Alessandro Pizzorusso

Un caso di “déni de justice” nel sistema italiano di giustizia costituzionale (*).

 

1. L’apporto degli studi di Louis Favoreu sulla giustizia costituzionale, che è risultato determinante per lo sviluppo dell’oggetto della disciplina in Francia e altrove, ha avuto importanti riflessi anche in quei paesi che, come l’Italia, avevano già una Corte costituzionale da tempo funzionante al momento in cui egli ha concentrato su questa materia la sua attività di studioso e di promotore di cultura, costituendo il GERJC, analizzando sistematicamente l’attività del Conseil constitutionnel[1] e dando impulso ad una quantità di altre iniziative di studio e di ricerca in Francia e altrove.

In questo quadro complessivo si inseriscono gli interventi da lui svolti in relazione al progetto di introduzione nell’ordinamento francese di una forma di controllo “incidentale” di costituzionalità delle leggi (rimasto fin qui allo stato di progetto)[2] e in tema di rapporti tra le decisioni del Conseil e quelle dei giudici ordinari derivanti, sia dagli effetti propri delle decisioni del primo, sia dalla capacità di questi ultimi di creare, mediante le loro interpretazioni, forme di “diritto vivente” destinato a confrontarsi con le interpretazioni dello stesso Conseil.

Nonostante gli sviluppi del problema che egli ha contribuito a segnalare, nell’ordinamento francese la separazione fra l’attività del giudice costituzionale e quella dei giudici ordinari costituisce pur sempre la regola generale, derivante soprattutto dal carattere di insindacabilità che la legge ordinaria assume una volta promulgata e dall’efficacia di giudicato riconosciuta anche alle decisioni di rigetto del Conseil. Questi fattori costituiscono anzi, probabilmente, il più rilevante motivo di differenziazione del sistema francese di giustizia costituzionale dagli altri sistemi europei, nei quali invece – nonostante la comune derivazione dall’impostazione kelseniana - qualunque giudice ha più o meno ampie opportunità di collaborare o di confrontarsi con il giudice costituzionale.

Quest’ultimo è chiaramente il caso dell’ordinamento italiano, nell’ambito del quale il giudice ordinario ha due diverse possibilità di incrociare la sua attività processuale con quella della Corte costituzionale: l’una, che indubbiamente è la più frequente e lineare, nell’ambito della procedura di controllo “incidentale” della costituzionalità di una disposizione o norma di legge che egli debba applicare nel corso di un giudizio pendente davanti a lui o della quale egli debba constatare la cessazione di efficacia derivante da una decisione della Corte costituzionale; l’altra, di meno frequente verificazione (ma indubbiamente non così eccezionale come ci si sarebbe potuti attendere), nei casi in cui un giudice si trova ad intervenire in qualità di parte in un giudizio avente ad oggetto un conflitto di attribuzioni fra i poteri dello Stato, nel quale egli impersona il potere giudiziario. A quest’ultima ipotesi è in qualche misura assimilabile, come vedremo, quella in cui una Regione proponga nei confronti dello Stato un conflitto di attribuzioni determinato da un atto giurisdizionale che essa assume essere lesivo delle sue competenze.

 

2. Con riferimento alla prima eventualità è opportuno ricordare la tesi, che fu inizialmente sostenuta da Mauro Cappelletti, secondo la quale il giudice che solleva e rimette alla decisione della Corte costituzionale (su istanza di parte o d’ufficio) una questione di costituzionalità di una disposizione o norma della quale egli preveda la necessaria applicazione nell’ulteriore corso del processo eserciterebbe un suo “diritto di azione”[3], così da presentarsi come l’attore del processo costituzionale che conseguentemente si apre davanti alla Corte costituzionale. Ciò, sia perché è il giudice a quo, con la sua “ordinanza di rimessione”, a determinare la materia del contendere davanti alla Corte, sia perché la partecipazione degli altri soggetti legittimati a “costituirsi” nel giudizio davanti alla Corte (cioè, soltanto, le parti del giudizio a quo e il Presidente della Consiglio dei ministri o della Giunta regionale, secondo che la legge impugnata sia dello Stato o di una Regione[4]) è puramente facoltativa e la loro eventuale inattività non ha alcuna ripercussione sul diritto-dovere della Corte di decidere la questione propostale[5].

