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ANNALISA GHIRIBELLI

IL POTERE DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA IN SEDE DI EMANAZIONE DEI DECRETI-LEGGE: IL “CASO ENGLARO”

 

1. Premessa. – La materia dei diritti costituzionali sul caso Englaro è divenuta nuovamente oggetto dello scontro istituzionale [1] dopo il rifiuto da parte del Capo dello Stato di firmare il decreto-legge approvato dal Consiglio dei Ministri il 6 febbraio 2009 che vietava lo stop all’alimentazione e all’idratazione dei pazienti in stato vegetativo persistente [2].

Partendo dall’esame del caso Englaro, prenderemo in considerazione il ruolo che il Presidente della Repubblica ha nei confronti della decretazione d’urgenza e vedremo quali sono i suoi poteri in sede di emanazione dei decreti-legge [3], se si tratta di poteri effettivi ed entro quali limiti possono essere esercitati. Ricordiamo, infatti, che solo nel momento in cui il decreto viene firmato dal Presidente e si provvede alla sua pubblicazione [4], il decreto può dirsi adottato e in quello stesso giorno il decreto presidenziale – e non la deliberazione governativa – deve essere presentato alle Camere per la conversione [5].

Nel caso in esame il Quirinale aveva ufficiosamente preso le distanze dal possibile decreto-legge la sera del 5 febbraio nel corso del colloquio tra il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta e il Segretario Generale della Presidenza della Repubblica Donato Marra. La mattina del 6 febbraio il Capo dello Stato, nella sua veste di garante della costituzione, ha scritto al Presidente del Consiglio una lettera riservata in cui esprime il proprio dissenso all’intenzione del Governo di procedere con decreto-legge. Si tratta di un consiglio, di moral suasion [6], alla quale il Premier risponde portando all’attenzione del Consiglio dei Ministri la proposta di adozione del provvedimento di necessità ed urgenza e contestando il contenuto della missiva presidenziale. Ricordiamo, peraltro, che il provvedimento non risultava inserito all’O.d.G. del Consiglio dei Ministri del 6 febbraio 2009 [7]. Il Consiglio dei Ministri approva ad unanimità il provvedimento. Segue, quindi, il diniego formale da parte del Capo dello Stato all’emanazione del decreto. A questo punto, il Governo risponde presentando, in serata, un disegno di legge in materia con gli stessi identici contenuti del provvedimento di urgenza per il quale il Capo dello Stato concede l’autorizzazione alla presentazione alle Camere.

 

2. Il controllo del Capo dello Stato in sede di emanazione dei decreti-legge: i precedenti. – Il controllo del Capo dello Stato sui decreti legge si presenta come un controllo preventivo all’emanazione. Il provvedimento governativo può essere emanato dal Capo dello Stato (come avviene nella maggior parte dei casi) [8], può essere negato ovvero, in base ai principi generali di collaborazione tra Capo dello Stato e Governo, il Presidente della Repubblica può avanzare richiesta di riesame mediante rinvio al Governo.

Una possibilità di intervento del Presidente della Repubblica che, storicamente, è risultata preferibile al diniego di autorizzazione è il rinvio al Governo del testo deliberato dal Consiglio dei Ministri. Anzi, anche alla luce della prassi, in virtù dei principi che regolano la collaborazione personale tra Capo dello Stato e Governo [9].

Nella pratica, il Capo dello Stato ha contestato, soprattutto, la mancanza dei requisiti di necessità e di urgenza previsti dall’articolo 77 della Costituzione come presupposto per l’adozione del decreto-legge [10]: in questo caso i richiami mossi dal Presidente sono volti a rivendicare al Capo dello Stato una meno formale partecipazione ad atti legislativi del Governo ed una più generale funzione di garante del corretto svolgimento dei rapporti tra il Governo ed il Parlamento [11]. Il Presidente, storicamente, non è mai andato oltre qualche richiamo, più o meno esplicito, al Governo affinché questi prestasse maggior attenzione al rispetto dei principi costituzionali nel ricorso allo strumento del decreto-legge, anche per non esporsi troppo da un punto di vista politico, dato che il Governo adotta i decreti-legge “sotto la propria responsabilità”. Non è detto che il messaggio debba necessariamente assumere forma scritta, potendo anche essere manifestato oralmente né che debba essere reso pubblico, potendo avvenire attraverso comunicazioni riservate tra Presidente della Repubblica e Governo [12]. Negli ultimi anni si è creata la prassi di una comunicazione preventiva al Presidente della Repubblica da parte del Dipartimento per gli Affari giuridici e legislativi dei decreti-legge che quest’ultimo intende adottare, in modo da garantire al Capo dello Stato un maggiore spatium deliberandi in merito all’emanazione.

