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STEFANO MARIA CICCONETTI

L’EQUIVOCO DELL’ART. 138 COME PARAMETRO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE*

 

1. La recentissima sentenza della Corte costituzionale n. 23 del 2011 ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale di alcune disposizioni della L. 7 aprile 2010, n. 51, comunemente nota come legge sul legittimo impedimento, per violazione degli artt. 3 e 138 della Costituzione[1].

Il riferimento all’art. 138, come parametro aggiuntivo alla stregua del quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale delle suddette disposizioni legislative, si riallaccia ad un uguale riferimento compiuto dalla stessa Corte, nonché ancor prima dai corrispondenti giudici rimettenti, nella precedente sentenza n. 262/2009 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della cosiddetta legge Alfano, analoga, per quanto attiene alle sue finalità, alla legge all’inizio citata.

Diversamente, la più lontana sentenza n. 24/2004, pur giungendo alla dichiarazione d’illegittimità della ancora una volta analoga legge Schifani – la capostipite delle altre due – giustifica tale dichiarazione sulla base della violazione degli artt. 3 e 24, senza richiamare l’art. 138. Richiamo che, del resto, non era stato compiuto neanche dal giudice rimettente, ad eccezione di qualche accenno contenuto nella motivazione dell’ordinanza.

Inoltre, da un’accurata ricerca diligentemente compiuta a partire dall’entrata in funzione della Corte, l’art. 138 come parametro di legittimità costituzionale non risulta essere mai stato evocato in alcuna sentenza di accoglimento[2].

A fronte di un dato assolutamente imponente in termini quantitativi, qual è quest’ultimo, lo scopo di queste brevi riflessioni non è quello di esaminare nel dettaglio le due sentenze del 2009 e del 2011 – sul cui dispositivo, peraltro, si concorda pienamente – ma piuttosto di cercare di capire se questa improvvisa discesa in campo dell’art. 138 sia giustificata e, soprattutto, sia utile. E’ pertanto necessario partire dalle prime citazioni dell’art. 138, contenute nelle ordinanze di rimessione che hanno dato luogo alla sentenza n. 262/2009, nonché in quest’ultima, per confrontarle con la stessa citazione, per la verità più sfumata come si vedrà più avanti, contenuta nella sentenza n. 23/2011.

 

2. L’ordinanza del Tribunale di Milano n. 397/2008 afferma che i commi 1 e 7 dell’art. 1 della L. n. 124/2008 violano l’art. 138 perché intervengono in una “materia riservata ex art. 138 Cost. al legislatore costituente[3], così come dimostrato dalla circostanza che tutti i rapporti tra gli organi con rilevanza costituzionale ed il processo penale sono definiti con norma costituzionale”.

La successiva ordinanza dello stesso Tribunale di Milano n. 398/2008 afferma che “la normativa sullo status dei titolari delle più alte istituzioni della Repubblica è in sé materia tipicamente costituzionale, e la ragione è evidente: tutte le disposizioni che limitano o differiscono nel tempo la loro responsabilità si pongono quali eccezioni rispetto al principio generale dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge previsto dall’art. 3 della Costituzione, principio fondante di uno Stato di diritto”.

L’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma n. 9/2009 afferma che la violazione dell’art. 138 dipende dal fatto che “ la deroga al principio di uguaglianza dinanzi alla giurisdizione ed alla legge è stata introdotta con lo strumento della legge ordinaria, che nella gerarchia delle fonti si colloca evidentemente ad un livello inferiore rispetto alla legge costituzionale”.

 

3. La sentenza n. 262/2009 precisa innanzitutto che le ordinanze di rimessione “non si limitano a denunciare la violazione dell’art. 138 Cost. quale mera conseguenza della violazione di una qualsiasi norma della Costituzione. Esse, infatti, non si basano sulla considerazione – di carattere generico e formale – che, in tal caso, solo una fonte di rango costituzionale sarebbe idonea (ove non violasse a sua volta principi supremi, insuscettibili di revisione costituzionale) ad escludere il contrasto con la Costituzione. Al contrario, il Tribunale rimettente prospetta una questione specifica e di carattere sostanziale, in quanto denuncia – con adeguata indicazione dei parametri – la violazione del principio di uguaglianza facendo espresso riferimento alle prerogative degli organi costituzionali”.

