Sentenza n. 50 del 1966
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SENTENZA N. 50

ANNO 1966

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Gaspare AMBROSINI, Presidente

Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO

Prof. Antonino PAPALDO

Prof. Nicola JAEGER

Prof. Giovanni CASSANDRO

Prof. Biagio PETROCELLI

Dott. Antonio MANCA

Prof. Aldo SANDULLI

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO,

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale del D.P.R. 14 luglio 1960, n. 1011, contenente norme sui licenziamenti individuali dei lavoratori dipendenti dalle imprese industriali, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 5 maggio 1964 dalla Corte d'appello di Napoli nel procedimento civile vertente tra Perna Vincenzo e l'impresa Pastore Vincenzo, iscritta al n. 178 del Registro ordinanze 1964 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 295 del 28 novembre 1964;

2) ordinanza emessa il 23 dicembre 1964 dal Tribunale di Milano nel procedimento civile vertente tra la Società Irradio e Casamassima Gina, iscritta al n. 18 del Registro ordinanze 1965 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 78 del 27 marzo 1965;

3) ordinanza emessa il 24 novembre 1964 dal Pretore di Milano nel procedimento civile vertente tra la Società Officina elettrica italiana Martelli e Corrada Luigi, iscritta al n. 19 del Registro ordinanze 1965 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 85 del 3 aprile 1965;

4) ordinanza emessa il 3 marzo 1965 dal Pretore di Monza nel procedimento civile vertente tra il Mobilificio Vergani e Tassinato Giuseppina, iscritta al n. 43 del Registro ordinanze 1965 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 109 del 30 aprile 1965;

5) ordinanza emessa il 27 gennaio 1965 dal Tribunale di Milano nel procedimento civile vertente tra Peri Rosanna e la Società Tubettificio di Corbetta, iscritta al n. 103 del Registro ordinanze 1965 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 171 del 10 luglio 1965.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri e di costituzione dell'impresa Pastore, della Società Irradio, di Perna Vincenzo, Tassinato Giuseppina e Peri Rosanna;

udita nell'udienza pubblica del 2 marzo 1966 la relazione del Giudice Francesco Paolo Bonifacio:

uditi l'avv. Ubaldo Prosperetti, per l'impresa Pastore, l'avv. Ugo Cominelli, per la Società Irradio, gli avvocati Vincenzo Mazzei, Valente Simi e Benedetto Bussi, per Perna Vincenzo e Peri Rosanna, ed il vice avvocato generale dello Stato Dario Foligno, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Con ordinanza emessa il 5 maggio 1964 nel procedimento tra Vincenzo Perna e Vincenzo Pastore la Cortedi appello di Napoli - Sezione Magistratura del Lavoro - ha sollevato di ufficio la questione di legittimità costituzionale del D.P.R. 14 luglio 1960, n. 1011, col quale, in forza della delega contenuta nella legge 14 luglio 1959, n. 741, é stato disposto che per le attività per le quali fu stipulato l'accordo interconfederale 18 ottobre 1950 sui licenziamenti individuali i rapporti di lavoro sono regolati da norme giuridiche conformi alle clausole di questo.

Secondo l'ordinanza il decreto delegato ha reso obbligatorie erga omnes disposizioni estranee alla finalità di assicurare minimi di trattamento economico e normativo, finalità che, indicata dalla legge di delegazione, acquista il carattere di criterio direttivo per l'esercizio della delega: l'accordo interconfederale recepito nella legge delegata si limita, invece, a disciplinare i rapporti fra le contrapposte associazioni sindacali ed ha un contenuto strumentale e processuale. Alla conseguente violazione dell'art. 76 della Costituzione si aggiunge, secondo il giudice a quo, un contrasto fra il decreto presidenziale impugnato e l'art. 102 della Costituzione, giacché il carattere di arbitrato irrituale o libero viene meno nel momento in cui la prevista procedura viene imposta ai non iscritti: non essendo infatti possibile ritenere che alle associazioni ed agli arbitri sia stata conferita la rappresentanza legale dei datori di lavoro e dei lavoratori, gli arbitri vengono ad assumere le funzioni di giudici speciali.