Questa tesi ha avuto scarso seguito ed è ormai abbandonata da molto tempo. Se è vero infatti, che l’ordinanza del giudice a quo opera come un vero e proprio atto introduttivo del processo incidentale che si svolge davanti alla Corte[6], l’assetto che il processo costituzionale incidentale ha assunto, una volta che ha cominciato a funzionare, è stato nettamente nel senso di escludere qualunque partecipazione del giudice a quo al processo stesso, mentre la disciplina delle “parti” sopra menzionate, se è risultata assai diversa da quella delle parti del processo civile o penale, ha assunto comunque una parziale analogia rispetto alla posizione del parti del processo amministrativo. E che l’iniziativa del giudice a quo si collochi più sul versante del giudice che su quello delle parti risulta anche dalla prassi, che la Corte ha instaurato in via giurisprudenziale, di “restituirgli gli atti”, senza decidere, per segnalargli l’opportunità di integrare l’ordinanza o addirittura di svolgere ulteriori accertamenti che si presentano in qualche modo come preliminari rispetto alla decisione della questione di costituzionalità della legge da applicare ai fatti per cui è causa[7].

Questo atteggiamento della Corte, che indubbiamente appare pienamente coerente con la configurazione della questione di costituzionalità come una “questione pregiudiziale” rispetto ad una “questione di merito” che il giudice a quo deve affrontare per decidere la causa della quale è investito[8], appare del tutto coerente con le decisioni della Corte in cui essa ha interpretato, corretto o talora addirittura integrato le enunciazioni contenute nell’ordinanza di rimessione al fine di mettere più esattamente a fuoco la questione di costituzionalità con essa espressa, mentre appare meno coerente con il diverso atteggiamento, talora da essa assunto, volto a controllare in modo assai fiscale l’ordinanza di rimessione (dichiarando la questione inammissibile per vizi procedurali anche in casi nei quali sarebbe facile stabilire quale sia la domanda che il giudice intende proporre, anche se la sua formulazione è per qualche motivo imperfetta) quasi che l’ordinanza di rimessione fosse soltanto un atto di parte e non esprimesse in definitiva quella stessa funzione giurisdizionale che anche la Corte esercita[9]. Anche se la decisione della Corte, nel caso in cui sia una decisione di accoglimento, ha effetti erga omnes simili a quelli della legge (i quali vanno quindi ben al di là della decisione della controversia in corso davanti al giudice a quo), non vi è dubbio che essa costituisce, prima di tutto e in ogni caso (anche ove contenga una dichiarazione di infondatezza), la soluzione di uno dei passaggi logici che occorre attraversare per pervenire alla decisione della controversia complessivamente considerata.

Se infatti appare comprensibile che la Corte, non disponendo di un potere di selezione dei casi[10] simile a quello di cui possono avvalersi altri giudici che occupano una posizione analoga in ordinamenti stranieri, cerchi talora di utilizzare a tal fine le cause d’inammissibilità della questione (le quali normalmente non possono impedire la riproposizione di essa, se il giudice a quo è deciso ad insistere, ma possono giustificarne quanto meno un differimento), meno accettabile appare l’assunzione di atteggiamenti censori che in qualche caso (invero non frequente) trapelano dai provvedimenti di questo tipo, quasi che la Corte avesse funzioni simili a quelle che normalmente spettano al giudice dell’impugnazione rispetto ai provvedimenti da lui controllati.

A parte questi aspetti pratici, il cui rilievo sul piano teorico è certamente modesto, merita segnalare come il fatto che, se giudice a quo e Corte costituiscono in sostanza due giudici che cooperano alla decisione di una causa (salvi gli eventuali effetti ulteriori della decisione della seconda), il principio iura novit curia vale per entrambi, salvi gli effetti della regola, che sta alla base della pregiudizialità della questione di costituzionalità rispetto alla questione di merito, per cui la prima deve essere “rilevante” rispetto ad una delle questioni che dovranno essere affrontate nell’ulteriore corso del giudizio a quo. Ma un’importante differenza deriva dal fatto che, mentre per il giudice a quo gli iura sono le disposizioni o norme da applicare ai fatti della causa (mentre le norme costituzionali, in quanto parametro della costituzionalità di queste, sono iura in un senso parzialmente diverso), per la Corte tali sono le disposizioni o norme costituzionali che potrebbero giustificare una pronuncia di invalidità della regola che altrimenti dovrebbe essere applicata a taluno dei fatti della causa in corso davanti al giudice a quo.

Di qui nasce indubbiamente una differenza fra la posizione del giudice a quo e la posizione della Corte, poiché è il primo che sceglie il momento in cui aprire l’incidente di costituzionalità (anche sulla base di valutazioni che comprendono mere previsioni di quanto accadrà nell’ulteriore corso del processo) e poiché il potere di decidere della seconda è limitato dalla richiesta avanzata dal primo, e le maggiori difficoltà che si sono presentate nella pratica sono sorte infatti dalla possibilità che il giudice a quo non ottemperi al canone della rilevanza e proponga alla Corte questioni di costituzionalità che non sono in rapporto di pregiudizialità con quelle da decidere nel giudizio a quo. In tal caso, può la Corte sindacare il giudizio compiuto dal giudice a quo circa la rilevanza?