E’ anche possibile che, nell’ambito della collaborazione personale con il Governo, il Presidente faccia presenti le proprie osservazioni in via orale o scritta, chiedendo chiarimenti al Presidente del Consiglio, pur avendo già apposto la propria firma sull’atto. In questo caso non sorge l’onere per il Consiglio dei Ministri di riapprovare l’atto, ma soltanto il dovere di correttezza del Presidente del Consiglio di informare i Ministri delle osservazioni presidenziali. Nel caso in cui questi ultimi concordassero con l’intenzione del Presidente del Consiglio di insistere nel mantenimento dell’atto, il decreto, già firmato per l’emanazione dal Capo dello Stato, è pronto per la pubblicazione [13].

Infine, un’altra ipotesi attenuata di rinvio si ha quando il Presidente della Repubblica, prima di apporre la propria firma, chiede chiarimenti o comunque formula osservazioni al Governo in via riservata senza però richiedere un riesame dell’atto. In questo caso, se il Governo lo richiede, il Presidente dovrà procedere all’emanazione dell’atto, anche nel caso in cui non intervenga una nuova riapprovazione da parte del Consiglio dei Ministri.

Il primo caso verificatosi, nella storia repubblicana, di mancata  emanazione di un decreto legge risale alla Presidenza Pertini che rifiutò di firmare un decreto-legge che tendeva a sottrarre alla Corte di Cassazione, a favore delle Corti d’Appello, le operazioni di controllo, certificazione e conteggio delle firme per la richiesta di referendum abrogativi. Questa delibera del Consiglio dei Ministri interveniva a pochi giorni dalla scadenza del termine per la raccolta delle firme per dieci referendum abrogativi promossi dal partito radicale. Un comunicato del Quirinale, in sede di emanazione dell’atto, chiarì che il Presidente della Repubblica censurava la scelta dello strumento del decreto-legge per introdurre una modifica che avrebbe inciso su procedimenti referendari già in corso “alterando l’equilibrio sancito in Costituzione fra democrazia rappresentativa e democrazia diretta” [14]. A seguito delle perplessità manifestate dal Capo dello Stato al momento della firma, il Consiglio dei Ministri deliberò di revocare la precedente decisione (“in virtù dell’acquiescenza e della deferenza del Presidente del Consiglio nei confronti del Presidente della Repubblica”) rinunciando ad adottare il decreto-legge e approvando un disegno di legge di contenuto identico [15].

Per quanto riguarda i motivi del rinvio, un comunicato stampa del Quirinale [16] precisava che “il Capo dello Stato ha preso la sua determinazione in piena autonomia, in considerazione del fatto che la nuova normativa, adottata in forma di provvedimento di urgenza, avrebbe inciso su procedimenti referendari in corso”. Si è trattato, dunque, di un rinvio per motivi di merito costituzionale, attinenti all’opportunità del provvedimento e non alla sua legittimità costituzionale. Modificare infatti le regole vigenti per la verifica delle firme necessarie alla richiesta di referendum mentre stava per scadere il termine per la raccolta di tali firme “avrebbe prodotto conseguenze indirette sul corretto funzionamento” [17] di un istituto previsto dall’articolo 75 Cost.

Una più recente ipotesi di invito rivolto dal Presidente della Repubblica al Governo a ritirare il decreto presentato si è verificata nel marzo 1993 con riguardo ad un decreto-legge (definito dalla stampa “salva-ladri”) che recava modifiche alla legge relativa al finanziamento pubblico dei partiti per la quale era in via di svolgimento la procedura per la sua abrogazione referendaria. Il Presidente fece presente come l’emanazione del decreto avrebbe comportato l’effetto di annullare la procedura referendaria, con il rischio poi che lo stesso non fosse convertito dal Parlamento. Anche in questo caso l’invito del Presidente fu accolto ed il Governo rinunciò alla presentazione del decreto [18].

Spesso i dubbi sollevati dal Capo dello Stato hanno riguardato il profilo della effettiva necessità ed urgenza del decreto-legge in presenza di un Governo dimissionario: si tratta di motivi attinenti ad aspetti di legittimità costituzionale. Il Presidente della Repubblica ha evidenziato come un Governo dimissionario, restando in carica per l’ordinaria amministrazione, pur non essendo privato del potere di decretazione d’urgenza, ne vede ristretta l’ampiezza di esercizio: i requisiti costituzionali della necessità ed urgenza debbono, cioè, essere valutati più rigorosamente di quando il Governo si trova nella pienezza delle sue funzioni. E’ stata quindi posta in discussione la legittimità del comportamento del Governo nei confronti del Parlamento in pendenza di una crisi governativa.