L'ordinanza, ritualmente notificata alle parti ed al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 295 del 28 novembre 1964.

Nel presente giudizio si sono costituiti il sig. Vincenzo Pastore, rappresentato dall'avv. Ubaldo Prosperetti (atto depositato il 15 dicembre 1964) ed il sig. Vincenzo Perna, rappresentato dagli avvocati Aurelio Becca, Vincenzo Percopo, Benedetto Bussi e Vincenzo Mazzei (atto depositato il 16.12.1964): é intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato (atto depositato il 17.12.1964).

La difesa del Pastore, dopo aver ricordato la sentenza n. 129 del 1963 di questa Corte e la successiva giurisprudenza, osserva: a) tutte le clausole dell'accordo interconfederale recepito nel D.P.R. n. 1011 del 1960 esulano dall'oggetto definito nella legge di delega perché non riguardano i minimi di trattamento economico e normativo, hanno natura strumentale e processuale, disciplinano i rapporti fra le associazioni e introducono una procedura conciliativa che presuppone l'appartenenza dei lavoratori e dei datori di lavoro alle associazioni stesse; b) il collegio di arbitrato viene ad assumere nel sistema della legge delegata il carattere di giurisdizione speciale, perché sottrae la nomina dei componenti alla volontà delle parti, presuppone la rappresentanza legale dei datori di lavoro e dei lavoratori non iscritti e sottrae la funzione giurisdizionale alla magistratura; c) il decreto impugnato viola l'art. 39 della Costituzione, a causa della stretta connessione della procedura con l'appartenenza alle associazioni sindacali; d) l'illegittimità costituzionale risulta implicitamente dalle stesse considerazioni svolte nella sentenza n. 129 del 1963 di questa Corte. La difesa ricorda infine i numerosi scritti dottrinali che hanno messo in evidenza i vizi della legge delegata.

La difesa del Perna sostiene, invece, che le norme contenute nell'accordo interconfederale attengono alla parte normativa del rapporto di lavoro e, pertanto, rientrano certamente nell'oggetto della delega; esclude, altresì, che sussista una violazione dell'art. 102 della Costituzione. La giurisprudenza, si osserva, ha ritenuto che l'accordo interconfederale del 1950 consta di una parte sostanziale, giacché introduce il principio della sindacabilità dei motivi del licenziamento, ed una parte procedurale, relativa alla istituzione di un arbitrato irrituale. La richiesta dell'arbitrato é meramente facoltativa, perché il lavoratore può rivolgersi direttamente all'autorità giudiziaria ed il datore di lavoro non é obbligato ad aderire alla procedura conciliativa: sicché resta inviolata la competenza del giudice ordinario. Si osserva infine che non può neppure configurarsi il contrasto delle norme delegate con l'art. 39 della Costituzione proprio perché il datore di lavoro, iscritto o non iscritto all'associazione stipulante, può non aderire al meccanismo di conciliazione previsto nell'accordo.

