Sentenza n. 25 del 1965
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SENTENZA N. 25

ANNO 1965

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. GASPARE AMBROSINI, Presidente

Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO

Prof. ANTONINO PAPALDO

Prof. NICOLA JAEGER

Prof. GIOVANNI CASSANDRO

Prof. BIAGIO PETROCELLI

Dott. ANTONIO MANCA

Prof. ALDO SANDULLI

Prof. GIUSEPPE BRANCA

Prof. MICHELE FRAGALI

Prof. COSTANTINO MORTATI

Prof. GIUSEPPE CHIARELLI

Dott. GIUSEPPE VERZÌ

Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI

Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 164 del Codice di proceduta penale promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 3 dicembre 1963 dal Tribunale di Palermo nel procedimento penale a carico di Ardizzone Girolamo, iscritta al n. 77 del Registro ordinanze 1964 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 144 del 13 giugno 1964;

2) ordinanza emessa il 30 novembre 1963 dal Tribunale di Palermo nel procedimento penale a carico di Ardizzone Girolamo ed altri, iscritta al n. 17 del Registro ordinanze 1964 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 54 del 29 febbraio 1964.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del 20 gennaio 1965 la relazione del Giudice Giuseppe Verzì;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

Nel corso del procedimento penale a carico del direttore del quotidiano "Il giornale di Sicilia" Ardizzone Girolamo, imputato del reato previsto e punito dagli artt. 684 del Codice penale e 164, n. 3, del Codice di procedura penale per avere pubblicato gli atti di un dibattimento penale tenuto a porte chiuse, la difesa ha sollevato la questione di legittimità costituzionale delle norme contenute nei suindicati articoli in riferimento all'art. 21 della Costituzione, che garantisce la libertà di stampa.

Con ordinanza del 3 dicembre 1963, il Tribunale di Palermo, affermando che le suddette norme del Codice penale e di procedura penale non dettano alcun principio che condizioni il provvedimento del giudice, sicché dalle stesse non possono ricavarsi i limiti prescritti dalla legge al principio generale della pubblicità delle udienze; che, d'altra parte, il limite relativo alle manifestazioni contrarie al buon costume non é il substrato dell'art. 164, n. 3, del Codice di procedura penale; che conseguentemente un divieto, che non abbia tale contenuto, si pone in contrasto con il diritto di cronaca riconosciuto anche per i fatti giudiziari, ha ritenuto la non manifesta infondatezza e la rilevanza della questione, ed ha disposto la sospensione del procedimento e la trasmissione degli atti a questa Corte.

L'ordinanza regolarmente notificata e comunicata é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiate della Repubblica, n. 144 del 13 giugno 1964.

Nel presente giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, la quale, con atto di intervento del 27 dicembre 1963, chiede che si dichiari la infondatezza della questione. Premesso che il divieto di cui si discute non é posto a tutela del segreto istruttorio, ma piuttosto a tutela di quegli stessi interessi, che giustificano la esclusione della pubblicità del dibattimento, l'Avvocatura passa ad esaminare le varie ipotesi contemplate dall'art. 423 del Codice di procedura penale, nelle quali il presidente del collegio (od il pretore) può disporre che il dibattimento od alcuni atti di esso abbiano luogo a porte chiuse; e rileva che il divieto di pubblicazione non può essere esteso a tutte, indistintamente, le dette ipotesi. Una corretta interpretazione delle norme di legge dovrebbe portare alla conclusione che, allorché il dibattito sia tenuto a porte chiuse per ragioni di igiene in tempi di epidemia, oppure per manifestazioni da parte del pubblico che possano turbare la serenità del dibattimento, il divieto di pubblicazione non trova giustificazione.

Considera poi che potrebbe mettersi in dubbio che la diffusione di notizie relative a procedimenti giudiziari costituisca manifestazione di pensiero, dal momento che molti atti di polizia giudiziaria, le requisitorie, le sentenze sono il risultato delle rappresentazioni di fatti e di opinioni proprie della polizia giudiziaria o della magistratura. Comunque, esaminando le altre ipotesi indicate nell'art. 423 del Codice di procedura penale, la legittimità di esse si riscontrerebbe nella efficienza di altri interessi costituzionalmente garantiti, idonei a neutralizzare il diritto alla libera manifestazione del pensiero, tutelato dall'art. 21. Ed infatti, hanno rilevanza costituzionale l'interesse alla imparzialità della pronunzia giudiziaria, l'interesse alla riservatezza personale, l'ordine pubblico, inteso nel senso di ordine legale su cui poggia la convivenza sociale, e la stessa morale, qualora si ritenga che abbiano identità di contenuto la morale di cui all'art. 423 suindicato ed il buon costume garantito dalla Costituzione. Per i rimanenti casi, infine, sempre secondo l'Avvocatura dello Stato, la costituzionalità della norma troverebbe fondamento nella nozione di "altruità della notizia" intesa in senso giuridico, nel senso cioè che la notizia non può essere diffusa senza il consenso del soggetto al quale essa appartiene: e le notizie relative ai procedimenti giudiziari sarebbero da considerare giuridicamente altrui.