In alcuni casi, l’intervento da parte del Presidente della Repubblica ha addirittura anticipato la formale decisione del Governo, rappresentando quindi la contrarietà non ad una deliberazione ma ad un atto che deve ancora iniziare a formarsi: ad esempio, nel gennaio del 1986 il Consiglio dei Ministri aveva annunciato di voler adottare  un decreto legge in materia di emittenti radiotelevisive private, che poi non venne adottato. Dalla stampa tale decisione è stata attribuita ad un intervento del Capo dello Stato che avrebbe manifestato la propria contrarietà al ricorso alla decretazione d’urgenza, aderendo con ciò all’opinione dell’allora Presidente della Corte Costituzionale Paladin, il quale, in un’intervista, si era pronunciato a favore di una disciplina della materia tramite legge ordinaria.

Infine, nella sua valutazione in sede di emanazione di un decreto legge, il Presidente Cossiga, sempre nell’ambito dei rapporti informali con il Governo, ha richiamato l’attenzione del Presidente del Consiglio pro tempore Goria su di una allora recente sentenza della Corte costituzionale che aveva manifestato gravi dubbi circa la legittimità costituzionale della reiterazione dei decreti legge e delle norme degli stessi che dispongono la sanatoria degli effetti dei decreti legge decaduti (sentenza 302/1988). Il Presidente della Repubblica ha, in quell’occasione, chiesto che venisse operato “ogni sforzo perché le enunciazioni della Corte costituzionale possano, da un lato, avviare una corretta evoluzione normativa in materia e dall’altro anche trovare, fin d’ora, una meditata verifica nella prassi” [19]. Per quanto riguarda la forma adottata dal Capo dello Stato per esternare i suoi rilievi, si è fatto ricorso ad una forma attenuata di consiglio, di moral suasion: il Presidente ha infatti restituito il decreto firmato corredandolo però con una lettera nella quale ha espresso le sue osservazioni.

Gli episodi a cui si è fatto cenno sono i precedenti conosciuti per quanto riguarda i rapporti tra Presidente della Repubblica  e Governo in sede di emanazione di decreti legge: è ragionevole presumere che vi siano stati altri interventi del Capo dello Stato, che però non sono stati resi noti. Come si è visto nei casi citati, il più delle volte le fonti non sono ufficiali, ma sono costituite da notizie o indiscrezioni giornalistiche e rimane in sostanza nella disponibilità dei protagonisti rendere pubblici i rapporti intercorsi. La riservatezza che circonda tali vicende trova in parte giustificazione nel fatto che essa può favorire un rapporto più equilibrato e fluido tra gli organi costituzionali interessati, mentre la pubblicità potrebbe portare ad irrigidimenti delle rispettive posizioni in quanto esse sarebbero automaticamente sottoposte ad un vaglio e ad un giudizio.

 

3. Il diniego di emanazione nel “caso Englaro”. – Passiamo adesso ad analizzare le ragioni del diniego del Presidente Napolitano all’emanazione del decreto-legge deliberato nel Consiglio dei Ministri del 6 febbraio 2009. Il diniego si fonda su ragioni tecniche oggettive di tipo giuridico-costituzionali [20]. In primo luogo, il Capo dello Stato mette in evidenza come una materia di questo tipo dovrebbe trovare regolamentazione in Parlamento e come il ricorso allo strumento del decreto-legge in questo caso rappresenti una “soluzione inappropriata” [21]. A questo primo aspetto, si aggiunge il rilievo sollevato in merito alla mancanza dei presupposti di necessità ed urgenza: non sarebbe infatti sopraggiunto alcun fatto nuovo che possa configurarsi come caso straordinario di necessità ed urgenza. Su questo aspetto, sono state sollevate due obiezioni: da un lato, infatti, l’urgenza sembrerebbe mossa dalla necessità di salvare una persona; sul punto, ci limitiamo ad affermare che il Capo dello Stato non ha sottovalutato questo aspetto dichiarando, nella lettera inviata il 5 febbraio al Presidente del Consiglio, che l’urgenza sarebbe solamente frutto di un’onda emotiva di carattere mediatico relativa ad un singolo caso, risolto con una sentenza [22]. Più a lungo ci soffermeremo, invece, sulla seconda obiezione, secondo la quale, in questa fase, la responsabilità in merito alla sussistenza dei requisiti costituzionali di necessità ed urgenza sarebbe interamente rimessa in capo al Governo.

