Alessandro Pizzorusso
Un caso di “déni de justice” nel
sistema italiano di giustizia costituzionale (*).
1.
L’apporto degli studi di Louis Favoreu sulla giustizia costituzionale, che è risultato
determinante per lo sviluppo dell’oggetto della disciplina in Francia e
altrove, ha avuto importanti riflessi anche in quei paesi che, come l’Italia,
avevano già una Corte costituzionale da tempo funzionante al momento in cui
egli ha concentrato su questa materia la sua attività di studioso e di
promotore di cultura, costituendo il GERJC,
analizzando sistematicamente l’attività del Conseil constitutionnel[1]
e dando impulso ad una quantità di altre iniziative di studio e di ricerca in
Francia e altrove.
In questo quadro
complessivo si inseriscono gli interventi da lui svolti in relazione al
progetto di introduzione nell’ordinamento francese di una forma di controllo
“incidentale” di costituzionalità delle leggi (rimasto fin qui allo stato di
progetto)[2]
e in tema di rapporti tra le decisioni del Conseil e quelle dei giudici
ordinari derivanti, sia dagli effetti propri delle decisioni del primo, sia
dalla capacità di questi ultimi di creare, mediante le loro interpretazioni,
forme di “diritto vivente” destinato a confrontarsi con le interpretazioni
dello stesso Conseil.
Nonostante gli sviluppi del problema
che egli ha contribuito a segnalare, nell’ordinamento francese la separazione
fra l’attività del giudice costituzionale e quella dei giudici ordinari
costituisce pur sempre la regola generale, derivante soprattutto dal carattere
di insindacabilità che la legge ordinaria assume una volta promulgata e
dall’efficacia di giudicato riconosciuta anche alle decisioni di rigetto del Conseil.
Questi fattori costituiscono anzi, probabilmente, il più rilevante motivo di
differenziazione del sistema francese di giustizia costituzionale dagli altri
sistemi europei, nei quali invece – nonostante la comune derivazione dall’impostazione
kelseniana - qualunque giudice ha più o meno ampie opportunità di collaborare o
di confrontarsi con il giudice costituzionale.
Quest’ultimo è
chiaramente il caso dell’ordinamento italiano, nell’ambito del quale il giudice
ordinario ha due diverse possibilità di incrociare la sua attività processuale
con quella della Corte costituzionale: l’una, che indubbiamente è la più
frequente e lineare, nell’ambito della procedura di controllo “incidentale”
della costituzionalità di una disposizione o norma di legge che egli debba
applicare nel corso di un giudizio pendente davanti a lui o della quale egli
debba constatare la cessazione di efficacia derivante da una decisione della
Corte costituzionale; l’altra, di meno frequente verificazione (ma indubbiamente
non così eccezionale come ci si sarebbe potuti attendere), nei casi in cui un
giudice si trova ad intervenire in qualità di parte in un giudizio avente ad
oggetto un conflitto di attribuzioni fra i poteri dello Stato, nel quale egli
impersona il potere giudiziario. A quest’ultima ipotesi è in qualche misura
assimilabile, come vedremo, quella in cui una Regione proponga nei confronti
dello Stato un conflitto di attribuzioni determinato da un atto giurisdizionale
che essa assume essere lesivo delle sue competenze.
2.
Con riferimento alla prima eventualità è opportuno ricordare la tesi, che fu
inizialmente sostenuta da Mauro Cappelletti, secondo la quale il giudice che
solleva e rimette alla decisione della Corte costituzionale (su istanza di
parte o d’ufficio) una questione di costituzionalità di una disposizione o
norma della quale egli preveda la necessaria applicazione nell’ulteriore corso
del processo eserciterebbe un suo “diritto di azione”[3],
così da presentarsi come l’attore del processo costituzionale che
conseguentemente si apre davanti alla Corte costituzionale. Ciò, sia perché è
il giudice a quo, con la sua “ordinanza di rimessione”, a determinare la
materia del contendere davanti alla Corte, sia perché la partecipazione degli
altri soggetti legittimati a “costituirsi” nel giudizio davanti alla Corte
(cioè, soltanto, le parti del giudizio a quo e il Presidente della
Consiglio dei ministri o della Giunta regionale, secondo che la legge impugnata
sia dello Stato o di una Regione[4])
è puramente facoltativa e la loro eventuale inattività non ha alcuna
ripercussione sul diritto-dovere della Corte di decidere la questione
propostale[5].