In linea generale, non vi è dubbio che, al pari di qualunque giudice, anche la Corte costituzionale possa controllare che l’ordinanza del giudice costituisca un valido atto introduttivo di un giudizio di sua competenza, e quindi stabilire se esso presenti i requisiti che la legge prescrive per un tale atto. Così non vi è dubbio che la Corte possa decidere che il soggetto che lo ha adottato sia un “giudice”, che esso sia stato pronunciato “nel corso di un giudizio”, ecc. Le difficoltà nascono nei casi in cui, per decidere se una questione di costituzionalità è rilevante rispetto al giudizio a quo, occorre stabilire se la disposizione o norma di legge che la questione ha ad oggetto sia quella che deve essere applicata ai fatti della causa, o se invece questa possa essere decisa con esito diverso in base ad un’altra disposizione o norma. In tal caso, infatti, decidere se la questione di costituzionalità sia rilevante può coincidere col decidere la causa nel merito, cioè se dar ragione all’attore o al convenuto (o, analogamente, all’una o all’altra delle parti di un processo penale o amministrativo). Quando ricorra una tale ipotesi, può la Corte costituzionale sostituirsi al giudice a quo, nel valutare la rilevanza, con la conseguenza di sostituirsi ad esso anche nel decidere la causa nel merito (il che ovviamente non rientra nella competenza della Corte, ma in quella del giudice a quo)?

Una risposta pienamente convincente a questa domanda non è stata trovata. Nei primi anni della sua attività, la Corte adottò un orientamento giurisprudenziale secondo il quale la valutazione della rilevanza della questione di costituzionalità spettava al giudice a quo e non era sindacabile dalla Corte, ma in seguito modificò questo indirizzo, dapprima affermando che la valutazione del giudice a quo doveva essere adeguatamente motivata (a scanso di restituzione degli atti per il riesame della rilevanza) e successivamente finendo per ammettere la possibilità di controllare se la rilevanza sussistesse, anche al fine di dichiarare la questione inammissibile per difetto del corrispondente requisito dell’atto introduttivo del giudizio. Vi è stata qualche “ribellione” da parte di giudici che hanno riproposto la questione, ma la Corte non ha desistito dalla sua posizione, giungendo a dichiarare inammissibili le questioni riproposte dopo una prima dichiarazione d’inammissibilità, talora configurate addirittura come tendenti a dar luogo ad un’impugnazione della decisione della Corte, come tale esclusa dall’art.137, 3° comma, Cost.[11]

E’ da segnalare che la valutazione della rilevanza di una questione di costituzionalità che si prevede dovrà essere applicata nel giudizio a quo ai fini della sua eventuale rimessione alla Corte si presenta come del tutto simmetrica rispetto alla valutazione dell’influenza che la decisione d’incostituzionalità che sulla stessa questione sia stata pronunciata dalla Corte costituzionale abbia sulla decisione del giudizio a quo (e tale influenza, in caso di identità delle questioni di costituzionalità, non è diversa se la sentenza della Corte sia stata pronunciata in seguito ad un’ordinanza di rimessione adottata nell’ambito di un diverso giudizio, dallo stesso o da altro giudice). Tuttavia, l’esperienza ha dimostrato che, mentre nel caso di dissenso tra giudice a quo e Corte circa la rilevanza della questione di costituzionalità, la decisione della Corte finisce sempre per prevalere (perché il giudice a quo non ha strumenti processuali che gli consentano di superarla[12]), nel caso di dissenso circa l’influenza della decisione di incostituzionalità sul giudizio in corso è la Corte che non ha strumenti processuali i quali le consentano di imporre il suo punto di vista in relazione ad una determinata pronuncia, qualora il giudice che a giudizio della Corte dovrebbe applicarla escluda invece di doverlo fare, anche se sulla base di un’operazione interpretativa più o meno discutibile[13].

 

3. Assai più intricato è il ragionamento che ha portato la Corte costituzionale ad individuare in ciascun giudice che sia competente a gestire un determinato affare giudiziario l’esponente del “potere giudiziario” che possa assumere la qualità di parte (ricorrente ovvero anche controparte di un ricorso di un altro potere) in un giudizio per conflitto di attribuzioni fra i poteri dello Stato.