La necessità e l’urgenza costituiscono le basi per comprendere il fenomeno e la funzione pratica della decretazione d’urgenza. Un’attività normativa fondata su tali presupposti è utilizzata per far fronte a situazioni eccezionali in relazione alle quali i modi normali della produzione giuridica risultano inadeguati.

Negli anni è emersa una interpretazione che ha attribuito al Governo ed al Parlamento il compito di verificare l’esistenza dei presupposti giustificativi; nella prassi, si è diffusa, sempre più frequentemente, la tendenza ad adottare provvedimenti considerati necessari ed urgenti solo in relazione ai fini proposti dal Governo. In particolare, il Governo dovrebbe valutare che rispetto alla situazione di fatto si pone una perentoria esigenza di regolamentazione normativa e che è impossibile ricorrere ai normali strumenti di produzione normativa per regolare la fattispecie. Il Governo nell’adozione di decreti-legge fa leva su una discrezionalità politica molto ampia: l’esecutivo ha, dunque, eluso il significato costituzionale della norma ed ignorato il requisito della straordinarietà consentendo la trasformazione del decreto-legge in uno “strumento prettamente politico” [23], capace di rispondere rapidamente a domande legislative, che hanno un carattere di urgenza politica [24]. D’altra parte, in sede parlamentare, le Camere sono chiamate ad esprimere un giudizio sulla riconducibilità della situazione ai canoni di straordinaria necessità ed urgenza, senza che si valuti, contestualmente, il nesso di natura provvedimentale che deve sussistere tra le norme dell’atto e la situazione, cioè il merito del provvedimento.

Accanto ad un controllo che potremmo definire “politico”, il giudice costituzionale italiano ha, negli ultimi anni consolidato un orientamento affermato per la prima volta con la sentenza n. 29 del 27 gennaio 1995, stabilendo la propria competenza a sindacare la sussistenza dei presupposti di necessità ed urgenza [25], da un punto di vista strettamente giuridico, salvaguardando il controllo iniziale del Governo e quello successivo del Parlamento in sede di conversione, dove le valutazioni politiche potrebbero essere prevalenti. L’orientamento definito recentemente dalla Corte costituzionale italiana con le sentenze n. 171/2007 e n. 128/2008 chiarisce, dunque, in via definitiva la questione relativa al (necessario) rispetto dei requisiti costituzionali ex art. 77 da parte del decreto-legge e della legge di conversione. Ma la pronuncia del giudice delle leggi è interessante anche sotto un altro profilo: essa costituisce – seppur indirettamente – un “monito” al Governo e al Parlamento affinché, nelle rispettive sedi, si rendano garanti del rispetto dei principi costituzionali (e non solo) di una fonte che appare sempre più “patologica”: il vizio relativo alla “semplice mancanza” infatti può esser fatto valere unicamente nell’ambito del rapporto di fiducia che lega Governo e Parlamento. Ricordiamo infatti come il comma 2 dell’art. 96-bis del Regolamento della Camera prescrive al Governo di dare conto, nella relazione che accompagna il disegno di legge di conversione, dei presupposti di necessità ed urgenza per l’adozione del decreto-legge e di precisare gli effetti attesi dall’attuazione del decreto e le conseguenze che le norme dello stesso possono recare sull’ordinamento. La commissione in sede referente può chiedere al Governo di integrare gli elementi contenuti nella relazione anche per singole disposizioni del decreto-legge.

La dottrina si è più volte interrogata per sapere se le Camere, in sede di conversione, svolgano una sorta di controllo-verifica sui requisiti di necessità ed urgenza del decreto-legge. Si è affermato l’orientamento secondo cui il Parlamento non giudica l’attività normativa del Governo, escludendosi così l’esercizio di una funzione di controllo-verifica del decreto-legge, ma può modificarla attraverso la funzione legislativa, realizzando così una co-legislazione governativo-parlamentare [26]. Se al Senato il controllo “pregiudiziale” dei presupposti di necessità ed urgenza è rimesso alla I Commissione permanente [27], alla Camera, dopo le modifiche regolamentari del 1997 che hanno soppresso il procedimento di verifica in capo alla Commissione Affari Costituzionali, per tale verifica è competente la Commissione di merito che esamina il provvedimento in sede istruttoria [28]. Si tratta di un rapporto prettamente politico che si instaura tra Governo e Parlamento, mentre il controllo sui requisiti di necessità ed urgenza sarebbe una forma di controllo di tipo giuridico, che non viene esercitato dal Parlamento rispetto al decreto-legge [29].