Questa tesi ha avuto
scarso seguito ed è ormai abbandonata da molto tempo. Se è vero infatti, che
l’ordinanza del giudice a quo opera come un vero e proprio atto
introduttivo del processo incidentale che si svolge davanti alla Corte[6],
l’assetto che il processo costituzionale incidentale ha assunto, una volta che
ha cominciato a funzionare, è stato nettamente nel senso di escludere qualunque
partecipazione del giudice a quo al processo stesso, mentre la
disciplina delle “parti” sopra menzionate, se è risultata assai diversa da
quella delle parti del processo civile o penale, ha assunto comunque una
parziale analogia rispetto alla posizione del parti del processo
amministrativo. E che l’iniziativa del giudice a quo si collochi più sul
versante del giudice che su quello delle parti risulta anche dalla prassi, che
Questo atteggiamento
della Corte, che indubbiamente appare pienamente coerente con la configurazione
della questione di costituzionalità come una “questione pregiudiziale” rispetto
ad una “questione di merito” che il giudice a quo deve affrontare per
decidere la causa della quale è investito[8],
appare del tutto coerente con le decisioni della Corte in cui essa ha
interpretato, corretto o talora addirittura integrato le enunciazioni contenute
nell’ordinanza di rimessione al fine di mettere più esattamente a fuoco la
questione di costituzionalità con essa espressa, mentre appare meno coerente
con il diverso atteggiamento, talora da essa assunto, volto a controllare in
modo assai fiscale l’ordinanza di rimessione (dichiarando la questione
inammissibile per vizi procedurali anche in casi nei quali sarebbe facile
stabilire quale sia la domanda che il giudice intende proporre, anche se la sua
formulazione è per qualche motivo imperfetta) quasi che l’ordinanza di
rimessione fosse soltanto un atto di parte e non esprimesse in definitiva
quella stessa funzione giurisdizionale che anche la Corte esercita[9].
Anche se la decisione della Corte, nel caso in cui sia una decisione di
accoglimento, ha effetti erga omnes simili a quelli della legge (i quali
vanno quindi ben al di là della decisione della controversia in corso davanti
al giudice a quo), non vi è dubbio che essa costituisce, prima di tutto
e in ogni caso (anche ove contenga una dichiarazione di infondatezza), la
soluzione di uno dei passaggi logici che occorre attraversare per pervenire
alla decisione della controversia complessivamente considerata.
Se infatti appare
comprensibile che la Corte, non disponendo di un potere di selezione dei casi[10]
simile a quello di cui possono avvalersi altri giudici che occupano una
posizione analoga in ordinamenti stranieri, cerchi talora di utilizzare a tal
fine le cause d’inammissibilità della questione (le quali normalmente non
possono impedire la riproposizione di essa, se il giudice a quo è deciso
ad insistere, ma possono giustificarne quanto meno un differimento), meno
accettabile appare l’assunzione di atteggiamenti censori che in qualche caso
(invero non frequente) trapelano dai provvedimenti di questo tipo, quasi che la
Corte avesse funzioni simili a quelle che normalmente spettano al giudice
dell’impugnazione rispetto ai provvedimenti da lui controllati.
A parte questi aspetti
pratici, il cui rilievo sul piano teorico è certamente modesto, merita
segnalare come il fatto che, se giudice a quo e Corte costituiscono in
sostanza due giudici che cooperano alla decisione di una causa (salvi gli
eventuali effetti ulteriori della decisione della seconda), il principio iura
novit curia vale per entrambi, salvi gli effetti della regola, che sta alla
base della pregiudizialità della questione di costituzionalità rispetto alla
questione di merito, per cui la prima deve essere “rilevante” rispetto ad una
delle questioni che dovranno essere affrontate nell’ulteriore corso del
giudizio a quo. Ma un’importante differenza deriva dal fatto che, mentre
per il giudice a quo gli iura sono le disposizioni o norme da
applicare ai fatti della causa (mentre le norme costituzionali, in quanto
parametro della costituzionalità di queste, sono iura in un senso
parzialmente diverso), per la Corte tali sono le disposizioni o norme
costituzionali che potrebbero giustificare una pronuncia di invalidità della
regola che altrimenti dovrebbe essere applicata a taluno dei fatti della causa
in corso davanti al giudice a quo.
