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Pasquale Costanzo

La Costituzione italiana di fronte al processo costituzionale europeo*

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. Attivismo comunitario e attendismo nazionale nella prima fase del processo costituente europeo. – 3. Mons murem peperit: il referendum costituzionale d’indirizzo e gli anni ’90.4. Il semplice maquillage europeista della riforma del Titolo V. – 5. La ratifica del Trattato costituzionale e l’aggravarsi del “deficit europeo” nella Costituzione nazionale 6. Osservazioni conclusive.

 

1. Premessa. – Nel cercare di svolgere il tema assegnatomi, che presenta connessioni molto strette con quelli delle altre relazioni, mi sono attenuto rigorosamente all’indicazione del titolo, intendendo cioè l’espressione “Costituzione italiana” nel significato letterale di documento normativo fondamentale del nostro ordinamento e non quindi come una sineddoche allusiva alla complessiva esperienza costituzionale italiana di fronte al processo costituzionale europeo.

Mi occuperò pertanto, sia pure con la necessaria sintesi, solo degli influssi (uso volutamente per il momento questo termine generico) prodottisi su tale documento per effetto di un simile processo.

Per altro verso, lo stesso zelo letterale mi ha persuaso a circoscrivere, per quanto possibile – ma, come si vedrà, non è poi così agevole – le mie osservazioni unicamente al “processo costituzionale”, dando così per scontato, non so quanto arbitrariamente, non solo che un “processo costituzionale europeo” sia in atto, ma che esso, da un lato, non coincida affatto con l’intera vicenda della partecipazione dell’Italia alla costruzione dell’ordinamento comunitario, e, dall’altro, non possa tuttavia essere nemmeno identificato nella sola genesi e sviluppo del Trattato costituzionale (anche se probabilmente più producente è ancora il diverso atteggiamento di chi preferisce ragionare sull’esistenza di un “assetto costituzionale comune” sulla base della concrete ed attuale interazione tra sistema comunitario e sistema nazionale [1].

Di qui, a rendere più complesse le cose, anche l’interrogativo circa il momento esatto a partire dal quale un tale processo si è reso percepibile e perché.

La difficoltà maggiore consiste evidentemente nello stipulare quali siano le condizioni essenziali perché un tale processo sia dato, ostandovi, credo, soprattutto fattori di carattere storico-culturale, dato che, nell’esperienza dello Stato moderno, molto spesso, più che a un processo, inteso come una successione abbastanza distesa nel tempo di avvenimenti, si è assistito invece ad eventi abbastanza puntuali o comunque ravvicinati, ossia a fatti rivoluzionari, mentre è per solito a posteriori, in base cioè all’effettiva affermazione di valori e schemi di gestione del potere oppositivi a quelli del regime precedente, che riusciamo ad attribuire la qualifica di costituente ad una certa serie di accadimenti.

Si tratta all’evidenza di una questione teorica impossibile da affrontare qui. Ai nostri fini tuttavia può soccorrere una prospettiva, per così dire, di tipo negativo, ossia tentare di individuare gli snodi della vicenda comunitaria in cui percettibilmente taluni fatti od atti non appaiono più finalizzati semplicemente al potenziamento dell’edificio progettato dagli accordi di carattere economico, ma piuttosto alla costruzione di qualcosa di diverso in cui le strutture portanti non coincidono più puntualmente con quelle dei trattati istitutivi, ma ne costituiscono piuttosto, per conservare la metafora, un’innovazione.

 

2. Attivismo comunitario e attendismo nazionale nella prima fase del processo costituente europeo. – In questo quadro, non è allora senza rilievo constatare come i primigeni segni di tale pressione diversiva provengano dall’organo dotato di maggiore indipendenza nella Comunità, ossia la Corte di giustizia, che perviene a costituire una forza, per così dire, implosiva rispetto alle forze che dall’esterno tendono perlopiù a conservare il quadro.