La lunga citazione di questo passo iniziale della sentenza fa capire come la Corte -  oltre a confutare nello specifico l’eccezione, avanzata da una delle parti, secondo cui le ordinanze si limiterebbero a denunciare la violazione del solo art. 138 senza indicazione di altre norme parametro – ponga le fondamenta della motivazione di fondo della propria decisione, imperniata, nella sostanza, su disposizioni costituzionali logicamente anteriori e prevalenti rispetto all’art. 138, quali da un lato le disposizioni che prevedono prerogative per gli organi costituzionali (artt. 68, 90 e 96) e dall’altro l’art. 3.

Infatti – molto sinteticamente dati i numerosi commenti alla sentenza n. 262 che in questo senso si sono già succeduti[4] - la Corte, dopo aver accertato che la norma censurata prevede una vera e propria prerogativa, afferma che il sistema delle prerogative previsto da norme costituzionali non può essere alterato dal legislatore ordinario né in peius né in melius. “Tale conclusione – prosegue la Corte – non deriva dal riconoscimento di un’espressa riserva di legge costituzionale in materia,[5] ma dal fatto che le suddette prerogative sono sistematicamente regolate da norme di rango costituzionale”. E poiché caratteristica di tali prerogative è quella di derogare al principio di uguaglianza di fronte alla legge, la norma in questione, in quanto contenuta in una legge ordinaria, non è in grado di determinare legittimamente tale deroga ma, al contrario, costituisce una violazione dell’art. 3. In conclusione, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della L. n. 124 del 2008 “per violazione del combinato disposto degli artt. 3 e 138 Cost., in relazione alla disciplina delle prerogative di cui agli artt. 68, 90 e 96 Cost.”.

 

4. Le ordinanze di rimessione che hanno condotto alla sentenza n. 23/2011 si rifanno alla motivazione, da ultimo indicata, della sentenza n. 262/2009, ritenendo conseguentemente l’illegittimità costituzionale di alcuni commi dell’art. 1 della L. 7 aprile 2010, n. 51, in quanto essi, “introducendo una presunzione iuris et de jure di impedimento continuativo per un lungo periodo di tempo connessa alle funzioni di governo si sostanziano in una norma di status derogatoria dell’ordinaria giurisdizione e dunque in una prerogativa che richiede una copertura costituzionale”[6]. Due di tali ordinanze invocano come parametro violato il solo art. 138, mentre la terza si richiama agli artt. 3 e 138 congiuntamente nonché all’art. 3, considerato autonomamente sotto il profilo della ragionevolezza. Nessuna delle tre ordinanze cita gli artt. 68, 90 e 96 Cost..

 

5. La sentenza n. 23/2011 preliminarmente richiama le motivazioni e le conclusioni della sentenza n. 262/2009 in ordine alla violazione degli artt. 3 e 138.

Alla luce di tali principi, la Corte ritiene di dover verificare se “la disciplina censurata…, a prescindere dal suo carattere temporaneo, rappresenti una deroga al regime processuale comune, che è in particolare quello previsto dall’art. 420-ter c.p.c.in quanto “esso rappresenta il termine di riferimento per valutare se la normativa censurata, derogando alle ordinarie norme processuali, introduca, con legge ordinaria, una prerogativa la cui disciplina è riservata alla Costituzione,[7] violando il principio della eguale sottoposizione dei cittadini alla giurisdizione e ponendosi, quindi, in contrasto con gli artt. 3 e 138 Cost.”[8].