Di qui nasce
indubbiamente una differenza fra la posizione del giudice a quo e la
posizione della Corte, poiché è il primo che sceglie il momento in cui aprire
l’incidente di costituzionalità (anche sulla base di valutazioni che
comprendono mere previsioni di quanto accadrà nell’ulteriore corso del
processo) e poiché il potere di decidere della seconda è limitato dalla
richiesta avanzata dal primo, e le maggiori difficoltà che si sono presentate
nella pratica sono sorte infatti dalla possibilità che il giudice a quo
non ottemperi al canone della rilevanza e proponga alla Corte questioni di
costituzionalità che non sono in rapporto di pregiudizialità con quelle da
decidere nel giudizio a quo. In tal caso, può la Corte sindacare il
giudizio compiuto dal giudice a quo circa la rilevanza?
In linea generale, non vi
è dubbio che, al pari di qualunque giudice, anche la Corte costituzionale possa
controllare che l’ordinanza del giudice costituisca un valido atto introduttivo
di un giudizio di sua competenza, e quindi stabilire se esso presenti i
requisiti che la legge prescrive per un tale atto. Così non vi è dubbio che la
Corte possa decidere che il soggetto che lo ha adottato sia un “giudice”, che
esso sia stato pronunciato “nel corso di un giudizio”, ecc. Le difficoltà nascono
nei casi in cui, per decidere se una questione di costituzionalità è rilevante
rispetto al giudizio a quo, occorre stabilire se la disposizione o norma
di legge che la questione ha ad oggetto sia quella che deve essere applicata ai
fatti della causa, o se invece questa possa essere decisa con esito diverso in
base ad un’altra disposizione o norma. In tal caso, infatti, decidere se la
questione di costituzionalità sia rilevante può coincidere col decidere la
causa nel merito, cioè se dar ragione all’attore o al convenuto (o,
analogamente, all’una o all’altra delle parti di un processo penale o
amministrativo). Quando ricorra una tale ipotesi, può la Corte costituzionale
sostituirsi al giudice a quo, nel valutare la rilevanza, con la
conseguenza di sostituirsi ad esso anche nel decidere la causa nel merito (il
che ovviamente non rientra nella competenza della Corte, ma in quella del
giudice a quo)?
Una risposta pienamente
convincente a questa domanda non è stata trovata. Nei primi anni della sua
attività, la Corte adottò un orientamento giurisprudenziale secondo il quale la
valutazione della rilevanza della questione di costituzionalità spettava al
giudice a quo e non era sindacabile dalla Corte, ma in seguito modificò
questo indirizzo, dapprima affermando che la valutazione del giudice a quo
doveva essere adeguatamente motivata (a scanso di restituzione degli atti per
il riesame della rilevanza) e successivamente finendo per ammettere la
possibilità di controllare se la rilevanza sussistesse, anche al fine di
dichiarare la questione inammissibile per difetto del corrispondente requisito
dell’atto introduttivo del giudizio. Vi è stata qualche “ribellione” da parte
di giudici che hanno riproposto la questione, ma la Corte non ha desistito
dalla sua posizione, giungendo a dichiarare inammissibili le questioni
riproposte dopo una prima dichiarazione d’inammissibilità, talora configurate
addirittura come tendenti a dar luogo ad un’impugnazione della decisione della
Corte, come tale esclusa dall’art.137, 3° comma, Cost.[11]
E’ da segnalare che la
valutazione della rilevanza di una questione di costituzionalità che si prevede
dovrà essere applicata nel giudizio a quo ai fini della sua eventuale
rimessione alla Corte si presenta come del tutto simmetrica rispetto alla valutazione
dell’influenza che la decisione d’incostituzionalità che sulla stessa questione
sia stata pronunciata dalla Corte costituzionale abbia sulla decisione del
giudizio a quo (e tale influenza, in caso di identità delle questioni di
costituzionalità, non è diversa se la sentenza della Corte sia stata
pronunciata in seguito ad un’ordinanza di rimessione adottata nell’ambito di un
diverso giudizio, dallo stesso o da altro giudice). Tuttavia, l’esperienza ha
dimostrato che, mentre nel caso di dissenso tra giudice a quo e Corte
circa la rilevanza della questione di costituzionalità, la decisione della
Corte finisce sempre per prevalere (perché il giudice a quo non ha
strumenti processuali che gli consentano di superarla[12]),
nel caso di dissenso circa l’influenza della decisione di incostituzionalità
sul giudizio in corso è la Corte che non ha strumenti processuali i quali le
consentano di imporre il suo punto di vista in relazione ad una determinata
pronuncia, qualora il giudice che a giudizio della Corte dovrebbe applicarla
escluda invece di doverlo fare, anche se sulla base di un’operazione
interpretativa più o meno discutibile[13].