Se si concorda su questa linea complessiva, è possibile probabilmente osservare come almeno fino alla tappa del Mercato Agricolo Comune, cioè al 1964, le linee di sviluppo tendano ancora tutte in qualche modo alla realizzazione di scopi predefiniti. È solo dunque a partire da questo torno di tempo, a cui risalgono, com’è noto, sia la decisione Van Gend & Loos (1963), in tema di effetto diretto del diritto comunitario di fronte alle giurisdizioni degli Stati membri, sia soprattutto la decisione Costa/Enel (1964), che si sviluppa la tesi giurisprudenziale dell’esistenza di un ordinamento sovrastante quelli degli Stati membri,  qualitativamente diverso dalle classiche organizzazioni del diritto internazionale, ossia un ordinamento giuridico autonomo e prevalente rispetto alle norme giuridiche a livello nazionale.

Da questo momento, pur continuando a prevalere la tensione verso la concretizzazione dei fini di carattere economici, in primo luogo la realizzazione del MEC, che concluderà, com’è noto, il primo periodo transitorio alla data del 31 dicembre 1969, sembrano convivere nella medesima organizzazione due anime, quella, che, mutuando, un linguaggio tipico della nostra disciplina, guarda nella direzione degli obiettivi “costituiti” (non senza peraltro incontrare anche qui fasi di difficoltà e di stagnazione), e quella che invece rivela intendimenti “costituenti”.

Questa seconda anima, che è quella che a noi maggiormente interessa, non si annida più, ad un certo momento, nella sola Corte di Giustizia, ma finisce per dare ispirazione anche all’azione di altre Istituzioni, a partire dal Parlamento europeo che, nel 1979, con l’elezione diretta, sembra acquisire un vantaggio di posizione rispetto alle altre Istituzioni di cui comincia a risultare preoccupante il cd. deficit democratico. Un vantaggio peraltro, che, non potendosi spendere più di tanto sul piano costituito, atteso il ruolo abbastanza marginale, almeno all’inizio, attribuito all’organo rappresentativo, viene investito appunto sul piano costituente.

In questo senso può leggersi l’adozione da parte del Parlamento europeo il 14 febbraio 1984 della Risoluzione relativa al progetto di Trattato che istituisce l'Unione europea [2], da considerarsi senz’altro uno degli atti prodromici più importanti rispetto all’attuale Trattato costituzionale.

Ma anche qui si comprende come possa ritenersi semplicistico fissare date in modo tranchant quando invece eventi che risultano più appariscenti costituiscono l’esito di processi profondi e dilatati nel tempo: si pensi, nel nostro caso, al vertice europeo di Copenaghen del 1973 sugli elementi fondamentali dell’identità europea o alle due risoluzioni dello stesso Parlamento europeo del 1975 sulla necessità di una Carta dei diritti dei cittadini della comunità europea e del 1977 sui diritti fondamentali.

Ma, per tornare al titolo della relazione, come ebbe a porsi la nostra Costituzione rispetto a questi avvenimenti che caratterizzano i primi vent’anni di vita della Comunità, nel cui arco temporale andarono a collocarsi, tra l’altro, anche la creazione del Sistema Monetario Europeo nel 1979 (pur se l’Italia vi aderì non senza esitazioni ed una grave crisi interna), gli accordi di Schengen del 1985 sulla libera circolazione interna (che diventeranno però operativi per il nostro Paese solo nel 1997, dopo essere stati riassorbiti nella normativa nel c.d. terzo pilastro ad Amsterdam nello stesso anno), l’Atto Unico Europeo del 1986, destinato a rilanciare l’integrazione europea e portare a termine la realizzazione del mercato interno, e prima ancora la vicenda legata alla decisione Simmenthal del 1978, secondo cui incombe al giudice nazionale l’applicazione immediata delle norme comunitarie, senza attendere la rimozione delle norme interne contrastanti da parte del legislatore o della Corte costituzionale?

Può rispondersi che è proprio in questa serie di contingenze che, soprattutto tramite le sentenze n. 183 del 1973 sul primato del diritto comunitario, pur con la riserva dei c.d. controlimiti, e n. 170 del 1984, sulla sua diretta ed ininterrotta efficacia, che la Costituzione entra, per così dire, nella piena disponibilità della Corte costituzionale, la quale, mediante il richiamo costante e fideistico dell’art. 11 [3], se, da un lato, offre copertura alle limitazioni di sovranità derivanti dal nuovo assetto delle fonti normative, dall’altro, sembra porre le premesse per una deresponsabilizzazione del legislatore in merito all’eventuale necessità o anche solo opportunità di por mano ad un revisione costituzionale di adattamento.