I risultati di tale verifica – nella quale si sostanzia pressoché totalmente la parte del considerato in diritto della sentenza – sono, per quanto qui interessa, i seguenti: a) la Corte dichiara che non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate, per la parte in cui si riferiscono all’art. 1, comma 1, in quanto tale disposizione venga interpretata in conformità con l’art. 420-ter, comma 1, c.p.c.; b) la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dei commi 3 e 4 dell’art. 1 per contrasto con gli artt. 3 e 138 perché tali disposizioni non integrano bensì sostituiscono la disciplina del regime processuale comune contenuta nell’art. 420-ter. In particolare, l’illegittimità del comma 3 deriva dal fatto che esso non consente al giudice l’esercizio del “potere di apprezzamento in concreto dell’impedimento, che è elemento essenziale della disciplina comune del legittimo impedimento”[9]. L’illegittimità del comma 4 deriva dal fatto che esso “introduce nell’ordinamento una peculiare figura di legittimo impedimento consistente nell’esercizio di funzioni di governo, connotata dalla continuatività dell’impedimento stesso e dall’attestazione di esso da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri”[10].

Le norme parametro espressamente citate sono, come si è visto, soltanto gli artt. 3 e 138; non lo sono, invece, gli artt. che disciplinano le prerogative degli organi costituzionali (artt. 68, 90 e 96[11]), anche se il riferimento ad essi è implicito poiché deriva dall’adesione della sentenza n. 23 alle premesse poste dalla sentenza n. 262.

6. La dichiarata identità di premesse tra la sentenza n. 23/2011 e la sentenza n. 262/2009 ripropone in buona parte alcune questioni, relative alla citazione dell’art. 138, che erano già state individuate dalla dottrina nei commenti alla sentenza n. 262.

La prima di esse riguarda l’esigenza di capire perché per la prima volta nel 2009, ed oggi nel 2011, la Corte invoca come norma parametro l’art. 138, che disciplina il procedimento di formazione delle leggi costituzionali[12], accanto a disposizioni della Costituzione cosiddette sostanziali (artt. 3, 68, 90 e 96 Cost.), vale a dire disposizioni che stabiliscono vincoli al contenuto delle leggi e degli atti aventi forza di legge.

Una ragione potrebbe essere quella, di kelseniana memoria, per cui in regime di Costituzione rigida ogni vizio di costituzionalità dovrebbe sempre qualificarsi come vizio formale poiché il contrasto con una disposizione costituzionale non sussisterebbe se si fosse proceduto con lo strumento della legge costituzionale, invece che con legge ordinaria[13]. Tuttavia, se così fosse, non si spiegherebbe, come mostrato all’inizio, perché dal 1956 al 2009 l’art. 138 non sia mai stato evocato accanto alle varie norme parametro che di volta in volta sono state alla base di sentenze di accoglimento. Com’è stato efficacemente detto, infatti, “è possibile … ritenere che il richiamo all’art. 138 non ci sia mai ma potrebbe esserci sempre o, meglio, che non ci sia mai perché potrebbe esserci sempre”[14]. Inoltre, certamente la Corte non ignorava le critiche mosse alla tesi di cui sopra, che, in positivo, portavano a ricondurre i vizi formali ai soli vizi del procedimento e non anche a quelli relativi alla scelta del procedimento stesso[15].

Una diversa ragione potrebbe essere quella, forse ricavabile dai passi della sentenza n. 262 in precedenza citati, secondo cui la violazione dell’art. 138 discenderebbe “dal fatto che le suddette prerogative sono sistematicamente regolate da norme di rango costituzionale” e quindi, pur non essendo prevista al riguardo dalla Costituzione “una espressa riserva di legge costituzionale”, la legge ordinaria non potrebbe legittimamente introdurre una nuova prerogativa, pena la sua incostituzionalità nei riguardi degli artt. 3 e 138 in relazione alla disciplina delle prerogative di cui agli artt. 68, 90 e 96 Cost..

La valutazione di questa seconda eventuale ragione richiede preliminarmente l’esame della seguente questione: gli artt. 68, 90 e 96 Cost. prevedono una riserva di legge costituzionale?

La sentenza n. 262, come si è appena visto, contiene un’affermazione al riguardo abbastanza ambigua poiché nel momento in cui essa nega chiaramente la presenza in Costituzione di una riserva espressa di legge costituzionale non è detto che con ciò essa escluda con altrettanta certezza la possibilità di una riserva implicita. La sentenza n. 23, dal canto suo, è altrettanto ambigua (forse volutamente?) quando si chiede se la normativa censurata, derogando alle ordinarie norme processuali, introduca, con legge ordinaria, una prerogativa “la cui disciplina è riservata alla Costituzione”. Quest’ultima espressione si riferisce, sia pure con un termine improprio, all’esistenza di un’implicita riserva di legge costituzionale, oppure l’uso della parola “Costituzione” invece delle parole “legge costituzionale” è voluto e dunque starebbe a significare che la disciplina delle  prerogative costituzionali è tassativamente stabilita dalla sola Costituzione e non consente integrazioni neppure da parte delle leggi costituzionali?          