Se, dunque, il vizio relativo alla “semplice mancanza” dei requisiti costituzionali può esser fatto valere unicamente nell’ambito del rapporto di fiducia Governo – Parlamento e se la “evidente mancanza” è oggetto di giudizio costituzionale, come possiamo configurare l’intervento del Capo dello Stato in sede di emanazione? Come ha avuto occasione di dire il Presidente Napolitano in un comunicato del 20 febbraio 2009 in occasione della emanazione del decreto-legge in materia di sicurezza, tra Governo e Presidente della Repubblica sussiste una leale collaborazione istituzionale ed è in questo spirito che la Presidenza della Repubblica verifica i profili di costituzionalità dei decreti-legge, oltre alla coerenza e correttezza legislativa nel rapporto con l’attività parlamentare.

Dunque, la responsabilità politica del Governo attiene alle scelte di indirizzo e di contenuto del provvedimento d’urgenza che intende adottare, ma laddove il Capo dello Stato ravvisi la mancanza dei presupposti costituzionali è legittimato ad intervenire: nel “caso Englaro” tali presupposti non sussistevano.

 



[1] Ricordiamo come la Camera ed il Senato avessero sollevato ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Corte di Cassazione sulla vicenda Englaro evidenziando come sotto la formale apparenza della pronuncia giurisdizionale la Cassazione avesse, in realtà, posto in essere un atto sostanzialmente legislativo in una materia – quella dei diritti costituzionali della persona – nella quale la tutela a livello giurisprudenziale è da escludersi in assenza di una legge. Sul punto si rinvia a R. Romboli, Il conflitto tra poteri dello Stato sulla vicenda Englaro: un caso di evidente inammissibilità in www.associazionedeicostituzionalisti.it del 11.12.2008 e a A. Spadaro, Può il Presidente della Repubblica rifiutarsi di emanare un decreto-legge? Le “ragioni” di Napolitano in www.forumcostituzionale.it del 10.02.2009.

[2] Ricordiamo come, pur trattando il decreto-legge in esame della materia generale dal punto di vista formale, esso nasceva e verteva su un caso specifico, il caso Eluana appunto.

[3] Il Presidente Pertini aveva manifestato, in forma di dichiarazione orale e diretta al Presidente del Consiglio (nel dicembre 1978), l’intenzione di esercitare sugli atti del Governo per i quali è richiesta l’emanazione da parte del Presidente della Repubblica, i relativi poteri di controllo in modo effettivo e pieno.

[4] Sul punto si veda quanto sostenuto da A. Baldassarre, Il Capo dello Stato in G. Amato, A. Barbera, Manuale di diritto pubblico, Bologna, 1997, vol. II, p. 240 secondo cui “Nel caso dei decreti-legge […], trattandosi di atti di urgenza adottati dal Governo sotto la sua esclusiva responsabilità, possono essere rinviati all’organo deliberante soltanto sotto il profilo della palese insussistenza dei requisiti di costituzionalità della necessità e dell’urgenza”. Contra F. Sorrentino, Le fonti del diritto in G. Amato, A. Barbera, Manuale di diritto pubblico, cit. p. 155 secondo cui “la responsabilità specificatamente governativa e l’urgenza del provvedimento dovrebbero escludere ogni intervento presidenziale”.

[5] D. Nocilla (a cura di), Diritto costituzionale vivente. Capo dello Stato ed altri saggi, Giuffré, Milano, 1992, p. 249.

[6] Sul punto, F. Chiarelli, I rapporti informali tra il Presidente della Repubblica e gli altri organi costituzionali in www.jei.it e E. Albanesi, Moral suasion presidenziale e giurisprudenza costituzionale in materia di logistica. La vicenda del c.d. decreto sicurezza in Rassegna Parlamentare n. 2/2008.

[7] Si veda M. Ainis, La lumaca e l’elefante in La Stampa del 6 febbraio 2009, p. 1.

[8] A livello formale, l’emanazione è una dichiarazione presidenziale di quanto il Consiglio dei Ministri, abbia, sotto la propria responsabilità, deliberato. Con la Presidenza Pertini si è assistito ad un’innovazione nella formula di emanazione: non si è più fatta menzione, nel preambolo degli atti, all’espressione “sentito il Consiglio dei Ministri”, ma il Presidente ha introdotto alcune formali ma essenziali modificazioni in armonia con il testo costituzionale: nel preambolo dei decreti di autorizzazione, si richiama, in modo espresso, la deliberazione del Consiglio dei Ministri e la conseguente proposta del Presidente del Consiglio e dei Ministri concertanti; si è adeguata, anche nella formula, la natura della partecipazione presidenziale all’atto di cui all’ articolo 87.5 Cost., sottolineando così l’estraneità del Presidente al procedimento formativo dell’atto con la sostituzione del termine “emana” al precedente “decreta”.