Certo: si potrebbe, per altro verso, osservare come debba ancora intervenire l’epoca di quelle grandi modifiche dei trattati originari, che motiveranno in altri ordinamenti rivisitazioni anche profonde dei testi costituzionali, tutto essendo ancora giocato sul versante giurisprudenziale e circoscritto ad un dialogo di sapore piuttosto specialistico tra Corte di Giustizia e Corti costituzionali nazionali. In altri termini, può probabilmente ritenersi ancora adeguata la risposta offerta dalla sola Corte e che nella nostra Carta fondamentale non si sia ancora verificato quel deficit europeo [4], che sarà maggiormente avvertibile in tempi successivi.

A ciò può aggiungersi che, almeno a livello dei rapporti con la normativa di non diretta applicazione, l’intervento operato nel 1989 con la cd. legge La Pergola manifesta una valenza costituzionale, che non può essere revocata in dubbio, attenendo alle fonti del diritto, sia pure sotto il profilo dei meccanismi di recezione del diritto extranazionale, come, del resto, risulterà confermato dalla sussunzione dei suoi principi nella revisione costituzionale di cui alla l. cost. n. 3 del 2001, tal che, con una pratica inversione di ruoli, la c.d. legge Buttiglione, succeduta alla legge La Pergola nel 2005, verrà ad atteggiarsi come disciplina di attuazione del nuovo testo costituzionale.

 

3. Mons murem peperit: il referendum costituzionale d’indirizzo e gli anni ’90. La fase successiva sembra dunque esordire con una rinnovata attenzione del legislatore nazionale nei confronti del fenomeno comunitario, sia sul piano “costituito” (è appunto il caso della legge n. 86 del 1989), sia dal punto di vista “costituente”: risale infatti a questo stesso 1989 l’indizione con legge costituzionale (n. 2 del 1989) di un referendum di indirizzo sul conferimento di un mandato costituente al Parlamento europeo eletto in contemporanea con la celebrazione del referendum stesso.

Su tale vicenda occorrerà tra poco ritornare, non tanto perché abbia prodotto risultati di qualche rilievo, ma soprattutto perché offre importanti spunti di riflessione per il tema che stiamo trattando. Per il momento, è opportuno però procedere sulla linea del discorso già intrapresa, sottolineando come la forma della legge costituzionale sia stata adottata nel 1989, vuoi per autorizzare l’effettuazione di una consultazione popolare diversa da quelle già disciplinate dal dettato costituzionale, presupponendosi evidentemente che i referendum ivi previsti, indipendentemente dalla loro natura e dalla loro fisionomia, fossero sottomessi alla regola del “numero chiuso”, vuoi perché in realtà non di un semplice referendum si sarebbe trattato, ma piuttosto dell’avvio di un processo di revisione dell’ordinamento che avrebbe anche potuto condurre ad esiti in vista dei quali solo una volontà provvista della “maggiore efficacia formale” si rivelava indispensabile [5]. Al di là, dunque, del fatto, che non di rivedere la Costituzione nazionale si trattasse, ma di mettere in cantiere una Costituzione europea, la seconda considerazione consente d’inquadrare la vicenda del referendum d’indirizzo del 1989 anche e soprattutto come un riflesso ineludibile di esigenze di natura costituzionale interna.

Un analogo, sia pure indefinito e fors’anche un po’ nebuloso, afflato costituente non sarà tuttavia percepibile nel periodo successivo e, precisamente, nel poco più di un decennio che, dagli eventi appena indicati, condurrà al Trattato di Nizza e alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 2000, passando attraverso le decisive tappe di Maastricht nel 1992 e di Amsterdam nel 1997, senza assolutamente potersi trascurare le vicende legate all’Unione economica e monetaria, al Patto di stabilità e all’introduzione dell’euro. Lo stesso decennio vede, com’è noto, lo stabilizzarsi della giurisprudenza comunitaria in materia di direttive autoapplicative e responsabilità dello Stato per la loro mancata attuazione (Fratelli Costanzo - 103/88 -: sentenza del 22 giugno 1989; Francovich - C-6 e C-9/90 - sentenza del 19 novembre 1991; e Faccini Dori - C-91/92- sentenza del 14 luglio 1994).

