Sentenza n. 33 del 1970
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SENTENZA N. 33

ANNO 1970

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

                                                                                                                                                

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI

Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo MICHELE TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 92 del codice penale, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 1 marzo 1969 dal pretore di Roma nel procedimento penale a carico di Baldini Pio, iscritta al n. 188 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 145 dell' 11 giugno 1969;

2) ordinanza emessa il 3 marzo 1969 dalla Corte d'assise di Padova nel procedimento penale a carico di Piovan Giorgio, iscritta al n. 313 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 207 del 13 agosto 1969;

3) ordinanza emessa il 10 settembre 1969 dal tribunale di Livorno nel procedimento penale a carico di Ventura Francesco, iscritta al n. 397 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 280 del 5 novembre 1969.

Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udito nell'udienza pubblica del 14 gennaio 1970 il Giudice relatore Enzo Capalozza;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Giovanni Albisinni, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nel corso di un procedimento penale promosso con il rito del giudizio direttissimo a carico di Pio Baldini, per oltraggio ad un agente di pubblica sicurezza, il pretore di Roma, essendo risultato che l'imputato aveva commesso il fatto in istato di ebbrezza alcoolica, con ordinanza del 1 marzo 1969, sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 92 del codice penale, in riferimento all'art. 27 della Costituzione.

Osserva il pretore che la norma denunziata, nel tener ferma - in deroga al principio fissato nell'art. 85 del codice penale - l'imputabilità per i reati commessi in istato di ubriachezza volontaria o colposa, escluderebbe ogni indagine sulla capacità di intendere e di volere dell'imputato, e violerebbe il canone della responsabilità personale in materia penale, espresso nel primo comma del ridetto art. 27 e risultante anche dal coordinamento di tale canone con altri accolti nella Costituzione.

Deduce, al riguardo, che nella nozione di responsabilità penale, si é sempre presupposta e ricompresa la capacità di intendere e di volere e che é stata, come tale, assunta ed intesa dal legislatore costituente, il quale avrebbe ulteriormente limitato la discrezionalità del legislatore ordinario quanto alla sua configurazione, sia con il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo - fra i quali sarebbe da annoverare quello di non essere punito quando, al momento della condotta addebitata, manchi la capacità di autodeterminazione - sia con l'affermazione del principio di eguaglianza, che non consentirebbe, in tema di ubriachezza - che é tale da annullare o quanto meno da scemare la capacità di intendere e di volere - di discriminare tra l'ubriachezza fortuita, che, ai sensi dell'art. 91 del codice penale, consente l'indagine su tale capacità, e l'ubriachezza volontaria o colposa che, invece, non la consente e che conduce automaticamente a porre a carico dell'ebbro il reato commesso.

Ricorda, inoltre, il pretore il recente progetto di riforma del codice penale che configura l'ubriachezza come attenuante; fa presente che, secondo un affermato orientamento giurisprudenziale della cassazione, la norma denunziata, in deroga all'art. 42 del codice penale, escluderebbe pure l'indagine sulla coscienza e volontà; e ribadisce, infine, la violazione dell'art. 27, primo comma, della Costituzione, secondo l'interpretazione datane da questa Corte, e risultante anche dagli altri due principi espressi nel secondo e terzo comma dello stesso art. 27, i quali presuppongono la partecipazione psichica dell'autore al fatto delittuoso.

L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiate n. 145 dell' 11 giugno 1969.

Nel giudizio innanzi a questa Corte é intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con atto depositato il 1 luglio 1969, nel quale si chiede che la questione sia dichiarata non fondata.

Dopo aver accennato alle ragioni di politica criminale della norma denunziata ed ai diversi orientamenti dottrinali intesi a precisare a quale titolo sia da ascrivere il reato commesso in istato di ubriachezza volontaria o colposa, anche l'Avvocatura si richiama alle sentenze di questa Corte sull'art. 27 della Costituzione e sostiene che, secondo la dominante giurisprudenza della cassazione e la dottrina prevalente, devesi sempre aver riguardo all'atteggiamento psicologico, quantunque abnorme, riferito al momento in cui fu realizzata l'attività penalmente illecita, cioè al momento in cui fu commesso il reato (e non a quello della fase precedente, nella quale l'agente si sia posto nello stato di ubriachezza), di guisa che, neppure nell'ipotesi di ubriachezza volontaria o colposa, sarebbe esclusa l'indagine sulla coscienza e volontà dell'azione; e ciò contrariamente a quanto si assume nell'ordinanza, che avrebbe, invece, confuso tra il concetto di imputabilità, da considerare indipendentemente dalla commissione del reato, e quello di responsabilità, comprensivo anche della colpevolezza, senza della quale non v'é rapporto di causalità psichica tra la condotta e l'evento.