Ora, a prescindere dalla tesi secondo la quale le riserve  di legge, siano esse di legge ordinaria o di legge costituzionale, devono necessariamente essere espresse[16], non si può escludere che disposizioni contenute in Costituzione impongano implicitamente il ricorso a leggi costituzionali per determinati interventi normativi. In questi termini ed ai fini che qui interessano, la questione se gli artt. 68, 90 e 96 Cost. prevedano o meno un’implicita riserva di legge costituzionale diventa una questione nominalistica poiché quello che conta è capire se, alla luce dei principi che regolano i rapporti tra le fonti, da quelle disposizioni scaturisca comunque un vincolo in ordine al ricorso alla legge costituzionale per la loro integrazione, vale a dire per la creazione di una prerogativa nuova per il suo contenuto e/o per i suoi destinatari[17].

La premessa per rispondere al quesito appena posto è la distinzione tra disposizioni costituzionali “aperte” o “chiuse”, vale a dire tra disposizioni che consentono interventi integrativi della disciplina da esse posta da parte di leggi ordinarie ovvero che li escludono in virtù del carattere tassativo della citata disciplina. Un esempio del primo tipo è rappresentato dall’art. 76 Cost. poiché i limiti ivi previsti e che le singole leggi di delegazione devono indicare nei confronti dei decreti legislativi del Governo sono stati considerati dalla Corte costituzionale come un minimo ma non anche come un massimo, tali, pertanto, da essere legittimamente integrati da limiti ulteriori posti dalle leggi di delegazione[18]. Un esempio del secondo tipo è rappresentato  dall’art. 16 Cost., nella parte in cui vincola tassativamente la possibilità per la legge d’introdurre limitazioni alla libertà di circolazione e soggiorno soltanto per “motivi di sanità o di sicurezza”. Alla luce della suddetta distinzione, le disposizioni di cui agli artt. 68, 90 e 96 Cost., che disciplinano le prerogative di taluni organi costituzionali, sono qualificabili come disposizioni aperte o chiuse? Non c’è dubbio che la risposta corretta sia la seconda, come anche si desume dalla sentenza n. 262, puntualmente confermata dalla sent. n. 23, laddove si afferma che “il sistema delle prerogative previsto da norme costituzionali non può essere alterato dal legislatore ordinario né in peius né in melius” e che tale conclusione deriva “dal fatto che le suddette prerogative sono sistematicamente regolate da norme di rango costituzionale”. Sembrerebbe pertanto – ma si mostrerà tra poche righe che non è necessariamente così – che le citate disposizioni costituzionali, escludendo l’intervento della legge ordinaria, vincolino il ricorso alla legge costituzionale sia che le si interpreti come prescriventi un’implicita riserva di legge costituzionale, sia che le si interpreti come disposizioni “chiuse” nel senso che si è cercato di chiarire.

Si prenda per buona, per il momento, tale conclusione e si cerchi di capire se, alla luce di essa, sia coerente la citazione dell’art. 138 come norma parametro violata. La risposta sembra dover essere negativa poiché le norme parametro violate sono soltanto gli artt. 68, 90 e 96 Cost., in quanto sono esse – e soltanto esse – le disposizioni che escludono l’intervento delle leggi ordinarie e sembrano vincolare il ricorso alla legge costituzionale. Nulla stabilisce al riguardo l’art. 138, come invece erroneamente affermato in due ordinanze di rimessione[19]. Del resto, a proposito delle riserve di legge ordinaria previste dalla Costituzione, quando mai si è sostenuto, in giurisprudenza o in dottrina, che la loro violazione da parte di un regolamento amministrativo costituisca anche violazione delle disposizioni della Costituzione (artt. 70 e seguenti) che disciplinano il procedimento di formazione delle leggi ordinarie? Quando mai si è sostenuto che in tal caso la violazione degli artt. 70 e ss. deriverebbe da una scelta sbagliata relativa all’atto normativo necessario per disciplinare quella specifica materia coperta da una riserva di legge? E quali ragioni logiche consentirebbero, invece, di affermare il contrario nel caso di riserve di legge costituzionale? Io credo nessuna.