3.
Assai più intricato è il ragionamento che ha portato la Corte costituzionale ad
individuare in ciascun giudice che sia competente a gestire un determinato
affare giudiziario l’esponente del “potere giudiziario” che possa assumere la
qualità di parte (ricorrente ovvero anche controparte di un ricorso di un altro
potere) in un giudizio per conflitto di attribuzioni fra i poteri dello Stato.
In proposito occorre
ricordare che è sempre stato ritenuto da tutti pacifico che, nella parte in cui
prevede questa competenza della Corte costituzionale, l’art. 134 Cost., abbia
riferimento alla classica tripartizione montesquieuiana, ma che la
conformazione che i pubblici poteri assumono nell’epoca contemporanea rende
impossibile individuare i poteri in questione solamente nei tre classici, cioè
nel legislativo, nell’esecutivo e nel giudiziario. L’art. 37 della legge n.
87/1953, attuativa della norma costituzionale, stabilisce del resto che la
Corte risolve un tale conflitto soltanto “se insorge tra organi competenti a
dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono” e “per la
delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da
norme costituzionali”.
Durante un periodo assai
lungo durante il quale tutti i rari ricorsi rivolti alla Corte in base a questa
previsione furono dichiarati inammissibili perché ritenuti privi dei necessari
requisiti, la dottrina svolse argomentazioni per sostenere che organo
competente a stare in giudizio dinanzi alla Corte in una procedura di questo
genere avrebbe dovuto essere la Corte di Cassazione, oppure il Consiglio
superiore della Magistratura (quanto meno per gli affari riguardanti la
Magistratura ordinaria, altro dovendo verosimilmente dirsi per le
“giurisdizioni speciali”), ma ambedue queste impostazioni furono ritenute poco
convincenti[14].
Ad esse fu contrapposta
un’impostazione del problema la quale faceva perno, più che sul riferimento del
conflitto ad un soggetto individuato in base alla posizione che esso ha nel
sistema degli organi dello Stato, sulla funzione il cui esercizio o mancato
esercizio da luogo al conflitto e ne derivò la configurazione del potere
giudiziario come un potere “diffuso”, a rappresentare il quale è abilitato
qualunque organo giudiziario il quale si trovi ad essere titolare della
specifica funzione cui un determinato conflitto è riconducibile[15].
Questa impostazione fu
recepita dalla Corte costituzionale, la quale venne conseguentemente a
stabilire un collegamento tra la competenza del giudice a gestire un
determinato affare giudiziario, quale risulta dalle varie leggi processuali, e
la qualità di parte di un eventuale giudizio per conflitto di attribuzioni che
sia determinato dall’esercizio o dal mancato esercizio della funzione
giurisdizionale in relazione ad una determinata controversia[16],
sia nel caso in cui è il giudice a lamentare un’invasione o un’interferenza di
un organo pubblico appartenente ad un diverso potere dello Stato, sia nel caso
in cui un tale organo lamenti che un comportamento di un soggetto che agisce
nell’ambito del potere giudiziario realizzi una tale invasione o interferenza.
Negli ultimi tempi i casi
di questo genere si sono fatti relativamente frequenti e la maggior parte delle
controversie di questo tipo sulle quali
Non è possibile
illustrare qui le innumerevoli questioni cui questo controverso indirizzo
giurisprudenziale ha dato luogo[20],
sfociate anche in una condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei
diritti dell’uomo[21].