2. - Altra questione di legittimità costituzionale del primo comma del citato art. 92 del codice penale, é stata sollevata in riferimento agli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, con ordinanza del 3 marzo 1969, dalla Corte d'assise di Padova, nel corso di un procedimento penale a carico di Giorgio Piovan, imputato di omicidio aggravato, ai sensi degli artt. 575 e 577, in relazione all'art. 61, n. 4, del codice penale, commesso in istato di totale ubriachezza.

Anche in tale ordinanza si assume che la norma denunziata profilerebbe un'ipotesi di presunzione legale di responsabilità penale; si fa richiamo alla giurisprudenza di questa Corte sulla nozione di responsabilità personale in materia penale, nonché alla funzione rieducativa della pena, che sarebbe da applicare soltanto a chi ha commesso il reato in istato di effettiva imputabilità. Per quanto concerne l'interpretazione della norma denunziata, si sostiene, poi, che secondo la costante giurisprudenza, chi commette un reato doloso in istato di ubriachezza volontaria ne risponde a titolo di dolo, pur avendo voluto soltanto la ubriachezza e non - stante il suo stato di incapacità naturale - anche il reato commesso.

La violazione del principio di eguaglianza viene, infine, prospettata con riferimento all'ipotesi di chi, pur trovandosi in condizioni personali di eguale incapacità, non incorrerebbe nella presunzione di imputabilità.

L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 207 del 13 agosto 1969.

Nel giudizio innanzi a questa Corte non vi é stata costituzione di parte.

3. - Un'ulteriore questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 92 del codice penale, in riferimento all'art. 27 della Costituzione, é stata, da ultimo, sollevata dal tribunale di Livorno, con ordinanza del 10 settembre 1969, emessa nel corso di un procedimento penale a carico di Francesco Ventura, imputato del reato di oltraggio a pubblico ufficiale, commesso in istato di ubriachezza non accidentale.

A sostegno della non manifesta infondatezza della questione, si deduce che l'azione compiuta dall'ubriaco, in molti casi - al pari di quelle dell'infermo totale di mente - é a lui riferibile solo sul piano della causalità materiale e non su quello della causalità psichica. Sarebbe, pertanto, assurdo e illogico il suo assoggettamento a sanzione penale, che non potrebbe trovare spiegazione neppure con riferimento all'atteggiamento psichico che ebbe a determinare l'ubriachezza, dato che, secondo la giurisprudenza, per stabilire se il fatto sia da imputare a titolo di dolo o di colpa, sarebbe da valutare l'atteggiamento della volontà al momento del fatto di reato, commesso in istato di ubriachezza.

Si osserva, ancora, che la circostanza che l'ubriachezza sia stata determinata dall'agente volontariamente o colposamente potrebbe giustificare un più rigoroso trattamento dell'ubriachezza in quanto tale, ma non legittima l'attribuzione della paternità psichica di un'azione od omissione che può da lui non essere voluta e di cui, comunque, l'ebbro non era in grado di valutare, in tutto o in parte, le conseguenze.

Si deduce, da ultimo, che la norma denunziata, a differenza di quanto l'ordinamento dispone per l'ubriachezza fortuita, statuirebbe, per quella volontaria e colposa - allo scopo di combattere la piaga dell'alcoolismo - una presunzione di imputabilità e porrebbe in essere una vera e propria finzione giuridica, posto che é priva di senso la valutazione dell'atteggiamento psichico di una mente sconvolta. Tutto ciò in violazione dell'art. 27 della Costituzione, che sancirebbe l'esclusione di una responsabilità penale in assenza di quel minimo di capacità di intendere e di volere che consente l'autodeterminazione.

L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 280 del 5 novembre 1969.

Nel giudizio innanzi a questa Corte non vi é stata costituzione di parte.

 

Considerato in diritto

 

1. - Data l'identità della materia, le questioni sollevate dalle tre ordinanze del pretore di Roma, della Corte d'assise di Padova e del tribunale di Livorno, possono essere decise con unica sentenza.

2. - L'ordinanza del pretore di Roma e quella del tribunale di Livorno hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 92 del codice penale, in riferimento, genericamente, all'art. 27 della Costituzione, mentre l'ordinanza della Corte d'assise di Padova, oltre a richiamarsi anche all'art. 3, specifica che l'art. 27 sarebbe violato sia nel primo che nel terzo comma.

3. - La prima questione da esaminare, in ordine logico, attiene all'art. 3, il quale importa che situazioni diverse siano disciplinate in modo diverso: in tale senso é la giurisprudenza costante di questa Corte. Si assume che l'art. 92 del codice penale (del quale é in discussione il primo comma) violerebbe esso art. 3, perché l'ubriachezza volontaria o colposa, pur producendo incapacità (totale o parziale) di intendere e di volere, non esclude l'imputabilità, contrariamente a quanto é statuito per l'infermo di mente (artt. 88 e 89 cod. pen.) e per l'ubriaco accidentale (art. 91 cod. pen.).

