Sentenza n. 42 del 1965
 CONSULTA ONLINE 

 

SENTENZA N. 42

ANNO 1965

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. GASPARE AMBROSINI, Presidente

Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO

Prof. ANTONINO PAPALDO

Prof. NICOLA JAEGER

Prof. BIAGIO PETROCELLI

Prof. ALDO SANDULLI

Prof. GIUSEPPE BRANCA

Prof. MICHELE FRAGALI

Prof. COSTANTINO MORTATI

Prof. GIUSEPPE CHIARELLI

Dott. GIUSEPPE VERZÌ

Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI

Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 116 del Codice penale, promosso con ordinanza emessa il 20 ottobre 1964 dalla Corte di assise di Roma nel procedimento penale a carico di Tutino Giovanni, Ferretti Amedino ed altri, iscritta al n. 181 del Registro ordinanze 1964 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 308 del 12 dicembre 1964.

Visti l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri e l'atto di costituzione in giudizio di Ferretti Amedino;

udita nell'udienza pubblica del 17 marzo 1965 la relazione del Giudice Biagio Petrocelli;

uditi gli avvocati Remo Pannain e Giuseppe Berlingieri, per Ferretti Amedino, e il vice avvocato generale dello Stato Dario Foligno, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

Nel corso del procedimento penale a carico di Tutino Giovanni ed altri davanti alla Corte di assise di Roma, la difesa di Ferretti Amedino, imputato di concorso in omicidio ai sensi dell'art. 116 del Codice penale, ha sollevato questione di legittimità costituzionale di detta norma in riferimento all'art. 27, primo comma, della Costituzione.

La Corte, ritenuta la questione non manifestamente infondata e rilevante ai fini del giudizio, con ordinanza del 20 ottobre 1964, ha rimesso gli atti alla Corte costituzionale.

Secondo l'ordinanza, l'art. 116 prevede una "ipotesi di concorso a titolo di responsabilità obiettiva per mero rapporto di causalità materiale tra l'evento non voluto e l'azione od omissione dell'imputato", responsabilità che sarebbe "ascritta per fatto non proprio", e quindi in contrasto col principio, sancito dall'art. 27, primo comma, della Costituzione, della personalità della responsabilità penale.

L'ordinanza é stata notificata, comunicata e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, n. 308 del 12 dicembre 1964.

Si sono costituiti in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, assistito dall'Avvocatura generale dello Stato, e la difesa del Ferretti, con atti di intervento e deduzioni depositati il 30 dicembre 1964.

L'Avvocatura dello Stato rileva, innanzi tutto, che, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, l'art. 27, primo comma, della Costituzione si limita a fissare il divieto della responsabilità penale per fatto altrui, "senza alcun riferimento al divieto della cosiddetta responsabilità oggettiva" (sentenza n. 107 del 1957). Osserva inoltre che la fattispecie prevista da tale norma non potrebbe mai risolversi in una ipotesi di responsabilità per fatto altrui, in quanto la norma richiede che fra l'azione e l'omissione del concorrente e l'evento diverso o più grave di quello da lui voluto sussista un rapporto di conseguenzialità.

L'Avvocatura conclude, pertanto, per il rigetto della eccezione di legittimità.

La difesa del Ferretti, nel costituirsi in giudizio, si é brevemente riportata ai motivi della ordinanza di rinvio.

Una esposizione più ampia dei propri argomenti si rinviene nella memoria depositata il 21 gennaio 1965.

La difesa fa precedere alcune considerazioni sulla interpretazione da darsi all'art. 27, primo comma, della Costituzione e, sul punto, giunge alla conclusione che "la ragion d'essere del divieto della responsabilità per fatto altrui é la stessa che sta a base del divieto della responsabilità per fatto proprio non colpevole". Di qui - ad avviso della difesa - la illegittimità costituzionale della norma impugnata, nel caso si voglia ritenere che questa preveda una ipotesi di responsabilità oggettiva.

Ma - sempre secondo la difesa - l'art. 116 prevede in realtà una ipotesi di responsabilità per fatto altrui.

Esso realizzerebbe "addirittura un caso di responsabilità per fatto altrui, in senso fisico, nel senso cioè, che il fatto appartenente esclusivamente ad un concorrente é posto a carico anche degli altri concorrenti, che nulla hanno operato in quel senso".

Nello stesso ordine di idee si rileva che "solo il dolo e la colpa possono ricollegare a un soggetto il fatto di un terzo, un'attività non realizzata dal soggetto stesso, un evento diverso da quello voluto", mentre "se taluno si é limitato a porre la causa senza volere l'effetto, il fatto suo é solo quello che si concreta nella causa; e di quel che segue potrà rispondere solo se vi é colpa".

Con memoria, depositata il 21 gennaio 1965, l'Avvocatura dello Stato ribadisce le argomentazioni dedotte nell'atto di costituzione.

 

Considerato in diritto

 

L'ordinanza della Corte di assise di Roma ravvisa nella norma dell'art. 116 del Codice penale una "ipotesi di concorso a titolo di responsabilità oggettiva, per mero rapporto di causalità materiale, tra l'evento non voluto e l'azione od omissione dell'imputato"; e soggiunge che tale responsabilità sarebbe "ascritta per fatto non proprio", e quindi in contrasto con l'art. 27, primo comma, della Costituzione, cioè col principio della personalità della responsabilità penale.