Accenneremo soltanto agli aspetti più singolari di esso, i quali derivano
soprattutto dalla circostanza che per effetto della soluzione adottata dalla
Corte, il danneggiato da una dichiarazione ingiuriosa o diffamatoria di un
parlamentare non può ottenere una decisione di un giudice per veder riconoscere
il suo diritto al risarcimento del danno – o quanto meno per sentir dire dal
giudice che il suo danno non è risarcibile perché deriva da un’opinione
espressa da un parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni (e quindi nel
supremo interesse della Nazione) – se la Camera cui il parlamentare appartiene
(a conclusione di un dibattito cui lo stesso potenziale responsabile può
partecipare ed a conclusione del quale in teoria potrebbe addirittura votare – mentre
l’altra parte ne è completamente esclusa) afferma che ricorre l’esimente
prevista dall’art. 68, comma primo, della Costituzione, a meno che – non lui,
ma – il giudice cui egli si sia rivolto promuova un giudizio per conflitto fra
poteri e la Corte costituzionale annulli la delibera parlamentare, ritenendo
che nelle circostanze l’esimente non è applicabile[22].
Conseguentemente, non
soltanto il cittadino vede il suo diritto di ricorrere ad un giudice a tutela
dei suoi diritti – il droit au juge studiato da Favoreu[23]
- subordinato al fatto che il giudice competente a decidere in merito promuova
il giudizio davanti alla Corte e che questa gli dia ragione sulla questione
circa l’esistenza dell’esimente, ma si ha altresì un’anomala situazione nella
quale un giudice di una controversia sorta fra due parti si trova nella
necessità, per poter assolvere la sua funzione, di promuovere un giudizio
davanti alla Corte costituzionale (parti del quale sono lui stesso e l’organo
parlamentare cui appartiene una delle parti del giudizio del quale egli è
giudice). Come ognun vede, in virtù di questa assurda procedura, uno stesso
soggetto si trova ad essere parte di una controversia e giudice di un’altra che
hanno sostanzialmente lo stesso oggetto, per cui parrebbe doverne derivare
quanto meno un’incompatibilità a giudicare[24].
Il caso qui considerato
non può essere peraltro confuso con quello segnalato nella prima parte di
questa nota, nel quale il giudice di una controversia chiede alla Corte di
controllare la costituzionalità della legge da applicare, perché in questo caso
il giudice è veramente una parte del giudizio che si svolge davanti alla Corte,
la cui decisione verte proprio sul suo diritto di giudicare la causa in corso
davanti a lui, mentre nel caso del giudizio incidentale si ha una semplice
rapporto di pregiudizialità fra due decisioni giurisdizionali destinate ad
integrarsi. In base alla disciplina tracciata dalla sentenza n.
1150/1988, poi confermata dalla legge n. 140/2003, la pregiudizialità
esiste semmai fra il giudizio relativo al risarcimento del danno e la decisione
della Camera di appartenenza del soggetto convenuto in tale giudizio circa la
riferibilità della sua condotta alle sue funzioni di parlamentare, per effetto
della quale
4.
Una situazione analoga a quella dei conflitti tra poteri originati dalle
richieste di immunità ex art. 68, Cost., si è determinata anche nei conflitti
fra Stato e Regione originati dalle richieste di immunità ex art. 122, quarto
comma, per il quale anche i consiglieri regionali “non possono essere chiamati
a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro
funzioni”.