L'Avvocatura dello Stato, dopo aver descritto la disciplina disposta dall'accordo interconfederale, esclude che nel decreto delegato possano ravvisarsi i vizi denunziati nell'ordinanza di rimessione. Quanto al preteso eccesso di delega, si osserva che quando la legge delegante ha posto come obbiettivo e limite delle norme delegate la garanzia dei minimi di trattamento economico e normativo ha avuto di mira anche la disciplina degli istituti che in via strumentale si riconducono all'oggetto della delega. Dopo aver ricordato la giurisprudenza della Corte, ed in particolare la sentenza n. 129 del 1963, con la quale venne ritenuta illegittima la ricezione di patti strumentali quando manchi una inscindibile relazione tra fine prescritto dalla legge delegante e mezzo prescelto dalla legge delegata, l'Avvocatura rileva che la immediatezza del nesso di strumentalità é evidente quando venga in esame il momento della tutela dei diritti scaturiti dal rapporto di lavoro: la previsione dell'art. 1 della legge delegante comprende tutti gli strumenti attinenti alla posizione del lavoratore, primi fra tutti quelli che mirano a rafforzare la garanzia di conservazione del posto. L'accordo interconfederale stabilisce un nuovo equilibrio in tema di recesso, e perciò non può accogliersi l'interpretazione restrittiva prospettata dal giudice a quo, secondo il quale si tratterebbe esclusivamente di una disciplina attinente ai rapporti fra le associazioni in ordine alla procedura di conciliazione e di arbitrato. L'Avvocatura mette in evidenza come l'accordo si inquadra nella tendenza ad attenuare la portata dell'art. 2118 del Codice civile, che risponde ad una esigenza di parità meramente formale nel rapporto di lavoro, laddove ora si tende a trasformare il potere di recesso da arbitrario in discrezionale: prospettiva nella quale perfettamente si inquadrano le clausole dell'accordo, che ha natura sostanziale, dal momento che l'apprestamento degli strumenti di conciliazione e di arbitrato é un posterius rispetto al prius costituito dal vincolo del datore di lavoro al rispetto di determinati criteri nell'esercizio della facoltà di licenziamento. Circa la questione relativa alla denunziata violazione dell'art. 102 della Costituzione, l'Avvocatura ne sostiene preliminarmente l'inammissibilità, perché rientra nei compiti del giudice trarre le conseguenze dall'accertamento del contrasto fra determinate clausole dell'accordo e norme imperative di legge o norme costituzionali. Nel merito l'Avvocatura osserva che la natura di arbitrato libero o irrituale non si trasforma per il fatto della ricezione delle clausole nell'ordinamento giuridico statale: il legislatore, infatti, ha inteso conservare l'assetto predisposto dalle associazioni stipulanti, che si traduce in una regolamentazione che dà luogo ad una pronunzia negoziale, la cui inosservanza può essere portata a cognizione del giudice.

Nella memoria depositata il 17 febbraio 1966 la difesa del Pastore, dopo aver ricordato i fatti che diedero luogo al giudizio di merito e le vicende di questo, osserva che le clausole dell'accordo del 1950 non contengono un diretto regolamento del rapporto individuale fra datore di lavoro e lavoratore, ma pongono in essere una procedura, attuata esclusivamente attraverso l'intervento delle associazioni sul necessario presupposto dell'appartenenza a queste o del conferimento di un mandato: e in ciò é da ravvisarsi un indubbio eccesso di delega negli stessi termini di quello accertato in varie sentenze della Corte. In particolare la difesa richiama la sentenza n. 8 del 1966, osservando peraltro che nel caso attuale non é possibile distinguere una parte procedurale e strumentale da una parte sostanziale, giacché la rilevanza del motivo del licenziamento individuale é strettamente connessa con il sistema di conciliazione e arbitrato. Si rileva ancora che non é esatto quanto affermato dalla difesa del Perna, che, cioè, il lavoratore possa direttamente adire l'autorità giudiziaria e l'arbitrato non sia obbligatorio. All'Avvocatura dello Stato la memoria replica che anche la parte degli accordi necessaria a garantire i minimi non può contrastare con norme costituzionali e che la violazione dell'art. 102 della Costituzione é incontestabile, dal momento che fra i criteri individuati per distinguere l'arbitrato obbligatorio dalla giurisdizione speciale é largamente seguito quello che si fonda sulla libertà delle parti nella scelta del collegio giudicante: libertà del tutto negata dal decreto delegato, giacché il datore di lavoro viene sottoposto al giudizio di un arbitro nominato da un'associazione alla quale egli non aderisce. In ogni caso si dovrebbe ravvisare nelle norme impugnate un eccesso di delega per violazione del principio della libertà sindacale, atteso che l'oggetto della delega deve ritenersi limitato, oltre che da quanto esplicitamente o implicitamente indicato dalla legge delegante, anche dalle norme costituzionali.