Si tratta questa svolta – è superfluo ricordarlo – di svolgimenti istituzionali a livello comunitario ormai sicuramente slegati dal quadro dei trattati originari, attraverso i quali si legge nitidamente la tendenza sia alla progressiva pervasività del diritto comunitario in ogni settore della vita sociale ed economica, sia alla sempre più incalzante strumentalizzazione degli apparati statali al perseguimento dei fini dell’Unione. Ciò che provoca non a caso in determinati ordinamenti una reazione, sia pure interlocutoria, delle Corti costituzionali, e conseguentemente un aggiustamento di una certa consistenza nelle regole costituzionali.

E qui la comparazione sembra preziosa per comprendere l’anomalia del caso italiano. Limitandoci a pochi esempi più vicini a noi, vediamo come nell’ordinamento francese, quella che potremmo chiamare “europeizzazione” della Costituzione nazionale abbia dato luogo, ad un certo momento, nonostante la presenza di una clausola simile a quella nel nostro art. 11 Cost. [6], ad una poderosa revisione costituzionale. Con la riforma del 1992, si è infatti provveduto all’inserimento nella Costituzione della V Repubblica di un nuovo Titolo XV concernente appunto l’Unione Europea, con puntuale indicazione dei trasferimenti consentiti, talché successivamente non è rimasta esclusa la necessità di ulteriori revisioni costituzionali (è accaduto con il Trattato di Amsterdam e con il Trattato costituzionale, per cui addirittura è stata messa in cantiere una riedizione globale del predetto Titolo XV per l’eventualità dell’entrata in vigore del Trattato stesso). Nella Germania federale, è intervenuta sempre nel 1992 una revisione costituzionale tesa, da un lato, a fornire uno specifico fondamento alla partecipazione all’Unione Europea, allestendo forme speciali di adesione e indicando espliciti controlimiti (artt. 23 e 79) per modifiche dei trattati che possano comportare modifiche od integrazioni della Costituzione, e, dall’altro, addirittura a precisare unilateralmente quale sia la fisionomia dell’Unione cui s’intende aderire: come quella cioè che “è impegnata al rispetto dei principi democratici, dello stato di diritto, sociali e federativi e del principio di sussidiarietà e garantisce una tutela dei diritti fondamentali sostanzialmente equiparabile a quella contemplata” nella Costituzione tedesca. In Portogallo, si apprezza un analogo trend, tanto più significativo in quanto nella Costituzione del 1976, la prima dopo l’esperienza della dittatura, nulla si prevedeva in ordine alla materia che ci occupa: ma, successivamente, in un crescendo di assestamenti costituzionali, anche il Portogallo ha aderito “al rafforzamento dell’identità europea”, statuendo sul trasferimento di poteri dallo Stato nazionale all’Unione europea, fino a pervenire nel 2004 ad una revisione costituzionale che apre esplicitamente le porte al diritto comunitario purché ciò avvenga “nel rispetto dei principi fondamentali dello Stato democratico di diritto”. Non meno interessante è infine l’esperienza spagnola, nella quale è solo la legge organica che, su espressa previsione costituzionale (art. 93), è in grado di “spostare” competenze dallo Stato ad organizzazioni costituzionali, laddove più di recente, sulla base della legge organica n. 3 del 2004, è stato affidato al Consiglio di Stato uno studio delle modifiche necessarie per adeguare la Costituzione spagnola alle esigenze del processo costituzionale europeo [7].