In proposito occorre ricordare che è sempre stato ritenuto da tutti pacifico che, nella parte in cui prevede questa competenza della Corte costituzionale, l’art. 134 Cost., abbia riferimento alla classica tripartizione montesquieuiana, ma che la conformazione che i pubblici poteri assumono nell’epoca contemporanea rende impossibile individuare i poteri in questione solamente nei tre classici, cioè nel legislativo, nell’esecutivo e nel giudiziario. L’art. 37 della legge n. 87/1953, attuativa della norma costituzionale, stabilisce del resto che la Corte risolve un tale conflitto soltanto “se insorge tra organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono” e “per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali”.

Durante un periodo assai lungo durante il quale tutti i rari ricorsi rivolti alla Corte in base a questa previsione furono dichiarati inammissibili perché ritenuti privi dei necessari requisiti, la dottrina svolse argomentazioni per sostenere che organo competente a stare in giudizio dinanzi alla Corte in una procedura di questo genere avrebbe dovuto essere la Corte di Cassazione, oppure il Consiglio superiore della Magistratura (quanto meno per gli affari riguardanti la Magistratura ordinaria, altro dovendo verosimilmente dirsi per le “giurisdizioni speciali”), ma ambedue queste impostazioni furono ritenute poco convincenti[14].

Ad esse fu contrapposta un’impostazione del problema la quale faceva perno, più che sul riferimento del conflitto ad un soggetto individuato in base alla posizione che esso ha nel sistema degli organi dello Stato, sulla funzione il cui esercizio o mancato esercizio da luogo al conflitto e ne derivò la configurazione del potere giudiziario come un potere “diffuso”, a rappresentare il quale è abilitato qualunque organo giudiziario il quale si trovi ad essere titolare della specifica funzione cui un determinato conflitto è riconducibile[15].

Questa impostazione fu recepita dalla Corte costituzionale, la quale venne conseguentemente a stabilire un collegamento tra la competenza del giudice a gestire un determinato affare giudiziario, quale risulta dalle varie leggi processuali, e la qualità di parte di un eventuale giudizio per conflitto di attribuzioni che sia determinato dall’esercizio o dal mancato esercizio della funzione giurisdizionale in relazione ad una determinata controversia[16], sia nel caso in cui è il giudice a lamentare un’invasione o un’interferenza di un organo pubblico appartenente ad un diverso potere dello Stato, sia nel caso in cui un tale organo lamenti che un comportamento di un soggetto che agisce nell’ambito del potere giudiziario realizzi una tale invasione o interferenza.

Negli ultimi tempi i casi di questo genere si sono fatti relativamente frequenti e la maggior parte delle controversie di questo tipo sulle quali la Corte costituzionale ha dovuto pronunciarsi sono sorte per effetto della controversa interpretazione dell’art. 68, primo comma, Cost., sull’immunità dei membri del Parlamento per le opinioni espresse e i voti dati, che la Corte ha adottato nella sentenza n.1150/1988[17]. In essa la Corte ha affermato che la decisione pronunciata dalle Camere di appartenenza dei parlamentari circa la riferibilità delle opinioni da essi espresse alle funzioni inerenti alla loro carica[18] fa stato in eventuali giudizi promossi nei loro confronti per l’affermazione di conseguenti responsabilità di qualsiasi genere, a meno che il giudice della causa proposta per l’accertamento di tali responsabilità non ritenga che la deliberazione parlamentare costituisca un’indebita interferenza nei confronti della funzione giurisdizionale da lui esercitata e ritenga di proporre alla Corte costituzionale un ricorso per conflitto di attribuzioni fra la Camera cui è imputabile la delibera e il potere giudiziario, ove quest’ultimo è rappresentato dal giudice competente a decidere la causa volta all’accertamento della responsabilità civile, penale o amministrativa del parlamentare[19].

Non è possibile illustrare qui le innumerevoli questioni cui questo controverso indirizzo giurisprudenziale ha dato luogo[20], sfociate anche in una condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo[21]. Accenneremo soltanto agli aspetti più singolari di esso, i quali derivano soprattutto dalla circostanza che per effetto della soluzione adottata dalla Corte, il danneggiato da una dichiarazione ingiuriosa o diffamatoria di un parlamentare non può ottenere una decisione di un giudice per veder riconoscere il suo diritto al risarcimento del danno – o quanto meno per sentir dire dal giudice che il suo danno non è risarcibile perché deriva da un’opinione espressa da un parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni (e quindi nel supremo interesse della Nazione) – se la Camera cui il parlamentare appartiene (a conclusione di un dibattito cui lo stesso potenziale responsabile può partecipare ed a conclusione del quale in teoria potrebbe addirittura votare – mentre l’altra parte ne è completamente esclusa) afferma che ricorre l’esimente prevista dall’art. 68, comma primo, della Costituzione, a meno che – non lui, ma – il giudice cui egli si sia rivolto promuova un giudizio per conflitto fra poteri e la Corte costituzionale annulli la delibera parlamentare, ritenendo che nelle circostanze l’esimente non è applicabile[22].