Con altra ordinanza pronunziata in data 30 novembre 1963 nel procedimento penale contro Ardizzone Girolamo ed altri, lo stesso Tribunale di Palermo ha sollevato, su istanza della difesa, la medesima questione di legittimità costituzionale degli artt. 684 del Codice penale e 164, n. 3, del Codice di procedura penale in riferimento all'art. 21 della Costituzione. Si osserva in detta ordinanza che l'art. 21 della Costituzione pone un solo limite alla libertà di stampa, e cioé le manifestazioni contrarie al buon costume, fra le quali non può essere inclusa nessuna delle ipotesi che autorizzano a procedere al dibattimento penale a porte chiuse.

L'ordinanza é stata notificata, comunicata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 54 del 29 febbraio 1964. Non vi é stata costituzione di parti.

 

Considerato in diritto

 

1. - Le due cause possono essere riunite e decise con unica sentenza dal momento che le ordinanze di rimessione propongono un'unica ed identica questione di legittimità costituzionale: quella della libertà di stampa, che sarebbe violata dalla impugnata norma di cui all'art. 164, n. 3, del Codice di procedura penale, in quanto sancisce il divieto di pubblicazione a mezzo della stampa del contenuto di documenti e di ogni atto orale o scritto relativi alla istruzione o al giudizio, se il dibattimento é tenuto a porte chiuse. L'ordinanza del 3 dicembre 1963, pur accennando incidentalmente alla mancanza di un "principio che condizioni il provvedimento del giudice, sicché non possono ricavarsi i limiti prescritti dalla legge al principio generale della pubblicità delle udienze" non sviluppa tale concetto, e non lo pone in relazione ad un precetto costituzionale, sicché deve escludersi che essa abbia inteso sollevare questioni di legittimità degli artt. 423 e 425 del Codice di procedura penale, che disciplinano i casi di eccezione al principio generale della pubblicità delle udienze.

2. - La pubblicità del dibattimento é garanzia di giustizia, come mezzo per allontanare qualsiasi sospetto di parzialità; ed anche le norme che disciplinano i casi nei quali, a tutela di svariati interessi, é necessario derogare al principio della pubblicità, debbono attenere al retto funzionamento della giustizia, bene supremo dello Stato, garantito anch'esso dalla Costituzione. Ma vano espediente sarebbe quello di escludere la presenza del pubblico dal dibattimento, qualora fosse consentito di portare a conoscenza di una larga cerchia di persone, a mezzo della stampa, il contenuto di quegli atti o documenti che nel processo abbiano assunto carattere riservato. Onde, il divieto sancito dall'art. 164, n. 3, del Codice di procedura penale va posto sempre in rapporto diretto con le stesse particolari esigenze di giustizia e valutato in funzione di esse.

3. - Le due ordinanze di rimessione partono dalla premessa che la cronaca giudiziaria, siccome espressione della libertà di stampa, troverebbe un solo limite nelle manifestazioni contrarie al buon costume, che é il limite espressamente previsto dall'art. 21 della Costituzione. Ma ciò non é esatto perché altri limiti sussistono. Ed anche le libertà cosiddette privilegiate, non possono sottrarsi ai principi generali dell'ordinamento giuridico, i quali impongono limiti naturali alla espansione di qualsiasi diritto.

Già questa Corte ha avuto occasione di affermare che "la tutela costituzionale dei diritti ha sempre un limite insuperabile nell'esigenza che, attraverso l'esercizio di essi non vengano sacrificati beni ugualmente garantiti dalla Costituzione" (sentenza n. 19 dell'anno 1962).

Né con ciò un bene viene sacrificato ad un altro, quando invece viene regolata, nella armonica tutela di diversi fondamentali interessi, la coesistenza di essi in un ben ordinato sistema di convivenza sociale. Anche nel caso in esame il limite posto dalla norma impugnata non lede il principio della libertà di stampa, ma ne sottopone l'esercizio ad una condizione derivante dalla necessità di tutelare un altro bene pubblico, non meno importante, quale é la giustizia.

4. - L'art. 164, n. 3, limita la libertà di stampa in tutti i casi in cui il dibattimento viene celebrato a porte chiuse, con un generico riferimento agli artt. 423 e 425 del Codice di procedura penale. Ma non tiene conto della circostanza che, in alcune delle ipotesi previste da tali articoli, ed attinenti soltanto alla presenza fisica del pubblico nelle aule di udienza, il principio della pubblicità del dibattimento viene sacrificato a tutela di interessi, che nulla hanno a che vedere con gli interessi della giustizia, e che non possono ricevere alcun pregiudizio dalla divulgazione a mezzo della stampa di notizie processuali.