2. - Nel corso di un procedimento civile tra la signora Gina Casamassima e la S.r.l. Irradio il Tribunale di Milano con ordinanza del 23 dicembre 1964 ha sollevato la questione di legittimità costituzionale del D.P.R. 14 luglio 1960, n. 1011 in riferimento all'art. 76 della Costituzione.

Dopo aver illustrato la rilevanza della questione, l'ordinanza richiama la giurisprudenza di questa Corte ed osserva che l'oggetto proprio dei contratti collettivi di lavoro é quello di disciplinare i vari istituti che attengono ai rapporti fra datori di lavoro e lavoratori e che, perciò, la legge di delega, riferendosi ai minimi inderogabili di trattamento normativo, ha inteso individuare il complesso di norme che regolano la vita del rapporto di lavoro. Ciò premesso, il Tribunale rileva che il decreto delegato ha recepito la istituzione di un arbitrato irrituale, il quale non può essere ricondotto nell'ambito del trattamento normativo inderogabile a cui si riferisce la legge di delega, come é dimostrato dalla circostanza che le norme dell'accordo diventano operative dopo la risoluzione del rapporto di lavoro, ossia in un momento nel quale tutta la disciplina contrattuale ha esaurito la sua funzione. Il Tribunale, infine, esclude la sussistenza di dubbi sulla legittimità costituzionale del decreto impugnato, diversi da quelli innanzi prospettati.

L'ordinanza, ritualmente notificata alle parti ed al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 78 del 27 marzo 1965.

Nel presente giudizio si é costituita la Società Irradio, rappresentata e difesa dall'avv. Ugo Cominelli. Nelle deduzioni depositate il 4 marzo 1965 si osserva che la funzione della delega, come si evince dall'art. 1 della legge 1959, n. 741, e dai lavori preparatori era quella di assicurare a tutti i lavoratori di ciascuna categoria un trattamento minimo retributivo e normativo: nell'accordo recepito dall'impugnato decreto delegato non vi é, invece, alcuna disposizione che rientri in tale oggetto, dovendosi escludere che le sue clausole possano influire sul trattamento normativo, come é dimostrato dalla circostanza che l'accordo entra in applicazione solo a rapporto esaurito.

3. - Con altra ordinanza, emessa il 27 gennaio 1965 nel procedimento tra la signora Rosanna Peri e la S.r.l. Tubettificio Corbetta, il Tribunale di Milano ha sollevato la questione di legittimità costituzionale del D.P.R. 14 luglio 1960, n. 1011, negli stessi termini e per gli stessi motivi enunciati nell'ordinanza pronunziata nel procedimento Casamassima Irradio.

L'ordinanza, ritualmente notificata alle parti ed al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 171 del 10 luglio 1965.

Nel presente giudizio si é costituita la signora Rosanna Peri, rappresentata dall'avv. Benedetto Bussi. Nelle deduzioni depositate il 30 luglio 1965 si osserva che la regolamentazione del licenziamento individuale contenuta nell'accordo interconfederale del 1950 attiene alla parte normativa del rapporto di lavoro e che di conseguenza non sussiste alcun vizio di eccesso di delega. In data 28 febbraio 1966 - fuori del termine massimo prescritto dalle norme integrative - la signora Peri ha depositato una memoria illustrativa delle sue tesi.

4. - Con ordinanza emessa il 24 novembre 1964 nel procedimento tra il sig. Luigi Corrada e la S.p.a. Officina elettrica italiana Martelli il Pretore di Milano, dopo aver rilevato che l'accordo interconfederale del 1950, pur contenendo norme che certamente riguardano la disciplina del rapporto di lavoro, si articola in disposizioni strumentali relative ai rapporti fra associazioni, ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 del D.P.R. 14 luglio 1960, n. 1011, in riferimento all'art. 77 della Costituzione. L'ordinanza esclude peraltro che vi sia contrasto fra le norme impugnate e l'art. 39 della Costituzione.