Tuttavia, come si è cercato di avvertire in precedenza, il discorso non può ritenersi concluso, perché se è incontrovertibile che gli artt. 68, 90 e 96 Cost. escludono interventi della legge ordinaria per introdurre nuove prerogative, non è affatto detto con altrettanta certezza che essi consentano tali interventi qualora siano adottati con il diverso strumento della legge costituzionale.

In questo senso, diventa fondamentale stabilire quale sia il rapporto intercorrente tra gli artt. 68, 90 e 96 e l’art. 3 Cost.  – disposizione, quest’ultima, richiamata come norma parametro da tutte e tre le sentenze all’inizio citate -  poiché tale rapporto può in astratto ricostruirsi in due modi diversi.

Secondo una prima interpretazione, il sistema delle prerogative degli organi costituzionali, come disegnato dai Costituenti negli artt. 68, 90 e 96, è coerente con l’art. 3 poiché prevede un bilanciamento dei valori in gioco, tale da giustificare  deroghe al regime processuale stabilito dalla Costituzione per tutti i cittadini con l’esigenza di tutelare il libero svolgimento di determinate e specifiche funzioni attribuite dalla stessa Costituzione ad alcuni organi costituzionali. Ed è notorio che proprio il principio di un corretto bilanciamento dei valori è stato il criterio in base al quale la Corte costituzionale ha spesso adottato sentenze di rigetto nei confronti di questioni aventi ad oggetto leggi che i giudici rimettenti ritenevano contrastanti con l’art. 3. La suddetta interpretazione condurrebbe ad ammettere la possibilità che siano introdotte nuove prerogative, in aggiunta a quelle già previste dalla Costituzione, alla duplice condizione che lo siano con legge costituzionale e che tale legge contenga una disciplina della nuova prerogativa rispettosa di un corretto bilanciamento dei valori in gioco, in modo da rispettare il principio supremo di eguaglianza stabilito dall’art. 3.

Secondo una diversa interpretazione - che mi appare preferibile - il sistema delle prerogative degli organi costituzionali, come disegnato dai Costituenti negli artt. 68, 90 e 96, costituisce in partenza una consapevole deroga al principio di eguaglianza stabilito dall’art. 3. Si tratterebbe, in altre parole, di eccezioni secche al suddetto principio al di fuori di qualsivoglia meccanismo di bilanciamento. Inoltre, poiché il principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge è stato qualificato dalla Corte costituzionale come uno di quei principi supremi che costituiscono limiti assoluti alla revisione costituzionale[20], oltre che “controlimiti” all’ingresso del diritto comunitario nel nostro ordinamento[21], esso non consente neanche alle leggi costituzionali d’introdurre nuove eccezioni oltre a quelle già previste, espressamente o implicitamente, dalla Costituzione. L’ambito d’intervento delle leggi costituzionali nei confronti degli artt. 68, 90 e 96 deve pertanto intendersi limitato soltanto ad eventuali interventi riduttivi, vale a dire tendenti ad eliminare o a disciplinare in modo meno favorevole talune delle prerogative previste dalle citate disposizioni. Come in effetti è stato finora confermato dalla prassi, poiché i due unici interventi in tema di prerogative degli organi costituzionali, non ricollegabili a norme già ricavabili dal testo della Costituzione, sono stati quello compiuto dalla legge costituzionale 29 ottobre 1993, n. 3, che ha modificato l’art. 68, eliminando l’istituto dell’autorizzazione a procedere nei confronti dei parlamentari, e quello compiuto dalla legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1, che  ha introdotto per i reati ministeriali una disciplina processuale (competenza della giurisdizione ordinaria) meno favorevole della precedente (competenza della Corte costituzionale a composizione integrata). Le due leggi costituzionali[22] che hanno esteso alcune prerogative ai giudici costituzionali non costituiscono eccezioni a quanto qui sostenuto poiché esse si ricollegano alla espressa previsione dell’art. 137, comma 1, nella parte in cui dispone che “una legge costituzionale stabilisce … le garanzie d’indipendenza dei giudici della Corte”[23].