In proposito è da notare
che, se questo tipo di conflitti fossero stato configurati esclusivamente come
casi di vindicatio potestatis come si pensava all’inizio, questa
eventualità sarebbe stata necessariamente esclusa, dato che alle Regioni
italiane sono attribuite soltanto funzioni legislative e amministrative, mentre
le funzioni giurisdizionali sono totalmente riservate allo Stato. La
giurisprudenza della Corte ha però ammesso che un ricorso per conflitto di questo
tipo sia proponibile non soltanto per dedurre una vindicatio potestatis,
ma anche per dedurre che l’esercizio di una funzione pacificamente propria
dell’ente contro il quale il ricorso è proposto, per le modalità con cui ha
avuto luogo, si risolve in una “menomazione” di una funzione propria del
ricorrente. E’ stato così possibile ritenere ammissibili ricorsi proposti da
Regioni con i quali si deduceva che un atto giurisdizionale ledeva l’immunità
accordata ai consiglieri regionali dall’art. 122, quarto comma, con
l’aggravante però che, essendo in questo caso le parti del processo che si
svolge davanti alla Corte costituzionale la Regione, rappresentata dal
Presidente della Giunta regionale, e lo Stato, rappresentato dal Presidente del
Consiglio dei ministri, le ragioni dell’organo del potere giudiziario che ha
emanato l’atto impugnato venivano ad essere affidate al capo del potere
esecutivo, cioè proprio a colui che nei conflitti tra poteri di analoga natura
è l’avversario naturale del potere giudiziario.
Dopo che molti commenti
dottrinali avevano fatto rilevare il carattere paradossale di questo
orientamento giurisprudenziale,
5.
Collegata all’orientamento della Corte costituzionale che è alla base dei casi
teste riferiti è la giurisprudenza che essa ha adottato in alcuni giudizi di
costituzionalità delle leggi in via incidentale nei quali essa ha esaminato
norme dell’ordinamento giudiziario censurate per violazione per principio di
precostituzione del giudice (stabilito art. 25, primo comma, Cost.), in quanto
conferivano al dirigente dell’ufficio un potere discrezionale di assegnazione
delle cause ai magistrati appartenenti all’ufficio. Nella sentenza n.
143/1973[26]
Questa impostazione ha
probabilmente influito sulla giurisprudenza in tema di conflitti sopra
ricordata che espropria il privato del suo diritto di agire in giudizio
(sancito dall’art. 24, Cost., che la Corte costituzionale, peraltro, ha
qualificato come un “principio supremo” non modificabile neppure attraverso una
revisione costituzionale), trasferendo al giudice il compito di curare gli interessi
della parte.
6.
A conclusione di queste osservazioni è possibile ricavare, dall’esperienza
compiuta in Italia in questo campo, una chiara indicazione della necessità di
tenere ben distinto il diritto della parte di agire in giudizio a tutela dei suoi
interessi, che non può non comprendere il diritto di esercitare personalmente
tutti i diritti processuali in cui il diritto di azione si articola, dai
diritti funzionali che sono accordati ai titolari di pubblici uffici e che
indubbiamente comprendono il diritto ad esercitare le funzioni loro assegnate
senza subire discriminazioni.
L’organizzazione delle
funzioni giurisdizionali non esclude, in linea di principio, che la competenza
a decidere determinate controversie possa essere ripartita fra diversi giudici
in modo tale che taluno di essi – in ragione della sua specializzazione - debba
risolvere questioni che si presentano come pregiudiziali rispetto ad altre,
ovvero rispetto alla decisione complessiva della causa, ma qualora una
soluzione di questo genere venga adottata, i giudici fra i quali la competenza
venga ripartita devono rispondere tutti a quelli che sono i requisiti
fondamentali della funzione di giudicare, cioè deve trattarsi di soggetti dei
quali sia assicurata l’indipendenza, l’imparzialità, ecc.
Il fatto che, in alcuni
dei casi che abbiamo sopra ricordato, il problema dei rapporti fra giudice
costituzionale e altri giudici non abbia trovato soluzioni pienamente razionali
e compatibili con i principi del moderno costituzionalismo non esclude che nel
complesso il sistema di controllo incidentale di costituzionalità delle leggi
abbia svolto un ruolo assai positivo, sia perché ha permesso l’eliminazione di
gran parte della legislazione anteriore alla Costituzione, larga parte era
incompatibile con i principi da essa introdotti, sia perché ha svolto un ruolo
educativo dei giuristi italiani – magistrati e avvocati – ai principi cui la
Costituzione stessa si ispirava.
Le difficoltà che sono
state incontrate in Italia non escludono tuttavia che le ricerche sulla
giustizia costituzionale, meglio se condotte con metodo comparatistico, come
Favoreu ci ha insegnato a fare, consentano di realizzare in avvenire soluzioni
più eque e razionali.