 

4. Il semplice maquillage europeista della riforma del Titolo V. – Ad un simile ordine di idee solo parzialmente si potrebbero invece ascrivere le modifiche “europeiste” introdotte nella Costituzione italiana nel 2001, quindi a ridosso della fase appena accennata, in occasione della riforma del suo Titolo V, trattandosi a ben vedere di un semplice maquillage, considerato, ad esempio, che, per quasi unanime consenso, la citazione nell’art. 117, 1° comma, Cost., del limite degli obblighi comunitari per la legislazione statale e regionale, in nulla avrebbe innovato al sistema delle fonti rispetto a quanto già prodottosi in precedenza in virtù delle potenzialità riconosciute all’art. 11 Cost. [8]. Ma, anche le restanti previsioni paiono più destinate a ratificare (e a rassicurare circa) il pregresso, vale a dire più ad “europeizzare” la Carta costituzionale (penso, ad es., all’inserimento, tutto sommato abbastanza scontato, della concorrenza, dell’elezione del Parlamento europeo, dei rapporti tra Stato e Unione Europea, dell’immigrazione extracomunitaria, tra le materie di competenza legislativa statale) che non a costituzionalizzare – come accaduto in altri ordinamenti – il fenomeno comunitario.

Del tutto silente sul punto si sarebbe poi manifestata anche la revisione costituzionale collegata alla c.d. devolution, ma bocciata nel referendum confermativo del 25/26 giugno 2006. Da questo punto di vista, anzi, molto più avanzato era apparso il testo approvato dalla c.d. bicamerale D’Alema nel novembre 1997 [9], che, oltre a recare uno specifico Titolo VI della Parte II, dedicato alla “Partecipazione dell’Italia all’Unione europea”, conteneva un articolo 114, che non sembra inutile ricordare: “L'Italia partecipa, in condizioni di parità con gli altri Stati e nel rispetto dei principi supremi dell'ordinamento e dei diritti inviolabili della persona umana, al processo di unificazione europea; promuove e favorisce un ordinamento fondato sui principi di democrazia e di sussidiarietà. Si può consentire a limitazioni di sovranità con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera. La legge è sottoposta a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla sua pubblicazione, ne facciano domanda un terzo dei componenti di una Camera o ottocentomila elettori o cinque Assemblee regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi” [10].

 

5. La ratifica del Trattato costituzionale e l’aggravarsi del “deficit europeo” nella Costituzione nazionale Anche in occasione della ratifica del Trattato costituzionale (e veniamo finalmente alle fasi più recenti e salienti del processo costituente europeo), altri ordinamenti hanno percorso strade più impegnative e più adeguate se non alla natura, certamente ai contenuti del Trattato [11], la cui ratifica invece si è consumata in Italia con un mero passaggio parlamentare (l. 7 aprile 2005, n. 57); laddove, se, da un punto di vista formale, è indubbio che ci si trovi ancora dinnanzi ad un trattato internazionale in senso proprio [12] (anche se il suo iter formativo ha visto, nella sua fase istruttoria, ancor più potenziato il sistema della Convenzione già sperimentato con la c.d. Carta di Nizza), appare legittimo il dubbio, da qualche parte avanzato, circa l’idoneità di una semplice legge di autorizzazione ad immettere nell’ordinamento contenuti precettivi di straordinaria portata come quelli rinvenibili nel Trattato costituzionale.

Ed infatti, se è vero che la Parte Terza del Trattato costituzionale non farebbe che riassumere i contenuti dei Trattati già vigenti, da ritenersi ormai coperti da quella sorta di trasformatore continuo che è divenuto l’art. 11 Cost., avrebbero richiesto quantomeno un’armonizzazione del testo costituzionale attuabile ovviamente con la sola fonte costituzionale sia la portata assiologica della Parte Prima e soprattutto della Parte Seconda, sia il riassetto delle competenze dell’Unione e la proclamazione in sede normativa (quindi asseverando l’ormai risalente giurisprudenza comunitaria in tal senso) della prevalenza del suo diritto sul diritto degli Stati membri (da questo punto di vita mi pare che non possa sopravvalutasi la portata limitativa della dichiarazione n. 1 allegata al Trattato, ma piuttosto riflettere sulla portata potenzialmente indiscriminata di questa vera e propria supremacy clause [13]), sia ancora la vera e propria riconfigurazione della fisionomia costituzionale degli Stati, di cui s’intende sì rispettare “l’uguaglianza” davanti alla Costituzione e “la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali”, ma il cui ruolo risulterebbe in pratica ormai consegnato all’esercizio delle sole, sia pure essenziali, funzioni di salvaguardia dell’integrità territoriale, di mantenimento dell’ordine pubblico e di tutela della sicurezza nazionale [14].