 

7. Come si vede, a seconda dell’interpretazione che si ritenga di accettare in ordine al rapporto – di conformità o di deroga – intercorrente tra gli artt. 68, 90 e 96 e l’art. 3, le conclusioni che ne scaturiscono sono tra loro diametralmente opposte. Si tratta, quindi, di vedere quale delle due interpretazioni sia stata implicitamente accolta dalla Corte costituzionale nelle sentenze nn. 262 e 23. Operazione non facile, già tentata da quasi tutti i commentatori della sentenza n. 262 con risultati contrastanti[24], e nella quale vorrei evitare di addentrarmi, tenuto conto del fatto che le presenti note riguardano principalmente il riferimento compiuto dalla Corte all’art. 138. Perciò, soltanto qualche breve spunto al riguardo.

Va preliminarmente osservato che la Corte non afferma mai espressamente l’inidoneità della legge costituzionale, oltre che della legge ordinaria, ad introdurre nel nostro ordinamento una nuova prerogativa. Tuttavia, tale rilievo non è decisivo perché la Corte, in ambedue le occasioni qui considerate, era tenuta a pronunziarsi soltanto su disposizioni contenute in leggi ordinarie e non era invece tenuta ad anticipare il proprio giudizio su un’eventuale futura legge costituzionale che riproponesse domani una disciplina analoga a quella bocciata oggi. Eventualità, quest’ultima, abbastanza difficile da realizzarsi – al di là del fatto che un disegno di legge costituzionale in tal senso è già stato presentato al Senato dal Governo - data la mancanza in Parlamento dei voti necessari a raggiungere le maggioranze qualificate previste dall’art. 138 e l’esito estremamente incerto dell’eventuale referendum confermativo.

 Diversamente, qualche accenno alla necessità di ricorrere allo strumento della legge costituzionale per introdurre una nuova prerogativa è presente nella sentenza n. 262, laddove si giudica corretto l’assunto relativo alla necessità che le prerogative abbiano “copertura costituzionale “ e, poco più avanti, si ribadisce che “le prerogative dei componenti e dei titolari degli organi costituzionali devono essere previste da norme di rango costituzionale“[25]. Accenni che, invece, mancano nella sentenza n. 23, fatta salva l’affermazione, già ricordata in precedenza e non facile da interpretare, secondo cui la disciplina delle prerogative “è riservata alla Costituzione[26].

L’unica affermazione chiara è, invece,  quella relativa al carattere derogatorio delle prerogative rispetto al principio di eguaglianza. La sentenza n. 262 lo afferma esplicitamente ai punti 7.3.1 e 7.3.2.2. Tuttavia, come si è cercato di dimostrare in precedenza, la chiarezza di tale affermazione non comporta altrettanta chiarezza in ordine alle conseguenze che ne possono derivare: qualsiasi legge costituzionale può introdurre una nuova prerogativa? oppure è necessaria una legge costituzionale il cui contenuto risponda ad un equo bilanciamento dei valori in gioco? oppure neanche una legge costituzionale  potrebbe introdurre deroghe, come quelle insite nel concetto di prerogativa, al principio supremo di cui all’art. 3?

 

8. Per concludere. Il richiamo dell’art. 138 come norma parametro di legittimità costituzionale è inutile se viene compiuto accanto al richiamo di altre disposizioni costituzionali che si assumono violate, come nella fattispecie l’art. 3 e gli artt. 68, 90 e 96. Diventa erroneo qualora – come si è cercato di dimostrare - si ritenga che l’art. 3, in quanto prescrivente un principio supremo, non tolleri alcuna deroga neppure da parte di leggi costituzionali. In questo secondo caso, inoltre, può essere fuorviante sul piano politico e dei media – come puntualmente è avvenuto a seguito della sentenza n. 262 – in quanto suscettibile di essere interpretato nel senso di una sorta di via libera senza condizioni da parte della Corte costituzionale all’introduzione di nuove prerogative con lo strumento della legge costituzionale.