Conseguentemente, non soltanto il cittadino vede il suo diritto di ricorrere ad un giudice a tutela dei suoi diritti – il droit au juge studiato da Favoreu[23] - subordinato al fatto che il giudice competente a decidere in merito promuova il giudizio davanti alla Corte e che questa gli dia ragione sulla questione circa l’esistenza dell’esimente, ma si ha altresì un’anomala situazione nella quale un giudice di una controversia sorta fra due parti si trova nella necessità, per poter assolvere la sua funzione, di promuovere un giudizio davanti alla Corte costituzionale (parti del quale sono lui stesso e l’organo parlamentare cui appartiene una delle parti del giudizio del quale egli è giudice). Come ognun vede, in virtù di questa assurda procedura, uno stesso soggetto si trova ad essere parte di una controversia e giudice di un’altra che hanno sostanzialmente lo stesso oggetto, per cui parrebbe doverne derivare quanto meno un’incompatibilità a giudicare[24].

Il caso qui considerato non può essere peraltro confuso con quello segnalato nella prima parte di questa nota, nel quale il giudice di una controversia chiede alla Corte di controllare la costituzionalità della legge da applicare, perché in questo caso il giudice è veramente una parte del giudizio che si svolge davanti alla Corte, la cui decisione verte proprio sul suo diritto di giudicare la causa in corso davanti a lui, mentre nel caso del giudizio incidentale si ha una semplice rapporto di pregiudizialità fra due decisioni giurisdizionali destinate ad integrarsi. In base alla disciplina tracciata dalla sentenza n. 1150/1988, poi confermata dalla legge n. 140/2003, la pregiudizialità esiste semmai fra il giudizio relativo al risarcimento del danno e la decisione della Camera di appartenenza del soggetto convenuto in tale giudizio circa la riferibilità della sua condotta alle sue funzioni di parlamentare, per effetto della quale la Camera viene ad assumere il ruolo di un giudice speciale (la cui imparzialità è ovviamente dubbia) e la cui decisione è impugnabile davanti alla Corte costituzionale, ma non dall’interessato, bensì – facoltativamente - da un soggetto terzo ed imparziale quale è il giudice della causa (come ora sottolinea l’art. 111, Cost., modificato dalla legge cost. n. 2/1999).

 

4. Una situazione analoga a quella dei conflitti tra poteri originati dalle richieste di immunità ex art. 68, Cost., si è determinata anche nei conflitti fra Stato e Regione originati dalle richieste di immunità ex art. 122, quarto comma, per il quale anche i consiglieri regionali “non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”.

In proposito è da notare che, se questo tipo di conflitti fossero stato configurati esclusivamente come casi di vindicatio potestatis come si pensava all’inizio, questa eventualità sarebbe stata necessariamente esclusa, dato che alle Regioni italiane sono attribuite soltanto funzioni legislative e amministrative, mentre le funzioni giurisdizionali sono totalmente riservate allo Stato. La giurisprudenza della Corte ha però ammesso che un ricorso per conflitto di questo tipo sia proponibile non soltanto per dedurre una vindicatio potestatis, ma anche per dedurre che l’esercizio di una funzione pacificamente propria dell’ente contro il quale il ricorso è proposto, per le modalità con cui ha avuto luogo, si risolve in una “menomazione” di una funzione propria del ricorrente. E’ stato così possibile ritenere ammissibili ricorsi proposti da Regioni con i quali si deduceva che un atto giurisdizionale ledeva l’immunità accordata ai consiglieri regionali dall’art. 122, quarto comma, con l’aggravante però che, essendo in questo caso le parti del processo che si svolge davanti alla Corte costituzionale la Regione, rappresentata dal Presidente della Giunta regionale, e lo Stato, rappresentato dal Presidente del Consiglio dei ministri, le ragioni dell’organo del potere giudiziario che ha emanato l’atto impugnato venivano ad essere affidate al capo del potere esecutivo, cioè proprio a colui che nei conflitti tra poteri di analoga natura è l’avversario naturale del potere giudiziario.

Dopo che molti commenti dottrinali avevano fatto rilevare il carattere paradossale di questo orientamento giurisprudenziale, la Corte ha deciso di inserire nelle “Norme integrative” una disposizione[25] la quale prescrive che l’atto introduttivo dei giudizi per conflitti tra enti “deve essere notificato altresì all’organo che ha emanato l’atto, quando si tratti di autorità diverse da quelle di Governo e da quelle dipendenti dal Governo”, onde rendere possibile l’intervento nei relativi giudizi dell’organo del potere giudiziario secondo criteri simili a quelli che abbiamo visto valere per i conflitti fra poteri.