(*)
Scritto destinato alla raccolta di
studi in memoria di Louis Favoreu, in corso di pubblicazione.
[1] In particolare nella efficacissima
sintesi, elaborata in collaborazione con Loic Philip, Les grandes décisions
du Conseil constitutionnel, 13a edizione, Paris, Dalloz, 2005.
[2] Vedi,
da ultimo, La question préjudicielle de constitutionnalité. Retour sur un
débat récurrent, in Mélanges Philippe Ardant, Paris, LGDJ, 1999, 265
ss.
[3] Cfr. M. CAPPELLETTI, La
pregiudizialità costituzionale nel processo civile, Milano, Giuffrè, 1957,
143 ss. Per ulteriori indicazioni in proposito, cfr. R. ROMBOLI, Il giudizio
costituzionale incidentale come processo senza parti, Milano, Giuffrè,
1985, 80-81 e nota 62.
[4] Non è necessario qui valutare
l’orientamento della Corte costituzionale secondo il quale l’”intervento” del
Presidente del Consiglio o del Presidente della Giunta regionale non deve
essere considerato, quanto meno a certi fini, come la costituzione in giudizio
di una vera e propria “parte” processuale (sentenza n.
210/1983, in Giur.cost., 1983, 1252).
[5] Cfr. l’art. 22 delle “Norme integrative per i
giudizi avanti la Corte costituzionale”, approvate dalla stessa Corte.
[6] Donde la doppia natura di questo
atto che, nell’ambito del giudizio a quo, determina la sospensione del
giudizio in corso e, nell’ambito del processo costituzionale, produce quel
complesso di effetti che sono normalmente propri dell’atto introduttivo, quali
la determinazione della materia del contendere, la vocatio in iudicium
delle parti e l’attivazione dell’obbligo del giudice di pronunciarsi, ecc.
[7] Cfr. A. PIZZORUSSO, La
restituzione degli atti al giudice “a quo” nel processo costituzionale
incidentale, Milano, Giuffrè, 1965; M. LUCIANI, Le decisioni processuali
e la logica del giudizio costituzionale incidentale, Padova, Cedam, 1984,
39 ss.; R. ROMBOLI, Evoluzione giurisprudenziale ed aspetti problematici
della restituzione degli atti al giudice “a quo”, in Giur. cost.,
1992, 543 ss.
[8] Tali questioni, com’è ovvio, possono
riguardare tanto le norme sostanziali che devono essere applicate per
accogliere o respingere nel merito la domanda giudiziale, quanto le norme
processuali che debbono essere applicate perché il giudice possa pervenire ad
una tale decisione.
[9] Il carattere giurisdizionale
dell’attività della Corte costituzionale è ormai pacifico nella dottrina
italiana, dopo che – nella fase precedente l’inizio dell’attività della Corte –
una qualificazione di esse come “legislativa” era stata prospettata da P.
CALAMANDREI, L’illegittimità costituzionale delle leggi nel processo civile,
Padova, Cedam, 1950, XIX ss. e passim.
[10] Cfr., da ultimo, V. BARSOTTI, L’arte
di tacere. Strumenti e tecniche di non decisione della Corte suprema degli
Stati Uniti, Torino, Giappichelli, 1999; P. BIANCHI, La creazione
giurisprudenziale delle tecniche di selezione dei casi, Torino,
Giappichelli, 2000.
[11] Cfr. da ultimo, l’ordinanza n.
108/2001, in Giur. cost., 2001,711, con osservazioni critiche di A.
PACE.
[12] Unica eventualità ipotizzabile
sembrando essere quella in cui il giudice si induca, visto il rifiuto della
Corte di decidere la questione, di risolverla lui, con effetti soltanto inter
partes, ma anche questa ipotesi, avanzata in dottrina (cfr. A. PIZZORUSSO, “Verfassungsgerichtsbarkeit”
o “Judicial Review of Legislation”, in Foro it., 1979, I, 1933 ss.),
non ha trovato applicazioni pratiche.