L'ordinanza ritualmente notificata alle parti e al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 85 del 3 aprile 1965.

Nelle deduzioni del 23 aprile 1965 l'Avvocatura dello Stato, costituitasi in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei Ministri, ha sostenuto la piena legittimità della norma impugnata ed a sostegno della sua tesi ha addotto gli stessi argomenti già esposti nell'atto di deduzioni relativo al giudizio promosso dall'ordinanza 5 maggio 1964 della Corte di appello di Napoli.

5. - Nel procedimento civile pendente fra Giuseppina Tassinato e Mario Vergani il Pretore di Monza con ordinanza 3 marzo 1965, in accoglimento di una istanza formulata dal convenuto, ha rimesso alla Corte la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 D.P.R. 14 luglio 1960, n. 1011, in riferimento all'art. 76 della Costituzione.

Nell'ordinanza si afferma che il giudizio non può essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale, e questa viene profilata sotto l'aspetto di un dubbio sulla legittima ricezione nel decreto delegato di patti sindacali a carattere strumentale, dubbio fondato sul rilievo che la finalità indicata dal legislatore delegante era quella di rendere operanti erga omnes solo gli istituti tipici del rapporto di lavoro e non già particolari procedure.

L'ordinanza, ritualmente notificata alle parti e al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 109 del 30 aprile 1965.

Nel presente giudizio si é costituita la signora Giuseppina Tassinato, rappresentata e difesa dall'avv. Angelo Ulgheri. Nelle deduzioni depositate il 29 marzo 1965 si eccepisce in primo luogo l'inammissibilità della questione, sia perché questa nel giudizio di merito era stata sollevata dalla controparte in via del tutto generica, sia perché il giudice a quo avrebbe dovuto valutarne la rilevanza, giacché la questione non avrebbe ragion d'essere ove il datore di lavoro fosse iscritto all'associazione stipulante o avesse comunque volontariamente accettato di sottoporsi alla procedura del collegio arbitrale. Nel merito si contesta l'esistenza del vizio denunziato, facendosi rilevare che il dubbio prospettato dal Pretore di Monza poggia su una ingiustificata interpretazione restrittiva della legge di delega: questa, invero, prevede anche la garanzia di un minimo di trattamento normativo, nel quale non può non rientrare quella disciplina che dà al lavoratore un minimo di sicurezza per quanto attiene alla conservazione del posto di lavoro.

6. - Nell'udienza pubblica i cinque giudizi sono stati discussi congiuntamente e le parti hanno svolto le argomentazioni di cui alle difese scritte e insistito nelle conclusioni.

 

Considerato in diritto

 

1. - Le cause, che hanno tutte ad oggetto questioni di legittimità costituzionale relative al D.P.R. 14 luglio 1960, n. 1011, possono essere riunite e decise con unica sentenza.

2. - La difesa della signora Giuseppina Tassinato ha in linea preliminare sostenuto che la questione sollevata con l'ordinanza 3 marzo 1965 del Pretore di Monza dovrebbe esser dichiarata "irricevibile" per la genericità con la quale nel giudizio principale la controparte eccepì l'illegittimità costituzionale delle norme e, altresì, a causa dell'omesso esame da parte del Pretore di circostanze che escluderebbero la rilevanza della questione.

L'eccezione é infondata sotto entrambi gli aspetti e va respinta.

Sul primo punto é da osservare che l'oggetto del giudizio devoluto alla Corte deve trovare la sua configurazione e delimitazione nell'ordinanza con la quale l'autorità giudiziaria esercita il potere di iniziativa del processo incidentale di costituzionalità: iniziativa che, esperibile anche di ufficio, non é condizionata dal modo in cui sia stata sollecitata da una domanda di parte. Nel caso in esame l'ordinanza, pur facendo riferimento all'eccezione formulata dal datore di lavoro, enuncia e specifica direttamente i termini della questione proposta.