Gli é che non può negarsi, da un lato, che l'incapacità naturale, totale o parziale (per infermità di mente), configuri una situazione fenomenicamente ed etiologicamente diversa dall'ubriachezza; dall'altro, che i fatti di reato commessi in stato di ubriachezza non possano essere sottoposti ad una disciplina unitaria, stante la varietà degli atteggiamenti che assumono i soggetti allorché cadono, o si pongono, in tale stato.

Insomma, la ragione della differente normativa tra ubriachezza derivata e ubriachezza non derivata da caso fortuito o da forza maggiore sta nell'intento del legislatore di prevenire e reprimere l'ubriachezza come male sociale e, soprattutto, come situazione che, in certi soggetti, può spingere al delitto. Il che basta per giustificare, sotto il profilo costituzionale, la norma impugnata: l'ubriaco, che abbia commesso un reato, risponde per una condotta antidoverosa, cioè per essersi posto volontariamente o colposamente in condizione di commetterlo.

Quali che siano le opinioni dottrinarie in materia (ed è noto che il progetto di riforma del 1949-1950 intendeva perseguire i reati commessi in stato di ubriachezza volontaria o colposa esclusivamente a titolo di colpa, mentre il disegno di legge del 1968, al pari di quelli del 1956 e del 1960, considera quello stato come causa di diminuzione facoltativa della pena, avvicinandosi al sistema del codice Zanardelli, ove, però, la diminuzione era obbligatoriamente prescritta), in realtà, l'ebbro é qui imputabile per la volontarietà o colposità dell'ubriachezza: ciò che spiega, ripetesi, la differenza di normazione rispetto al vizio di mente e all'ubriachezza accidentale.

La norma ha, bensì, dato e ancora dà luogo a critiche severe sul piano della logica e della psicopatologia, ma, considerata in relazione al fine, non può dirsi viziata di irragionevolezza. Pertanto, la questione, alla stregua dell'art. 3 della Costituzione, é infondata.

4. - Neppure l'art. 27, primo comma, della Costituzione, risulta violato.

Chi si ubriaca (per sua volontà o per sua colpa) e commette un reato risponde, in verità, di un proprio comportamento (arg. dalla sentenza n. 42 del 1965).

Se, poi, si riguardasse lo stato di incapacità di intendere e di volere dell'ubriaco, per dedurne che, ex art. 27, primo comma, verrebbe meno l'imputabilità, sarebbe facile replicare ancora una volta, da un lato, che il genus colpevolezza (distinto nelle due species del dolo e della colpa in senso stretto) sussiste nel comportamento iniziale (che ha provocato l'ubriachezza); dall'altro, che il precetto costituzionale non esclude che sia responsabilità personale per fatto proprio quella di chi, incapace nel momento in cui commette il reato, non lo sia stato quando si é posto in condizione di commetterlo.

5. - La norma impugnata non contrasta neppure col secondo comma dell'art. 27 della Costituzione, dato che essa non pone una presunzione di colpevolezza da valere in giudizio. Né viola il terzo comma: infatti, la pena irrogata per il reato commesso da chi versi in stato di ubriachezza volontaria o colposa non differisce da quella a cui soggiace ogni altro autore di reato; né può ritenersi non emendativa, cioè non può contestarsi che essa sia diretta ad attivare, nel condannato, una controspinta all'abuso dell'alcool (ubriachezza volontaria) o a provocare un energico richiamo alla temperanza e alla prudenza (ubriachezza colposa).

Spetterà al giudice di merito sia valutare, caso per caso, se si tratti di ubriachezza colposa o di ubriachezza accidentale; sia, del pari, accertare di volta in volta, secondo la giurisprudenza corrente, il titolo di colpevolezza (dolo o colpa), sulla base dell'atteggiamento psicologico in concreto assunto dall'ubriaco al momento nel quale commise il fatto.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 92, primo comma, del codice penale, proposta dalle ordinanze citate in epigrafe, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 febbraio 1970.

Giuseppe BRANCA  -  Michele FRAGALI  -  Costantino MORTATI  -  Giuseppe CHIARELLI  -  Giuseppe VERZÌ  -  Giovanni BATTISTA BENEDETTI  -  Francesco PAOLO BONIFACIO  -  Luigi OGGIONI  -  Angelo DE MARCO  -  Ercole ROCCHETTI  -  Enzo CAPALOZZA  -  Vincenzo MICHELE TRIMARCHI  -  Vezio CRISAFULLI  -  Nicola REALE  -  Paolo ROSSI

 

Depositata in cancelleria il 4 marzo 1970.