Nel caso in cui il dibattimento si tenga a porte chiuse "per ragioni di pubblica igiene, in tempo di diffusione di morbi epidemici o di altre malattie contagiose" e nel caso in cui la pubblicità del dibattimento possa "eccitare riprovevole curiosità" il collegamento fra le due tutele non trova alcuna giustificazione e la norma impugnata si pone in contrasto col precetto dell'art. 21 della Costituzione.

In particolare, poi, per quel che riguarda la seconda delle suindicate ipotesi, va rilevato che la "riprovevole curiosità" a cagione della natura dei fatti o della qualità delle persone attiene al dibattimento considerato in sé stesso e nel suo ordinario svolgimento, ond'é che la tutela dell'interesse in tal modo protetto non può andare oltre il dibattimento stesso ed intaccare la libertà di stampa, nel cui settore - per altro - il concetto di curiosità assume aspetti e valori ben diversi.

5. - La serenità del dibattimento, volta a garantire l'interesse alla imparzialità della pronuncia ed alla indipendenza del giudice, viene legittimamente tutelata non soltanto escludendo la presenza del pubblico dal dibattimento, ma anche vietando la divulgazione a mezzo della stampa di notizie ad esso inerenti. Infatti, non si può disconoscere che qualora le manifestazioni del pubblico possano turbare la serenità del dibattimento, il pericolo di nocumento sussiste anche successivamente per effetto della divulgazione a mezzo della stampa. Tuttavia non trova adeguata giustificazione il perdurare del divieto "fino a che siano trascorsi i termini stabiliti dalle norme sugli archivi di Stato", in quanto la serenità del dibattimento non corre più alcun pericolo, allorché - esauriti i vari gradi di giurisdizione - il processo si sia concluso. Né si può ipotizzare - come ritiene l'Avvocatura generale dello Stato - alcun pericolo per altri eventuali processi futuri, diversi da quello per il quale il dibattimento é stato celebrato a porte chiuse, in quanto, per ciascuno dei nuovi processi, subentrano nuove situazioni autonomamente tutelate. Ond'é che la norma impugnata va dichiarata illegittima limitatamente alla parte relativa al tempo in cui ha vigore il divieto di pubblicazione.

6. - Per quanto riguarda le altre ipotesi previste dagli artt. 423 e 425 del Codice di procedura penale, la legittimità del divieto di pubblicazione sancita dall'art. 164, n. 3, dello stesso Codice si rinviene nella tutela di altri interessi costituzionalmente garantiti: la sicurezza dello Stato, riferita alla tutela della esistenza, della integrità, della unità, della indipendenza, della pace e della difesa militare e civile dello Stato; l'ordine pubblico, inteso nel senso di ordine legale, su cui poggia la convivenza sociale (sentenza n. 2 dell'anno 1956); la morale che va collegata al concetto di buon costume, limite espressamente dichiarato dall'art. 21; la tutela dei minori, per i quali la pubblicità dei fatti di causa può apportare conseguenze veramente gravi, sia in relazione allo sviluppo spirituale, sia in relazione alla loro vita materiale. In tutti questi casi, sussistono interessi costituzionalmente garantiti, che appaiono perfettamente idonei a legittimare la limitazione del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

decidendo sulle due cause riunite,

dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 164, n. 3, del Codice di procedura penale in riferimento all'art. 21 della Costituzione limitatamente alle ipotesi di dibattimento celebrato a porte chiuse perché la pubblicità "può eccitare riprovevole curiosità" e per "ragioni di pubblica igiene";

dichiara la illegittimità costituzionale del medesimo art. 164 - ai sensi e nei limiti di cui in motivazione - nella parte "fino a che siano trascorsi i termini stabiliti dalle norme sugli archivi di Stato" riferita alla ipotesi di cui all'art. 423 del Codice di procedura penale "quando avvengono da parte del pubblico manifestazioni, che possono turbare la serenità del dibattimento";

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 164, n. 3, del Codice di procedura penale, sollevata dalle ordinanze del Tribunale di Palermo del 30 novembre e del 3 dicembre 1963, in riferimento all'art. 21 della Costituzione, per quanto riguarda le altre ipotesi di dibattimento tenuto a porte chiuse previste dagli artt. 423 e 425 del Codice di procedura penale.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 aprile 1965.

Gaspare AMBROSINI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI – Giuseppe VERZì - Giovanni Battista BENEDETTI -  Francesco Paolo BONIFACIO.

 

Depositata in Cancelleria il 14 aprile 1965.