E’ vero che, in altre parti del Trattato, le Costituzioni nazionali (penso alla materia della tutela dei diritti) ricevono una considerazione tesa a mantenerne fermo un certo ruolo conformativo, ma anche a questo proposito, non ci si può non chiedere se si sia in presenza di un’operazione normativa che nasconde (o rivela) la fondazione di un assetto gradualistico tra Costituzione europea e Costituzioni nazionali, o che comunque intende porre unilateralmente le regole di rinvio alla fonte ritenuta preferibile ed applicabile.

Pare, conclusivamente, eccessivo ritenere che l’art. 11 Cost., oltre a consentire che per il raggiungimento di determinate finalità e a certe condizioni, l’ordinamento statale si autolimiti [15], possa dare copertura anche ad operazioni di avvio di una pratica estinzione dello Stato stesso. Persino il riconoscimento delle identità nazionali come riferito alle strutture costituzionali e quindi – si sostiene – al limite anche dell’eventualità di applicazioni differenziate del diritto comunitario nei vari ex ordinamenti nazionali (pur con tutte le connesse problematicità teoriche e pratiche [16]) finisce in fondo per trovare copertura nella stessa Costituzione europea e non più in rivendicazioni unilaterali degli Stati membri (con la possibile conseguenza di una prevalenza interpretativa sul punto da parte delle giurisdizioni comunitarie [17]). Né varrebbe, mi pare, allegare il fatto che, come già considerato, in passato determinati snodi nell’evoluzione comunitaria ben avrebbero potuto esigere l’intervento del legislatore di revisione, che però rimase inerte, in quanto non è da una somma di inerzie costituzionali che sembra possibile desumere una regola di inerzia generalizzata.

 

6. Osservazioni conclusive. – D’altro canto, che la natura straordinaria di un’operazione come quella sottesa al Trattato costituzionale fosse già stata avvertita, è provato dalla summenzionata vicenda legata alla l. cost. n. 2 del 1989, che ebbe a sottoporre a referendum popolare la proposta della trasformazione delle Comunità europee in un’effettiva Unione, dotata di un governo parlamentare, e l’attribuzione al Parlamento europeo del mandato di redigere un progetto di costituzione europea da portare alla ratifica degli Stati membri, così che in quel caso l’eventuale successivo passaggio parlamentare di ratifica si sarebbe compiuto con la copertura della previa legge costituzionale. Sulla correttezza e sull’opportunità di un simile meccanismo – un unicum nella storia repubblicana – sembra, del resto, impossibile non consentire, dato che, con esso, si poneva il duplice principio del consenso popolare e del consenso parlamentare, che mi paiono invece essere stati emarginati in occasione del Trattato costituzionale (il primo completamente, il secondo nella sostanza) da una mera legge di autorizzazione alla ratifica.

Per concludere, comunque, sul punto, si può essere dell’avviso che la frenata impressa al processo costituzionale europeo dai dinieghi francese ed olandese alla ratifica del Trattato costituzionale e la conseguente fase di ripensamento da cui solo di recente, almeno a stare alle dichiarazioni ufficiali di Berlino, parrebbe avviata la conclusione, possano costituire l’occasione anche per il nostro ordinamento per effettuare indispensabili puntualizzazioni di principio e di merito, quali, tra le prime, il fatto che, tra le cessioni di sovranità consentite, non debba essere ricompreso, contrariamente a quanto implicato dalla ben nota giurisprudenza costituzionale sull’art. 11 Cost., praticamente l’intero potere di revisione costituzionale così come potrebbe conseguire da un’accettazione indiscriminata ed acritica di qualsiasi trattato che ambisse a porsi come fondamento o premessa di un ordinamento chiaramente predestinato ad assorbire le precedenti sovranità statali [18].