 

5. Collegata all’orientamento della Corte costituzionale che è alla base dei casi teste riferiti è la giurisprudenza che essa ha adottato in alcuni giudizi di costituzionalità delle leggi in via incidentale nei quali essa ha esaminato norme dell’ordinamento giudiziario censurate per violazione per principio di precostituzione del giudice (stabilito art. 25, primo comma, Cost.), in quanto conferivano al dirigente dell’ufficio un potere discrezionale di assegnazione delle cause ai magistrati appartenenti all’ufficio. Nella sentenza n. 143/1973[26] la Corte costituzionale ha affermato che il magistrato il quale si ritenga indebitamente privato del potere di decidere una causa possa ricorrere al Consiglio superiore della magistratura contro il provvedimento del capo dell’ufficio, ma nella sentenza n. 419/1998 la stessa Corte ha escluso che la parte possa invocare come motivo di nullità della decisione adottata la violazione del principio di precostituzione del giudice, nonostante che l’art. 25 della Costituzione, che stabilisce il corrispondente diritto, sia compreso nella parte della Costituzione in cui sono enunciati i diritti dei cittadini e sia formulato appunto come attributivo ad essi (e non ai magistrati) di tale diritto, verosimilmente qualificabile come fondamentale, il diritto al giudice di cui si parlava poc’anzi.

Questa impostazione ha probabilmente influito sulla giurisprudenza in tema di conflitti sopra ricordata che espropria il privato del suo diritto di agire in giudizio (sancito dall’art. 24, Cost., che la Corte costituzionale, peraltro, ha qualificato come un “principio supremo” non modificabile neppure attraverso una revisione costituzionale), trasferendo al giudice il compito di curare gli interessi della parte.

 

6. A conclusione di queste osservazioni è possibile ricavare, dall’esperienza compiuta in Italia in questo campo, una chiara indicazione della necessità di tenere ben distinto il diritto della parte di agire in giudizio a tutela dei suoi interessi, che non può non comprendere il diritto di esercitare personalmente tutti i diritti processuali in cui il diritto di azione si articola, dai diritti funzionali che sono accordati ai titolari di pubblici uffici e che indubbiamente comprendono il diritto ad esercitare le funzioni loro assegnate senza subire discriminazioni.

L’organizzazione delle funzioni giurisdizionali non esclude, in linea di principio, che la competenza a decidere determinate controversie possa essere ripartita fra diversi giudici in modo tale che taluno di essi – in ragione della sua specializzazione - debba risolvere questioni che si presentano come pregiudiziali rispetto ad altre, ovvero rispetto alla decisione complessiva della causa, ma qualora una soluzione di questo genere venga adottata, i giudici fra i quali la competenza venga ripartita devono rispondere tutti a quelli che sono i requisiti fondamentali della funzione di giudicare, cioè deve trattarsi di soggetti dei quali sia assicurata l’indipendenza, l’imparzialità, ecc.

Il fatto che, in alcuni dei casi che abbiamo sopra ricordato, il problema dei rapporti fra giudice costituzionale e altri giudici non abbia trovato soluzioni pienamente razionali e compatibili con i principi del moderno costituzionalismo non esclude che nel complesso il sistema di controllo incidentale di costituzionalità delle leggi abbia svolto un ruolo assai positivo, sia perché ha permesso l’eliminazione di gran parte della legislazione anteriore alla Costituzione, larga parte era incompatibile con i principi da essa introdotti, sia perché ha svolto un ruolo educativo dei giuristi italiani – magistrati e avvocati – ai principi cui la Costituzione stessa si ispirava.

Le difficoltà che sono state incontrate in Italia non escludono tuttavia che le ricerche sulla giustizia costituzionale, meglio se condotte con metodo comparatistico, come Favoreu ci ha insegnato a fare, consentano di realizzare in avvenire soluzioni più eque e razionali.

 



(*) Scritto destinato alla raccolta di studi in memoria di Louis Favoreu, in corso di pubblicazione.

[1] In particolare nella efficacissima sintesi, elaborata in collaborazione con Loic Philip, Les grandes décisions du Conseil constitutionnel, 13a edizione, Paris, Dalloz, 2005.

[2] Vedi, da ultimo, La question préjudicielle de constitutionnalité. Retour sur un débat récurrent, in Mélanges Philippe Ardant, Paris, LGDJ, 1999, 265 ss.

[3] Cfr. M. CAPPELLETTI, La pregiudizialità costituzionale nel processo civile, Milano, Giuffrè, 1957, 143 ss. Per ulteriori indicazioni in proposito, cfr. R. ROMBOLI, Il giudizio costituzionale incidentale come processo senza parti, Milano, Giuffrè, 1985, 80-81 e nota 62.