[13] Cfr. L. ELIA,
[14] In realtà, l’individuazione nel
Consiglio superiore della magistratura del titolare della funzione di
rappresentanza del potere giudiziario nei giudizi sui conflitti potrebbe
trovare un qualche fondamento nella titolarità, che è propria di quest’organo,
delle funzioni amministrative strumentali rispetto all’esercizio delle funzioni
giurisdizionali proprie dei giudici e dei pubblici ministeri.
[15] Cfr. E. CAPACCIOLI, Forma e
sostanza dei provvedimenti relativi ai magistrati ordinari, in Riv. It
.dir .proc .penale, 1964, 272 ss.
[16] Con conseguente possibilità di
trasmigrazione della titolarità della funzione da un soggetto ad un altro a
mano a mano che, nel corso del processo, la competenza di uno subentri a quella
di un altro.
[17] In Giur .cost., 1988, I,
5588.
[18] Per i “voti dati” la soluzione del
problema è normalmente fuori discussione.
[19] Per effetto di questa impostazione
del problema, avviene che la decisione circa l’applicabilità dell’immunità di
cui all’art. 68, primo comma, Cost., in un giudizio del quale essa costituisca
un passaggio decisivo, non spetti al giudice della causa, bensì alla Camera di appartenenza
del parlamentare, e si risolva in una vera e propria “questione pregiudiziale”
riesaminabile soltanto dalla Corte costituzionale a seguito in un incidente
sollevato dal giudice della causa principale e svoltosi fra questi e la Camera.
La dottrina ha rilevato in ciò una lunga serie di violazioni di principi
costituzionali che non sembrano superabili dando per implicito che la
“pregiudiziale parlamentare” (come viene ormai generalmente chiamata: cfr. R.
ROMBOLI, in Foro it., 1994, I, 995) sia presupposta dall’art. 68, 1°
comma, Cost., il quale derogherebbe così ad un nutrito gruppo di principi
costituzionali, alcuni dei quali qualificati come “supremi”.
[20] Cfr., da ultimo, fra i moltissimi
che si sono occupati dell’argomento, M. C. GRISOLIA, Immunità parlamentari e
Costituzione, Padova, Cedam, 2000; C. MARTINELLI, L’insindacabilità
parlamentare, Milano, Giuffrè, 2002; A. PIZZORUSSO, Immunità
parlamentari e diritti di azione e di difesa, in Foro italiano,
2000, V, 302 ss.
[21] Corte eur.diritti dell’uomo, 30
gennaio 2003, Cordova, in Foro it., 2004, IV, 293.
[22] Nei casi ormai numerosi in cui ciò è
accaduto, la Corte ha stabilito che le dichiarazioni del parlamentare
denunziate come diffamatorie non potevano essere riferite all’esercizio delle
funzioni parlamentari.
[23] Du déni de justice en droit public interne,
Paris, LGDJ, 1964; Résurgence de la notion de déni de justice et droit au
juge, in Liber amicorum Jean Waline, Paris, Dalloz, 2002, 513 ss.
[24] L’assurdità della situazione è aggravata
dalla circostanza che il privato interessato non può partecipare al giudizio
per conflitto di attribuzioni che si svolge davanti alla Corte. Parte
ricorrente di tale giudizio è infatti il giudice della controversia fra il
soggetto che vanta il diritto al risarcimento del danno e quello che glielo
contesta e pertanto è al giudice che spetta la conduzione della causa, il
pagamento delle relative spese, ecc. In numerosi casi, la Corte costituzionale
ha dichiarato inammissibili ricorsi di questo tipo per difetti di
notificazioni, inosservanza di termini, ecc. (dovute a trascuratezze del
personale giudiziario che dovrebbe coltivare la causa), con conseguente perdita
del diritto al risarcimento da parte del danneggiato, indipendentemente dal
fatto che la sua azione giudiziaria sia fondata o infondata, senza che egli
abbia alcuna possibilità di ovviare a questo risultato o che il suo eventuale
danno patrimoniale sia in alcun modo risarcito.
[25] Art.9, Deliberazione 10 giugno 2004,
modificativa dell’art. 27 delle Norme integrative 16 marzo
1956.
[26] In Giur.cost., 1973, 1430.
Nello stesso senso, seppur con riferimento ad un diverso problema, cfr. anche
la sentenza n.
245/1974, id., 1974, 2365.