[9] Ad esempio, con una lettera del 20 febbraio 1981 inviata al Presidente del Consiglio Forlani, Pertini rifiutava la firma del decreto destinato a rendere esecutivo l’accordo collettivo nazionale previsto dalla legge di riforma sanitaria per la regolamentazione dei rapporti con i medici di medicina generale, in quanto riteneva necessario che il provvedimento fosse corredato da una “sia pure essenziale relazione intesa ad illustrare principi e caratteri salienti e comunque ad esplicitarne le conseguenza finanziarie”. In tale lettera il Presidente Pertini ha affermato il generale principio che solo in questo modo i decreti-legge possono ricevere una valutazione “più pregnante ed un riscontro meno formale anche in sede di firma da parte del Presidente della Repubblica”.

[10] Da molti è stata lamentata la scarsa attenzione e la poca severità mostrata dal Presidente della Repubblica di fronte alla pressoché costante violazione, da parte del Governo, del dettato costituzionale, nella parte in cui richiede l’esistenza di presupposti straordinari di necessità e di urgenza, quale condizione legittimante la decretazione d’urgenza, e dei principi fissati dalla legge 400/1988. Ciò soprattutto nella considerazione della difficoltà di intervento da parte dell’altro garante della Costituzione, cioè la Corte costituzionale. Questa, infatti, non può svolgere alcun efficace controllo a causa del carattere provvisorio del decreto legge, in quanto la limitata vigenza dello stesso a sessanta giorni, comporta che la Corte sia chiamata ad intervenire quando il decreto impugnato non esiste più, o perché convertito in legge o perché decaduto. Anche se la Corte costituzionale, recentemente (sentenze n. 171/2007 e n. 128/2008), ha ribadito che sussiste un vizio in procedendo della legge di conversione in caso di mancanza originaria dei requisiti di necessità ed urgenza del decreto-legge.

[11] Infatti, soprattutto prima che venisse introdotto nel Regolamento della Camera l’articolo 96-bis, che ha attribuito alla Commissione parlamentare competente per materia un preliminare controllo sulla sussistenza dei presupposti di necessità e di urgenza del decreto legge, solo il controllo operato dal Presidente della Repubblica, in sede di emanazione, appariva astrattamente idoneo a frenare la prassi dei decreti-legge adottati anche in assenza dei presupposti previsti dalla Costituzione.

[12] S.M. Cicconetti, Decreti-legge e poteri del Presidente della Repubblica in Diritto e società, n. 1/1980, p. 568 osserva che, nella pratica, il potere di rinvio di decreti legge può esercitarsi “in forme per così dire attenuate da parte del Presidente della Repubblica.

[13] Ibidem. In questo caso, tra l’altro, il Presidente del Consiglio non ha l’obbligo di convocare nuovamente il Consiglio dei Ministri perché, se da un lato l’atto è già stato deliberato dal Governo, dall’altro la decisione se insistere o no su di esso sembra, in questo caso, spettare al solo Presidente del Consiglio nell’ambito della funzione di direzione della politica generale del Governo che l’articolo 95 Cost. gli attribuisce. Soltanto se una larga parte dei Ministri consultati manifestasse un’opinione diversa rispetto a quella del Presidente del Consiglio, quest’ultimo dovrebbe convocare il Consiglio dei Ministri per valutare, in termini politici, le conseguenze di tale eventuale dissidio.

[14] S. Labriola, Presidente della Repubblica, struttura di governo, Consiglio di Gabinetto, in  Diritto e società, 2/1985, p. 357, secondo il quale in questo caso si è configurata un’ipotesi di “eccesso di potere normativo, che il Presidente, con il suo atto, ritiene sussistere nel decreto e, si può presumere, debba estendersi anche alla eventuale successiva legge di conversione”.

[15] Il Presidente della Repubblica aveva infatti considerato non adeguato un mutamento della disciplina referendaria che fosse posto in essere mediante lo strumento del decreto legge, i cui presupposti per l’adozione sono la necessità e l’urgenza; sembra che il presidente Pertini abbia formulato in una lettera un invito all’allora Presidente del Consiglio Cossiga a riprendere in esame l’opportunità di adottare la disciplina censurata mediante un disegno di legge. Quindi, l’intervento presidenziale non ha dato luogo ad alcuna crisi dei rapporti tra Presidente della Repubblica e Governo poiché non è insorto alcun conflitto, né, tanto meno, tensioni di ordine politico o costituzionale tra i due organi.