[4] Non è necessario qui valutare l’orientamento della Corte costituzionale secondo il quale l’”intervento” del Presidente del Consiglio o del Presidente della Giunta regionale non deve essere considerato, quanto meno a certi fini, come la costituzione in giudizio di una vera e propria “parte” processuale (sentenza n. 210/1983, in Giur.cost., 1983, 1252).

[5] Cfr. l’art. 22 delle “Norme integrative per i giudizi avanti la Corte costituzionale”, approvate dalla stessa Corte.

[6] Donde la doppia natura di questo atto che, nell’ambito del giudizio a quo, determina la sospensione del giudizio in corso e, nell’ambito del processo costituzionale, produce quel complesso di effetti che sono normalmente propri dell’atto introduttivo, quali la determinazione della materia del contendere, la vocatio in iudicium delle parti e l’attivazione dell’obbligo del giudice di pronunciarsi, ecc.

[7] Cfr. A. PIZZORUSSO, La restituzione degli atti al giudice “a quo” nel processo costituzionale incidentale, Milano, Giuffrè, 1965; M. LUCIANI, Le decisioni processuali e la logica del giudizio costituzionale incidentale, Padova, Cedam, 1984, 39 ss.; R. ROMBOLI, Evoluzione giurisprudenziale ed aspetti problematici della restituzione degli atti al giudice “a quo”, in Giur. cost., 1992, 543 ss.

[8] Tali questioni, com’è ovvio, possono riguardare tanto le norme sostanziali che devono essere applicate per accogliere o respingere nel merito la domanda giudiziale, quanto le norme processuali che debbono essere applicate perché il giudice possa pervenire ad una tale decisione.

[9] Il carattere giurisdizionale dell’attività della Corte costituzionale è ormai pacifico nella dottrina italiana, dopo che – nella fase precedente l’inizio dell’attività della Corte – una qualificazione di esse come “legislativa” era stata prospettata da P. CALAMANDREI, L’illegittimità costituzionale delle leggi nel processo civile, Padova, Cedam, 1950, XIX ss. e passim. La Corte ha tuttavia distinto la propria attività da quella degli altri giudici in alcune decisioni, nelle quali ha tra l’altro escluso di essere tenuta, in qualità di giudice di ultima istanza, a rimettere alla Corte di Giustizia dell’Unione europea eventuali questioni di diritto comunitario (ordinanza n. 536/1995, in Giur.cost., 1995, 4459). Invece, sulla orme del Verfassungsgerichtshof austriaco, la Corte ha riconosciuto a sé stessa, ormai in molti casi, la qualità di giudice ai fini della rimessione (ovviamente, a sé stessa) di eventuali questioni di costituzionalità di leggi o atti aventi forza di legge ordinaria che essa si trovi a dover applicare nel corso di un giudizio in corso dinanzi ad essa.

[10] Cfr., da ultimo, V. BARSOTTI, L’arte di tacere. Strumenti e tecniche di non decisione della Corte suprema degli Stati Uniti, Torino, Giappichelli, 1999; P. BIANCHI, La creazione giurisprudenziale delle tecniche di selezione dei casi, Torino, Giappichelli, 2000.

[11] Cfr. da ultimo, l’ordinanza n. 108/2001, in Giur. cost., 2001,711, con osservazioni critiche di A. PACE.

[12] Unica eventualità ipotizzabile sembrando essere quella in cui il giudice si induca, visto il rifiuto della Corte di decidere la questione, di risolverla lui, con effetti soltanto inter partes, ma anche questa ipotesi, avanzata in dottrina (cfr. A. PIZZORUSSO, “Verfassungsgerichtsbarkeit” o “Judicial Review of Legislation”, in Foro it., 1979, I, 1933 ss.), non ha trovato applicazioni pratiche.

[13] Cfr. L. ELIA, La Corte ha chiuso un occhio (e forse tutti e due), in Giur. cost., 1970, 946 ss. L’ottemperanza del giudice alla decisione di incostituzionalità, infatti, può essere conseguita, in caso di inosservanza, soltanto mediante gli ordinari mezzi d’impugnazione, ma ove la posizione del giudice sia adottata da un giudice di ultima istanza, o la decisione non sia impugnata, la Corte non dispone di strumenti coercitivi utilizzabili a questo fine. Unico rimedio, talora prospettato, ma mai concretamente impiegato e, in realtà, di dubbia praticabilità, sarebbe la proposizione di un conflitto di attribuzioni fra la stessa Corte costituzionale e il giudice di ultima istanza (cioè la Corte di cassazione). La Corte costituzionale ha negato che un tale conflitto sia proponibile in via incidentale da parte di un giudice che debba pronunciare su un caso analogo (ordinanza n. 39/1968, in Giur. cost., 1968, 516) e non ha mai sollevato essa stessa un tale conflitto (pur lasciando talora intendere di non escludere completamente tale possibilità: cfr. la sentenza n. 62/1971, in Giur .cost., 1971, 601, al numero 3 della motivazione in diritto, nonché G. AMATO, in nota alla medesima). Anche alla luce della successiva evoluzione della giurisprudenza costituzionale, tuttavia, sembra tuttavia improbabile che ciò avvenga.