Tra le seconde, l’armonizzazione consapevole e non di risulta dei meccanismi di funzionamento dell’apparato statale, dei livelli di competenza tra le componenti repubblicane indicate nell’art. 114, 1° comma, nonché la fissazione, sia pure facendo tesoro degli esiti della giurisprudenza costituzionale, dei principi che si ritiene che debbano imprescindibilmente connotare la nostra tavola costituzionale dei valori, non tanto e non solo perché facciano argine al processo costituzionale europeo, ma soprattutto perché sia a partire da questi che tale processo vada svolgendosi e, se del caso, compiersi per intero.

Non si tratta, dunque, soltanto di mettere in linea il testo costituzionale con le modificazioni tacite nel frattempo intervenute per effetto del processo costituente europeo, ma soprattutto di prendervi parte attiva, fissandone con chiarezza tempi, limiti e persino la sua stessa possibilità di successo.

Certo, non ci nascondiamo a questo punto i rischi di carattere istituzionale che una siffatta proposta può implicare, che sono poi, a ben vedere, quelli a cui – ma forse il punto meriterebbe ben altro approfondimento – si è cercato di sfuggire in tutta la storia dell’appartenenza dell’Italia alla Comunità, valorizzando oltre il lecito e oltre il logico la clausola dell’art. 11 Cost, ossia il fatto che ogni revisione costituzionale rende maggioranze anche ampie ostaggio di gruppi oppositivi esigui ma numericamente decisivi, con l’aggravante, nel nostro caso, che, per un tempo non breve, l’ostilità avverso la costruzione comunitaria è venuta da grandi formazioni partitiche, così che, attraverso la mediazione più o meno consapevole dell’art. 11 e della Corte costituzionale, è stata avallata la posizione filocomunitaria, occidentalista e, almeno a parole, improntata al liberalismo di praticamente tutti i governi della Repubblica. E’ toccato pertanto alla Corte, ma sulla frontiera estrema dei diritti inviolabili e di non meglio definiti principi supremi, surrogarsi in quella funzione di garanzia che meglio e più attivamente sarebbe spettata al legislatore di revisione.

Non solo, ma il passaggio parlamentare della legge di autorizzazione alla ratifica, sembra ora mettere al riparo dai nuovi pericoli che potrebbero provenire da un eventuale referendum confermativo, dove, a parte il rischio d’imitazione, non è che non veda come la costruzione comunitaria “spinta” fino alla soglia della Costituzione europea, nobile negli obiettivi del lungo periodo e delle generazioni future, sembra alla gente qui ed ora richiedere sacrifici e generare sgomenti non del tutto irrazionali, se è vero che anche il neoeletto presidente francese, orientato verso un trattato più leggero, ritiene prudente che per la sua ratifica non si vada ad un nuovo referendum.

Mi pare però che lo scenario nazionale attuale (chi infatti in sede parlamentare si è dichiarato contro più o meno visceralmente all’Europa sono stati i soli gruppi della lega Nord e di Rifondazione Comunista [19]) sia assai più propizio (anche per le interconnessioni ormai abbastanza strette tra formazioni politiche nazionali e quelle che riuniscono i partiti consimili del resto dell’Unione nell’ambito dei gruppi del Parlamento europeo) per operare comunque una seria ed organica costituzionalizzazione dell’Unione Europea nella Carta fondamentale repubblicana.

 



* Relazione tenuta al convegno su “L’attuazione della Costituzione”, Roma 19 maggio 2007, destinata alla pubblicazione negli Atti relativi curati da Franco Modugno.

[1] Così F. Sorrentino, La nascita della costituzione europea: un’istantanea, in https://www.associazionedeicostituzionalisti.it/materiali/costituzione_ue/interventi/sorrentino_nascita.html.

[2] In G.U. C 77 del 19.3.1984, pag. 53, relatore: Altiero Spinelli, 1-1200/1983.

[3] Diversa è nella sostanza la ricostruzione di F. Sorrentino, ancora richiamata da ultimo, La nascita della costituzione europea, cit., per cui tali conseguenze non discenderebbero propriamente dall’art. 11 Cost., ma dall’attuale art. 249 del Trattato CE, come quello cioè che, statuendo in definitiva sul regime interno delle fonti primarie, rivelerebbe il definito tramonto della prospettiva dualista.