L’auspicio è che si ritorni all’antico: poiché l’art. 138 disciplina il procedimento di formazione delle leggi costituzionali, il suo richiamo come norma parametro di legittimità costituzionale andrà compiuto soltanto in caso di vizio formale di una legge costituzionale, vale dire quando le Camere, nel corso del procedimento di formazione di quest’ultima, abbiano violato alcuna delle norme che disciplinano il suddetto procedimento.



* per gentile concessione della Rivista “Giurisprudenza Italiana”

[1] I giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della L. 7 aprile 2010, n. 51 (Disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza) sono stati promossi dal Tribunale di Milano, sezione I penale e sezione X penale, con ordinanze del 19 e del 16 aprile 2010 e dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano con ordinanza del 24 giugno 2010, rispettivamente iscritte ai nn. 173, 180 e 304 del registro ordinanze 2010 e pubblicate nella Gazz. Uff. nn. 24 e 41, I Serie speciale, dell’anno 2010. Sulla sentenza in epigrafe v. Girelli, in Recentissime dalla Corte costituzionale a cura di Ruotolo, in Giur. It., 2011, 247-248.

[2] Cfr. Ferraiuolo, Osservazioni, a prima lettura, sull’art. 138 Cost. come parametro di legittimità nella sentenza n. 262 del 2009, in www.federalismi.it, n. 20, 2009, 1.

[3] L’aggettivo “costituente” invece di “costituzionale” è evidentemente frutto di una mera svista materiale.

[4] Tra i molti, cfr. quelli riportati in Consulta OnLine a commento della sentenza n. 262/2009, quelli contenuti nel volumetto Il Lodo Alfano (a cura di Celotto), Roma 2009, e quelli contenuti in La legge Alfano sotto la lente del costituzionalista, estratto da Giur. it., 2009, 767-792.

[5] Il corsivo è mio e vuole indicare un punto importante della sentenza che verrà ripreso più avanti nel testo unitamente a quanto evidenziato, sempre in corsivo, nella sentenza n. 23/2011.

[6] Così, testualmente, l’ordinanza n. 173/2010 del Tribunale di Milano, sez. I penale. Nello stesso senso le ordinanze n. 180/2010 del Tribunale di Milano, sez. X penale, e n. 304/2010 del GIP presso il Tribunale di Milano.

[7] Il corsivo è mio e vuole indicare un punto importante della sentenza che verrà ripreso più avanti nel testo.

[8] Cfr. punto 4.2 cons. dir.

[9] Cfr. punto 5.2 cons. dir.

[10] Cfr. punto 5.3 cons. dir.

[11] Ai quali vanno aggiunti l’art. 3 della L. costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, che estende ai giudici costituzionali le prerogative previste dall’art. 68, comma 2, Cost., e l’art. 5 della L. costituzionale n. 1 del 1953, secondo il quale i giudici della Corte costituzionale non sono sindacabili, né possono essere perseguiti per le opinioni espresse e per i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni.

[12] Non entro qui nel merito della distinzione, di cui all’art. 138, tra leggi di revisione della Costituzione e altre leggi costituzionali, da alcuni sostenuta e da altri (me compreso) negata, poiché il discorso sviluppato nel testo ne può prescindere.

[13] Cfr. Kelsen, La garantie jurisdictionnelle de la Constitution, in Rev. dr. publ. sc. pol., 1928, 198 ss., 204 ss.

[14] Cfr. Ferraiuolo, Osservazioni, cit., 2.

[15] Per le critiche mosse alla tesi di Kelsen e per il concetto di vizio formale di cui al testo, cfr. Esposito, La validità delle leggi, Padova 1934, (ristampa del 1964), 162; Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, II, Padova 1984, 363 ss.; Modugno, Legge (Vizi della) in Enc. Dir., XXIII, Milano 1978, 1002.

[16] Come afferma Pugiotto, La seconda volta, in Cass. penale, 2010, n. 1, 57.