Sulla stampa quotidiana (cfr. l’articolo di S. Tosi, La prima volta, pubblicato in La Nazione in data 26 giugno 1981) si è parlato di rifiuto del Capo dello Stato di emanare il decreto-legge. Tuttavia, ad un esame più approfondito della vicenda ed anche sulla base di quello che successivamente si è potuto apprendere presso il Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica, sembra che il Capo dello Stato abbia fatto uso di un diverso potere, cioè quello di rinvio dell’atto al Governo, anche se, per mancanza di documentazione e di pubblicità, non è possibile precisare se il rinvio sia stato esercitato con richiesta di riesame o in una delle possibili forme attenuate di rinvio sopra ricordate.

[16] Si tratta di un comunicato emesso a seguito di un articolo apparso su L’Unità, nel quale si affermava che non era chiaro se il rifiuto di firmare era dovuto a “volontà autonoma o se invece abbiano giocato un ruolo alcune pressioni all’interno della compagine governativa”.

[17] S.M. Cicconetti, Decreti-legge e poteri del Presidente della Repubblica, cit., p. 569.

[18] Un altro caso che, a suo tempo, aveva riproposto il tema dei poteri del Presidente della Repubblica in sede di emanazione dei decreti-legge, si è verificato durante la Presidenza Cossiga ed ha ad oggetto la reiterazione del decreto legge sui tickets sanitari (decreto-legge n. 199/1989). Volendo il Governo, in piena crisi, reiterare tale decreto, che aveva provocato uno sciopero generale e contro il quale il Partito comunista aveva condotto una decisa opposizione, il segretario Occhetto in una conferenza stampa aveva annunciato di aver inviato una lettera al Presidente della Repubblica, in quanto garante della Costituzione, affinché non procedesse alla emanazione del decreto reiterato, considerato un “atto istituzionalmente e politicamente inammissibile” in quanto avrebbe comportato “una sorta di esproprio dei poteri del Parlamento”. Il Partito comunista contestava, in definitiva, la legittimità costituzionale della preannunciata rinnovazione del decreto legge, in primo luogo, sotto l’aspetto dei poteri di un Governo dimissionario: un tale atto sarebbe, infatti, andato oltre il disbrigo degli affari di ordinaria amministrazione che spettano ad un Governo dimissionario. A ciò si aggiungeva il ricorso alla reiterazione, prassi sempre discussa e sulla quale sono cadute anche le censure della Corte costituzionale (sentenza 302 del 1988). Non vi sono comunicati ufficiali del Quirinale, ma, come emerge da una nota dell’ufficio stampa del partito comunista ed anche da quanto riportato da organi di stampa, il Capo dello Stato aveva inviato una lettera di risposta all’on. Occhetto in cui gli annunciava di aver trasmesso la sua iniziale missiva al Presidente del Consiglio assieme ad un’altra lettera in cui, dopo aver richiamato i principi costituzionali in materia di decretazione, in particolare per quanto concerne i poteri del Presidente della Repubblica, aveva invitato il Presidente del Consiglio a valutare le osservazioni sull’opportunità di procedere alla rinnovazione del decreto legge, soprattutto alla luce del fatto che le osservazioni provenivano dal maggior partito di opposizione cui spetta un ruolo importante di controllo dell’azione governativa. Nonostante la missiva fosse giunta a Palazzo Chigi prima della riunione del Consiglio dei Ministri, il Consiglio, seppur con qualche modifica rispetto al testo precedente, decise di approvare il decreto, che venne emanato dal Capo dello Stato, senza che fosse manifestato alcun rilievo (V. Lippolis, op.cit., p. 537 e G. Guiglia, Ancora un intervento del Presidente della Repubblica in tema di decreti-legge, in Quaderni costituzionali, 3/1989, p. 547 che riporta un passo della lettera indirizzata dal Presidente Cossiga al Presidente del Consiglio De Mita: “quando la decretazione d’urgenza da parte del Governo dimissionario…tende ad affievolire la distinzione tra Governo nella pienezza delle funzioni e Governo dimissionario, i doveri del Capo dello Stato non possono non assumere una diversa intensità e il controllo da parte sua non può non diventare di più penetrante incisività a tutela dei fondamenti stessi dell’ordinamento costituzionale, la cui ripartizione dei poteri rischia di essere profondamente alterata”. Con le dimissioni del Governo, infatti, viene meno ogni forma di responsabilità politica del Governo nei confronti del Parlamento e, in questa situazione, “non può non entrare in gioco, a tutela della Costituzione,il potere di riserva che l’ordinamento attribuisce al Presidente della Repubblica”).  Quindi, anche se il testo integrale delle lettere non è mai stato reso noto e, di conseguenza, non si ha un documento certo ed ufficiale sui poteri che il Presidente della Repubblica riteneva gli spettassero in sede di emanazione, dall’esito della vicenda si deduce che Cossiga abbia escluso la possibilità di rifiutare l’emanazione del decreto nel caso in cui il Governo, nonostante l’invito al riesame, avesse deciso di riapprovare il decreto.

