uno ad altro rapporto di lavoro non incide comunque sul diritto al conseguimento delle diverse prestazioni di carattere previdenziale, invocabili, allorché ne ricorrano i presupposti, secondo le norme di cui all'art. 38.

Deve ritenersi fondata anche la censura contro la norma denunciata che l'ordinanza del Tribunale di Siena e la seconda emessa dalla Corte di cassazione fanno derivare dalla violazione dell'art. 3, per la già rilevata discordanza della norma stessa con quella vigente (oltre che per i rapporti di lavoro di diritto pubblico, cui si é riferita la citata sentenza n. 3 del 1966 e la successiva n. 78 del 1967) per gli altri di diritto privato pei quali la pretesa all'indennità sia sorta dopo l'errata in vigore della legge n. 604.

Quanto poi al riferimento, contenuto nella seconda ordinanza della Corte di cassazione, all'art. 11 della legge n. 604, si deve rilevare come (a parte la considerazione dell'inapplicabilità della legge stessa ai rapporti anteriori) questo si sottragga alla censura ivi formulata, dato che in ogni caso, quale che sia il numero dei dipendenti occupati nell'azienda, é fatta salva la disposizione dell'art. 9, riguardante la corresponsione dell'indennità.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 2120, primo Comma, del Codice civile, nella parte in cui, nel caso di cessazione del contratto di lavoro a tempo indeterminato, esclude il diritto del prestatore di lavoro ad un'indennità proporzionale agli anni di servizio, allorquando la cessazione stessa derivi dal licenziamento per colpa di lui o da dimissioni volontarie.

 Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 giugno 1968.

 

 

Aldo SANDULLI - Antonio MANCA - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI

 

 

Depositata in cancelleria il 27 giugno 1968.