Ferma rimanendo la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale la responsabilità oggettiva non é responsabilità per fatto altrui, é da ritenere che con l'art. 116 del Codice penale, diversamente da quanto si afferma nell'ordinanza, non si versi nella ipotesi della responsabilità oggettiva, in quanto, secondo la interpretazione che negli ultimi anni, in numerose sentenze, ha data la Corte di cassazione, e che questa Corte ritiene di condividere, é necessaria, per questa particolare forma di responsabilità penale, la presenza anche di un elemento soggettivo.

Le interpretazioni immediatamente successive alla entrata in vigore del Codice furono strettamente influenzate dalla formulazione letterale della nuova disposizione; e ne derivarono per un certo tempo affermazioni piuttosto decise del principio della responsabilità oggettiva come fondamento della disposizione stessa. Tuttavia questa interpretazione non mancò di suscitare, fin dal principio, vive obiezioni.

Sebbene i suoi sostenitori abbiano sempre tentato di attenuarne in certa misura la portata, é innegabile che, a voler assumere come fondamento della responsabilità ex art. 116 unicamente il rapporto di causalità materiale, non si potrebbe, a stretto rigore, stabilito un tale rapporto, sfuggire a talune estreme conseguenze: a quella, soprattutto, di dover imputare all'agente, solo perché materiale conseguenza della sua azione, un reato non soltanto diverso o più grave di quello voluto, ma anche del tutto al di fuori, per sua natura, da ciò che sarebbe un prevedibile omogeneo sviluppo dell'azione concordata. La interpretazione dell'art. 116 in senso rigidamente oggettivo é pertanto apparsa giustamente alla Cassazione non conforme al vero spirito della norma, venendo a creare una forma di responsabilità del tutto contrastante col sistema e produttiva, oltre tutto, di conseguenze penali di sproporzionata gravità.

Di qui il graduale manifestarsi della tendenza a riconoscere nella responsabilità ex art. 116 un coefficiente di partecipazione anche psichica: tendenza che ha poi trovato negli ultimi anni, come si é detto, costante e decisa affermazione nella giurisprudenza. Né ciò può attribuirsi a una diversione tardiva da quella che fu la originaria interpretazione, in quanto significativi precedenti nello stesso senso si riscontrano in una parte notevole della dottrina sin dai primi anni dall'entrata in vigore del Codice, e traccia evidente ne presentano gli stessi lavori preparatori. Già, infatti, nella Relazione sul testo definitivo (pag. 71) si avvertiva che, "chi coopera ad un'attività criminosa può e deve rappresentarsi la possibilità che il socio commetta un reato diverso da quello voluto".

La interpretazione che in definitiva si é affermata nella giurisprudenza, pur tra qualche difformità e incertezza di formulazione, esige, sostanzialmente, come base della responsabilità ex art. 116 del Codice penale, la sussistenza non soltanto del rapporto di causalità materiale, ma anche di un rapporto di causalità psichica, concepito nel senso che il reato diverso o più grave commesso dal concorrente debba potere rappresentarsi alla psiche dell'agente, nell'ordinario svolgersi e concatenarsi dei fatti umani, come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto, affermandosi in tal modo la necessaria presenza anche di un coefficiente di colpevolezza.

Tale interpretazione questa Corte, accogliendo i motivi che la giurisprudenza ne ha via via esposti e sviluppati, ritiene di dover pienamente condividere, escludendo con ciò che l'art. 116 del Codice penale importi una violazione del principio della personalità della responsabilità penale: principio che nella partecipazione psichica dell'agente al fatto trova la sua massima affermazione. Essendo ciò sufficiente per riconoscere infondata la questione proposta, non é compito di questa Corte il delimitare particolarmente la natura e gli aspetti del coefficiente di colpevolezza che ricorre nella fattispecie dell'art. 116, né lo stabilire se dalla semplice colpa esso possa addirittura assurgere alla forma dolosa, nel qual caso, é anche dubbio che si rientri nella ipotesi del predetto art. 116.

Ciò che invece questa Corte ritiene di dover rilevare é che le incertezze e i contrasti suscitati dalla disposizione dell'art. 116, sebbene da ultimo avviati dalla giurisprudenza a una più equilibrata ed esatta soluzione, non possono dirsi del tutto dissipati nella coscienza sociale e giuridica: onde la opportunità di un intervento del legislatore, al fine di stabilire se la norma in questione debba rimanere nel nostro ordinamento e, in caso positivo, quali esattamente debbano esserne il fondamento e i limiti, e in quali termini, inoltre, debba realizzarsi una logica coordinazione della norma stessa con tutto il sistema e con norme analoghe, in particolare con quella dell'art. 83 del Codice penale.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara infondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione, sollevata dalla Corte di assise di Roma con ordinanza del 20 ottobre 1964, sulla legittimità costituzionale dell'art. 116 del Codice penale, in riferimento all'art. 27, primo comma, della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 maggio 1965.

Gaspare AMBROSINI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI – Giuseppe VERZì - Giovanni Battista BENEDETTI -  Francesco Paolo BONIFACIO.

 

Depositata in Cancelleria il 31 maggio 1965.