[19] Il Capo dello Stato sembra aver voluto, più che sollevare una questione specifica riguardo al decreto-legge che aveva originato il suo intervento, porre il problema generale del rispetto degli indirizzi manifestati dalla Corte costituzionale in materia di reiterazione di decreti.

[20] Queste le parole del Capo dello Stato che si leggono nella nota: “Io non posso […] farmi guidare da altro che da un esame obiettivo della rispondenza o meno di un provvedimento legislativo di urgenza alle condizioni specifiche prescritte dalla Costituzione e ai principi in essa sanciti.

[21] Per un esame dettagliato delle argomentazioni addotte dal Capo dello Stato sulla regolamentazione prodotta dal Governo si rinvia a A. Spadaro, Può il Presidente della Repubblica rifiutarsi di emanare un decreto-legge?, cit.

[22] Giustamente C. Salazar, Riflessioni sul “caso Englaro” in www.forumcostituzionale.it del 13 febbraio 2009 fa notare come il pericolo per la vita di una persona – da solo – giuridicamente non è sufficiente a giustificare la necessità ed urgenza altrimenti il Governo dovrebbe intervenire con decreto-legge ogni volta che un testimone di Geova rifiuta una trasfusione. Contra L. Pedullà, Perché il Capo dello Stato avrebbe dovuto firmare il decreto-legge “Salva Eluana” in www.forumcostituzionale.it del 18 febbraio 2009 il quale riporta come esempio il caso del decreto-legge di interpretazione autentica dell’art. 297 del Codice di Procedura Penale (relativo ai termini di custodia cautelare) emanato dal Presidente Cossiga che incideva su diritti costituzionalmente garantiti: infatti, il decreto-legge, poneva nel nulla in fatto e in diritto gli effetti di un provvedimento giudiziario.

[23] Così, A. Celotto, L’abuso del decreto-legge, Cedam, Padova, 1997, p. 410.

[24] Il ricorso al decreto-legge sostitutivo di legge ordinaria è ammissibile quando lo  svolgimento del procedimento legislativo ordinario non consente il raggiungimento tempestivo dell’obiettivo che il Governo si è posto. E’ necessaria, d’altra parte, la sussistenza di un caso straordinario di necessità e d’urgenza. L’A. ammette, in conclusione, che il Governo ha ampia discrezionalità politica nel decidere l’adozione di un decreto-legge di necessità ed urgenza.

[25] Tale compito non sostituisce e non si sovrappone a quello iniziale del Governo e a quello successivo del Parlamento in sede di conversione, ma ha, piuttosto, la funzione di preservare l’assetto delle fonti normative e il rispetto dei valori a tutela dei quali esso è predisposto.

[26] G. Pitruzzella, La legge di conversione del decreto-legge, Cedam, Padova, 1989, pp. 245 e ss., C. Nasi, L’art. 96-bis del Regolamento della Camera ed il procedimento di conversione dei decreti-legge in Rassegna Parlamentare, n. 2/2001, pp. 457 e ss. e A. Celotto, A. Mencarelli, Prime considerazioni sul nuovo art. 96-bis del Regolamento della Camera in Rassegna Parlamentare, 1998, pp. 651 e ss.

[27] In realtà tale controllo nella prassi più recente non si realizza quasi mai.

[28] Il Presidente della Camera, investito della questione da parte dei membri del Comitato per la Legislazione, ha stabilito che le Commissioni di merito sono competenti a valutare le esigenze straordinarie di necessità ed urgenza, dato che tra i compiti del Comitato non rientra la valutazione sostanziale dei testi normativi, ma solo l’esame formale, secondo i parametri di cui all’art. 16-bis comma IV.

[29] In linea di massima, se esiste compattezza tra il Governo e la sua maggioranza governativa, la maggioranza sosterrà l’iniziativa del Governo in Parlamento; se questa compattezza manca, potranno verificarsi diverse situazioni che vanno dall’approvazione di emendamenti al disegno di legge di conversione del decreto-legge alla sua reiezione: ma se ciò avviene non è dovuto ad una verifica negativa in ordine alla sussistenza dei presupposti costituzionali del decreto-legge, ma alla debolezza politica del Governo e alla divisione interna alla sua maggioranza. Dunque, nella valutazione del disegno di legge di conversione in legge del decreto-legge saranno prevalenti le considerazioni in ordine al valore politico delle scelte del Governo ed esse potranno spingersi a considerare anche la stessa decisione di utilizzo del decreto-legge.