Per quanto riguarda il secondo profilo, é sufficiente richiamare la giurisprudenza di questa Corte e considerare che nell'esclusiva competenza del giudice alla individuazione della norma applicabile alla controversia rientra la valutazione delle circostanze di fatto che su tale accertamento possano spiegare influenza. L'ordinanza del Pretore di Monza afferma in modo inequivoco che il giudizio non può essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale, e ciò dimostra che é stato compiuto con esito positivo l'esame della rilevanza necessario ad una regolare proposizione del processo costituzionale incidentale.

3. - L'accordo interconfederale del 18 ottobre 1950, relativo ai licenziamenti individuali dei lavoratori dipendenti da imprese industriali, stabilisce, nella parte che qui più direttamente interessa, che il lavoratore il quale ritenga ingiustificato il suo licenziamento, ove il tentativo di conciliazione esperito dalle organizzazioni sindacali sia fallito ovvero siano decorsi i termini per la sua richiesta o espletamento, possa provocare l'intervento di un "collegio di conciliazione ed arbitrato"; detta norme in ordine alla composizione, nomina e competenza di tale collegio, al quale si affida il compito di emanare secondo equità e senza l'obbligo di formalità procedurali un giudizio sulla validità delle ragioni addotte a giustificazione del licenziamento; dispone che il datore di lavoro, in caso di conclusione a lui sfavorevole e se non ottemperi all'invito a ripristinare il rapporto di lavoro, debba corrispondere al lavoratore a titolo di penale una somma determinata dal detto collegio con criterio di equità entro i limiti di minimo e di massimo specificati dall'accordo.

Il D.P.R. 14 luglio 1960, n. 1011, che ha recepito il predetto accordo in base alla delega contenuta nella legge 14 luglio 1959, n. 741, é stato denunziato dalle varie ordinanze di rimessione per violazione dell'art. 76 della Costituzione sotto l'unico profilo che le norme impugnate non atterrebbero ai "minimi inderogabili di trattamento economico e normativo" ed esorbiterebbero, perciò, dai poteri conferiti al Governo: si tratterebbe, infatti, di disposizioni a carattere strumentale e processuale, giacché l'accordo interconfederale nel suo complesso non avrebbe ad oggetto la diretta disciplina delle condizioni generali di lavoro.

La Corte ritiene che la questione, in questi termini proposta, non abbia fondamento.

Giova in proposito rilevare che l'accordo qui in esame - a differenza di quello del 20 dicembre 1950 sui licenziamenti per riduzione di personale, il quale, come la Corte ebbe ad accertare (cfr. sentenza n. 8 del 1966), é direttamente destinato a regolare l'azione sindacale ed i rapporti fra i sindacati - incide immediatamente sui rapporti fra datori di lavoro e lavoratori. Ciò si ricava non soltanto dalla finalità principale che i contraenti si proposero di perseguire, e che é quella, chiaramente espressa nell'art. 1, di "prevenire i licenziamenti individuali ingiustificati", ma anche dalla disciplina che, coerentemente con tale scopo, é stata dettata. Non può esservi dubbio, infatti, che l'obbligo al pagamento di una penale in caso di licenziamento riconosciuto non giustificato presuppone, quale che sia la sua precisa configurazione dogmatica, una delimitazione del potere del datore di lavoro di recedere dal rapporto e l'illegittimità del recesso arbitrario. Né ha rilievo che a tale illegittimità non si colleghi la inefficacia del licenziamento, giacché é sufficiente che una sanzione sia comunque prevista e che essa possa essere evitata solo, come l'accordo prevede, mediante il ripristino del rapporto di lavoro.

L'accordo interconfederale, in definitiva, modifica il regime del recesso stabilito dall'art. 2118 del Codice civile e regola, quindi, una delle più rilevanti e delicate vicende del rapporto di lavoro. Ed é davvero incontestabile che nei "minimi di trattamento economico e normativo", ad assicurare i quali la legge di delegazione si ispirò, debbano rientrare disposizioni le quali approntino in qualche misura una garanzia di conservazione del posto di lavoro: ché, anzi, esse, come la Corte ebbe ad avvertire nella sentenza n. 45 del 1965, si inquadrano in quell'indirizzo alla progressiva, effettiva realizzazione del diritto al lavoro che la Costituzione prescrive nell'art. 4. Ed é perciò da riconoscere che il D.P.R. 14 luglio 1960, n. 1011, sotto il profilo fin qui considerato, ha rispettato l'oggetto ed i principi direttivi della delega.