[4] Sull’espressione, cfr. M. Claes, Le “clausole europee” nelle costituzioni nazionali, cit., 319.

[5] Per una puntuale ricostruzione dei lavori e in genere del dibattito preparatorio della l. cost. n. 2 del 1989, cfr. P. Lotito, in G. Branca e A. Pizzoruzzo (curr.), Commentario della Costituzione (Disp. tr. fin. I-XVII, Leggi cost. e l. rev. cost., 1948-1993), Bologna-Roma, 1995, 575.

[6] Nell’alinea 15 del Preambolo della Costituzione della IV Repubblica (Sous réserve de réciprocité, la France consent aux limitations de souveraineté nécessaires à l'organisation et à la défense de la paix).

[7] Sulle c.d. clausole europee, cfr. M. Claes, Le “clausole europee” nelle costituzioni nazionali, in Quad. cost., 2005, 283.

[8] Cfr. C. Pinelli, I limiti generali alla potestà legislativa statale e regionale e i rapporti con l’ordinamento internazionale e con l’ordinamento conuitario, in Foro it., 2001, V, 194.

[9] Da questo punto di vista, forse eccessiva la per altro verso condivisibile critica formulata da A. Quadrio Curzio e A. Santini, Revisioni costituzionali italiane e trattati europei: profili giuridici ed economici, in Iustitia, 2005, 435.

[10] Sul punto, cfr. P. Costanzo, G.F. Ferrari, G.G. Floridia, R. Romboli e S. Sicardi (curr.), La Commissione bicamerale per le riforme costituzionali, Padova, 1998, 225, 239 e 284; C, Curti Galdino, Il progetto di revisione costituzionale sui temi attinenti all’Unione europea nei lavori della Bicamerale, in SIDI, Società Italiana Diritto Internazionale n. 4, I, Riforme costituzionali, Prospettiva europea e prospettiva internazionale, Napoli, 2000, 27.

[11] Cfr. M. Cartabia, La ratifica del trattato costituzionale europeo e la volontà costituente degli Stati membri, in www.forumcostituzionale.it/site/index3.php?option=content&task=view&id=130.

[12] Di una mancanza di un ruolo europeo forte del Parlamento italiano e sul supposto ancoramento di questi al modello “internazionale” piuttosto che alla realtà “costituzionale” europea, discorre S. Mancini, L’Unione europea nellal revisione costituzionale, in Quad Cost., 2006, 332 e ss.

[13] Sul punto molto efficacemente, cfr. M. Cartabia, “Unita nella diversità”: il rapporto tra la Costituzione europea e le Costituzioni nazionali, in Dir. un. eur. 2005, 590.

[14] Sulla decisività del tema delle competenze per dirimere la questione della prevalenza assoluta o meno dell’ordinamento comunitario richiama l’attenzione ancora M. Cartabia, “Unita nella diversità, cit., 589.

[15] Peraltro, com’è noto, ad un simile indiscriminato esito non tutti gli ordinamenti degli Stati membri sono pacificamente pervenuti, con il rischio, anche qui, della creazione di un ordinamento europeo, sotto il profilo dell’efficacia delle norme comunitarie, a geometria variabile, che sarebbe proprio l’esatto opposto delle finalità della costruzione europea: ragiona in proposito di “basi scivolose e disparate” A. Ruggeri, Revisioni formali, modifiche tacite della costituzione e garanzie dei valori fondamentali dell’ordinamento, in Dir. Soc., 2005, 500, nota 99.

[16] Cfr. A. Ruggeri, Presentazione, in S. Staiano, Giurisprudenza costituzionale e principi fondamentali: alla ricerca del nucleo duro delle Costituzioni, Torino, 2006, 15.

[17] Come paventato da M. Cartabia, “Unita nella diversità, cit., 594.

[18] In senso analogo, cfr. A. Ruggeri, Revisioni formali, cit., 504, sulla base di una “logica” assiologica nei rapporti tra ordinamenti.

[19] Sul punto, cfr. L. Gianniti, La ratifica italiana del Trattato costituzionale europeo, in Quad. cost., 2005, 664 e ss.