[14] In realtà, l’individuazione nel Consiglio superiore della magistratura del titolare della funzione di rappresentanza del potere giudiziario nei giudizi sui conflitti potrebbe trovare un qualche fondamento nella titolarità, che è propria di quest’organo, delle funzioni amministrative strumentali rispetto all’esercizio delle funzioni giurisdizionali proprie dei giudici e dei pubblici ministeri.

[15] Cfr. E. CAPACCIOLI, Forma e sostanza dei provvedimenti relativi ai magistrati ordinari, in Riv. It .dir .proc .penale, 1964, 272 ss.

[16] Con conseguente possibilità di trasmigrazione della titolarità della funzione da un soggetto ad un altro a mano a mano che, nel corso del processo, la competenza di uno subentri a quella di un altro.

[17] In Giur .cost., 1988, I, 5588.

[18] Per i “voti dati” la soluzione del problema è normalmente fuori discussione.

[19] Per effetto di questa impostazione del problema, avviene che la decisione circa l’applicabilità dell’immunità di cui all’art. 68, primo comma, Cost., in un giudizio del quale essa costituisca un passaggio decisivo, non spetti al giudice della causa, bensì alla Camera di appartenenza del parlamentare, e si risolva in una vera e propria “questione pregiudiziale” riesaminabile soltanto dalla Corte costituzionale a seguito in un incidente sollevato dal giudice della causa principale e svoltosi fra questi e la Camera. La dottrina ha rilevato in ciò una lunga serie di violazioni di principi costituzionali che non sembrano superabili dando per implicito che la “pregiudiziale parlamentare” (come viene ormai generalmente chiamata: cfr. R. ROMBOLI, in Foro it., 1994, I, 995) sia presupposta dall’art. 68, 1° comma, Cost., il quale derogherebbe così ad un nutrito gruppo di principi costituzionali, alcuni dei quali qualificati come “supremi”.

[20] Cfr., da ultimo, fra i moltissimi che si sono occupati dell’argomento, M. C. GRISOLIA, Immunità parlamentari e Costituzione, Padova, Cedam, 2000; C. MARTINELLI, L’insindacabilità parlamentare, Milano, Giuffrè, 2002; A. PIZZORUSSO, Immunità parlamentari e diritti di azione e di difesa, in Foro italiano, 2000, V, 302 ss.

[21] Corte eur.diritti dell’uomo, 30 gennaio 2003, Cordova, in Foro it., 2004, IV, 293.

[22] Nei casi ormai numerosi in cui ciò è accaduto, la Corte ha stabilito che le dichiarazioni del parlamentare denunziate come diffamatorie non potevano essere riferite all’esercizio delle funzioni parlamentari.

[23] Du déni de justice en droit public interne, Paris, LGDJ, 1964; Résurgence de la notion de déni de justice et droit au juge, in Liber amicorum Jean Waline, Paris, Dalloz, 2002, 513 ss.

[24] L’assurdità della situazione è aggravata dalla circostanza che il privato interessato non può partecipare al giudizio per conflitto di attribuzioni che si svolge davanti alla Corte. Parte ricorrente di tale giudizio è infatti il giudice della controversia fra il soggetto che vanta il diritto al risarcimento del danno e quello che glielo contesta e pertanto è al giudice che spetta la conduzione della causa, il pagamento delle relative spese, ecc. In numerosi casi, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili ricorsi di questo tipo per difetti di notificazioni, inosservanza di termini, ecc. (dovute a trascuratezze del personale giudiziario che dovrebbe coltivare la causa), con conseguente perdita del diritto al risarcimento da parte del danneggiato, indipendentemente dal fatto che la sua azione giudiziaria sia fondata o infondata, senza che egli abbia alcuna possibilità di ovviare a questo risultato o che il suo eventuale danno patrimoniale sia in alcun modo risarcito.

[25] Art.9, Deliberazione 10 giugno 2004, modificativa dell’art. 27 delle Norme integrative 16 marzo 1956.

[26] In Giur.cost., 1973, 1430. Nello stesso senso, seppur con riferimento ad un diverso problema, cfr. anche la sentenza n. 245/1974, id., 1974, 2365.