4. - Le osservazioni ora svolte non esauriscono, tuttavia, la questione proposta dalle ordinanze. Resta infatti da accertare se sia conforme alla delega anche la recezione di quelle norme dell'accordo interconfederale che predispongono gli strumenti dalle associazioni stipulanti reputati idonei a realizzare la tutela della disciplina sostanziale del recesso.

Tale aspetto della questione va deciso in base al principio, costantemente affermato da questa Corte e recentemente ribadito nella sentenza n. 8 del 1966, secondo il quale solo le disposizioni non strettamente necessarie a garantire i minimi retributivi e normativi sono da ritenere estranee agli scopi perseguiti dalla legge di delega.

Alla stregua di siffatto criterio non sembra si possa dubitare della legittimità della recezione delle norme dell'accordo che si riferiscono al "collegio di conciliazione ed arbitratrato". Le censure mosse dalle ordinanze sarebbero fondate ove a tale organo fossero stati conferiti poteri di natura decisoria: in questo caso, infatti, l'arbitrato, imposto come alternativa al giudizio ordinario, non si legherebbe in un nesso inscindibile con la disciplina sostanziale del rapporto di lavoro. Ma quella premessa é infondata, perché é da escludere che gli arbitri ai quali l'accordo commette la funzione di valutare se il licenziamento trovi giustificazione siano arbitri rituali. A questo risultato la dottrina e la giurisprudenza, oramai costante, sono pervenute sulla base di molteplici e convergenti motivi che non é necessario qui riprendere in esame. Va solo rilevato che il testo stesso dell'accordo dimostra che le parti stipulanti non vollero conferire al collegio una potestà di decisione: l'art. 10, disciplinando l'ipotesi di licenziamento con perdita del diritto all'indennità di preavviso o di anzianità, dispone che la procedura arbitrale venga sospesa in attesa della pronunzia dell'autorità giudiziaria sulle cause che a norma dell'art. 2119 del Codice civile possono giustificare il procedimento, e tale disposizione rivela che gli stessi contraenti considerano la competenza del giudice e quella degli arbitri come eterogenee ed operanti su piani nettamente distinti. L'esame dei caratteri sostanziali della funzione affidata al collegio di conciliazione e di arbitrato conferma questa conclusione. Giacché l'accordo non detta una normativa in base alla quale si possa controllare se il licenziamento sia o meno sorretto da validi motivi, gli arbitri, i quali pronunziano secondo equità e - ciò va specialmente sottolineato - nel contemperamento del buon andamento dell'azienda e della sorte del lavoratore, svolgono in sostanza un'attività creatrice della norma da valere nel caso concreto e, quindi, integrativa del contratto di lavoro. Risulta allora evidente che la parte dell'accordo interconfederale che si riferisce al collegio ed alla funzione che questo assolve nel quadro generale delle pattuizioni si trova in un nesso inscindibile con la disciplina sostanziale del licenziamento, si incorpora in questa e risulta perciò attratta nell'oggetto della delega, diretta come é a soddisfare quell'interesse a tutela del quale il legislatore delegante ha conferito al Governo i necessari poteri.

Altrettanto, invece, non può dirsi del tentativo preliminare di conciliazione che l'accordo demanda, su istanza del lavoratore, alle organizzazioni sindacali delle contrapposte categorie. Il fatto stesso che nessun effetto produce la mancata richiesta del suo espletamento sta chiaramente a dimostrare che non esiste nessun necessario nesso fra le disposizioni qui considerate e quelle innanzi prese in esame: per questa parte, di conseguenza, il D.P.R. 14 luglio 1960, n. 1011, va dichiarato illegittimo per eccesso di delega.