[17] Per la tesi secondo cui alcune disposizioni della Costituzione, pur non prevedendo riserve di legge costituzionale in modo espresso, renderebbero comunque necessario il ricorso a leggi costituzionali cfr. Cicconetti, Legge costituzionale, in Enc. Dir., XXIII, Milano 1973, 935, che cita al riguardo alcuni esempi, molti dei quali, peraltro, oggi non più attuali alla luce d’indirizzi giurisprudenziali della Corte costituzionale (come il caso del diritto comunitario direttamente applicabile) all’epoca imprevedibili. Tuttavia, al di là della questione se l’art. 7 Cost. possa o meno ricostruirsi come una disposizione che prevede espressamente una riserva di legge costituzionale, l’art. 10, comma 1, Cost. implica tacitamente il ricorso a leggi costituzionali per modificare le norme interne da esso create in modo automatico, qualora a tali norme non si attribuisca un grado supercostituzionale ma, come la stessa Corte costituzionale ha affermato, un grado costituzionale (cfr. sentt. nn. 48/1979 e 15/1996) ovvero il grado di leggi ordinarie ma con funzione di norme interposte (cfr. sentt. nn. 278 e 329/1992 e 131/2001). La stessa conclusione vale per l’art. 117, comma 1, Cost. nella parte in cui impone alle leggi statali e regionali il vincolo del rispetto dei trattati internazionali, poiché l’eventuale modifica delle norme interne, create mediante ordine di esecuzione delle clausole di un trattato internazionale, non potrà avvenire mediante una legge ordinaria (pena la violazione indiretta della citata norma costituzionale) ma dovrà necessariamente avvenire ad opera di una legge costituzionale.

[18]  Cfr. sentt. nn. 38/1964 e 27/1970.

[19] Cfr. le ordinanze del Tribunale di Milano nn. 397 e 398 del 2008 all’inizio (punto 2) citate.

[20] Cfr. sentt. nn. 175/1971, 18/1982 e 203/1989. Com’è noto, la  decisione della Corte costituzionale che ha affermato l’esistenza di limiti taciti alla revisione costituzionale con valore assoluto è la sent. n. 1146/1988. Può sembrare contraddittorio che chi, come il sottoscritto, ha fortemente criticato tale sentenza ed ha negato, fin dal 1973, l’esistenza di limiti taciti alla revisione costituzionale con valore assoluto, accetti oggi la logica dei principi supremi come principi immodificabili da parte delle stesse leggi costituzionali. La spiegazione è semplice: il giurista positivista non può rimanere innamorato delle proprie tesi, pur continuando a ritenerle esatte, a fronte dell’esistenza di un diritto vivente, come quello relativo ai principi supremi, che è oramai un dato di fatto consolidato da una costante giurisprudenza della Corte costituzionale e del quale non si può non tenere conto.

[21] Cfr. sentt. nn. 183/1973 e 170/1984.

[22] Cfr. la precedente nota 10.

[23] L’unica eccezione – eccezione doppia perché introdotta non con legge costituzionale ma addirittura con legge ordinaria - è rappresentata dall’art. 5 della L. 3 gennaio 1981, n. 1, che ha previsto l’insindacabilità delle opinioni espresse dai componenti del Consiglio superiore della magistratura nell’esercizio delle loro funzioni e concernenti l’oggetto della discussione. Tuttavia, la motivazione della sent. n. 148/1983, con la quale la Corte costituzionale ha respinto la questione di costituzionalità sollevata nei confronti della suddetta legge, è talmente poco convincente da far ritenere che la legge stessa sia in realtà incostituzionale e che dunque l’eccezione a quanto sostenuto nel testo sia, da un punto di vista logico, soltanto apparente.

[24] Il carattere di nota a prima lettura del presente lavoro spero giustifichi la mancata citazione nominativa degli AA. che si sono occupati dei vari “lodi” e delle relative sentenze. Per evitare di dimenticarne qualcuno non ne cito nessuno e mi limito a rinviare alle indicazioni di cui alla nota 3.

[25] Cfr. punti 7.3.1. e  7.3.2.2.

[26] Cfr. punto 4.2.