5. - É ovvio che le singole norme recepite nel decreto delegato, oltre che essere indirizzate a soddisfare l'interesse preso in considerazione dalla legge di delega, devono non contrastare con specifici precetti costituzionali: ed il relativo controllo, contro l'assunto preliminare dell'Avvocatura dello Stato, é di competenza della Corte costituzionale. Va tuttavia precisato che la Corte, dovendo attenersi all'oggetto del giudizio così come questo é proposto dal giudice a quo, non può portare il suo esame su questioni che non siano state sollevate dalle ordinanze di rimessione. E tale é il caso di quella, sulla quale alcune parti costituite si sono soffermate, relativa alla interposizione delle organizzazioni sindacali nello svolgimento delle attività disciplinate dall'accordo interconfederale (in particolare nella nomina del collegio di conciliazione e di arbitrato) ed alla conseguente violazione dell'art. 39 della Costituzione. Va infatti rilevato che nessuna delle cinque ordinanze pone la questione del contrasto delle norme recepite nel decreto delegato col principio della libertà sindacale, e ciò né sotto il profilo di un autonomo motivo di eccesso di delega né sotto quello di una diretta violazione della citata norma costituzionale.

L'ordinanza 5 maggio 1964 della Corte di appello di Napoli solleva, invece, la questione di legittimità costituzionale del D.P.R. 14 luglio 1960, n. 1011, in riferimento all'art. 102 della Costituzione, e ciò sul presupposto che l'arbitrato, una volta imposto per legge anche ai non iscritti alle associazioni stipulanti, abbia assunto la caratteristica di giurisdizione speciale.

La questione é infondata. Le osservazioni già innanzi svolte hanno dimostrato, infatti, che i poteri demandati al collegio di conciliazione ed arbitrato non hanno affatto natura decisoria, e viene meno perciò la premessa che darebbe luogo al problema di una eventuale violazione dell'art. 102 della Costituzione. Che la legge abbia reso obbligatorio l'arbitrato, alla cui costituzione provvedono su richiesta del lavoratore le organizzazioni delle contrapposte categorie, é cosa innegabile: ma da ciò non deriva che, novandosi dal contratto alla legge la fonte di legittimazione degli arbitri, il potere di questi muti natura. Se, infatti, le già esposte ragioni inducono a ritenere che si tratta di un potere operante sul piano negoziale, l'imposizione per legge dell'arbitrato, accompagnandosi alla sottrazione della nomina degli arbitri alla volontà delle parti, può se mai giustificare il problema se la legge non venga a violare un'eventuale garanzia offerta dalla Costituzione all'autonomia contrattuale (problema che in questa sede non può essere affrontato, perché fuori dell'oggetto del giudizio), ma non legittima certo il dubbio di una lesione della sfera di giurisdizione che l'art. 102 della Costituzione riserva al giudice ordinario.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i cinque giudizi di cui in epigrafe:

a) dichiara la illegittimità costituzionale del D.P.R. 14 luglio 1960, n. 1011, contenente "norme sui licenziamenti individuali dei lavoratori dipendenti dalle imprese industriali", per la sola parte in cui disciplina l'intervento di conciliazione delle organizzazioni di categoria;

b) dichiara, per le altre parti dello stesso decreto, non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata con le ordinanze 5 maggio 1964 della Corte di appello di Napoli, 24 novembre 1964 del Pretore di Milano, 23 dicembre 1964 e 27 gennaio 1965 del Tribunale di Milano e 3 marzo 1965 del Pretore di Monza, in relazione alla legge 14 luglio 1959, n. 741, ed in riferimento agli artt. 76 e 77 della Costituzione;

c) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale delle stesse norme sollevata con ordinanza 5 maggio 1964 della Corte di appello di Napoli in riferimento all'art. 102 della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 maggio 1966.

 

Gaspare AMBROSINI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO

 

Depositata in cancelleria il 26 maggio 1966.