Camilla Bianchi

 

La definizione del principio di non discriminazione di genere tra fonti del diritto internazionale e fonti interne: spunti per una riflessione

 

 

Premessa

 

In una recente nota il Presidente del Comitato delle Nazioni Unite, nell’esaminare lo stato di attuazione dei principi contenuti nella Convenzione internazionale c.d. Cedaw, ha contestato al Governo italiano la “mancanza di una definizione di discriminazione contro le donne, nella Costituzione o nella legislazione”.

Il rilievo, per l’autorevolezza della sua provenienza, offre lo spunto per una riflessione volta a verificare se effettivamente nel nostro ordinamento non sia rinvenibile una siffatta definizione, attesa peraltro l’assoluta rilevanza del principio che ad essa si ricollega.

A tale fine, l’indagine deve necessariamente prendere le mosse da una breve se pur puntuale analisi dell’attuale stato dei rapporti intercorrenti tra l’ordinamento interno e quello internazionale, con specifico riferimento al sistema delle fonti che da sempre costituisce oggetto di dibattito dottrinario e giurisprudenziale con interpretazioni spesso non univoche.

Considerato, infatti, che nella richiamata Convenzione il concetto di discriminazione contro le donne trova una sua specifica definizione, è di tutta evidenza che la questione si incentra nel chiarire se tale definizione possa ritenersi giuridicamente acquisita nel nostro ordinamento, in virtù dei meccanismi di adeguamento al diritto internazionale disciplinati dalla Costituzione.

In oggi , peraltro, tale indagine assume particolare rilievo, in considerazione della recente riforma del Titolo V della Costituzione che ha ridefinito i limiti della funzione legislativa esercitata dallo Stato e dalle Regioni .

Non v’è dubbio, infatti, che nell’esaminare i rapporti intercorrenti tra le fonti interne e quelle internazionali, si debba necessariamente rivisitare talune posizioni assunte al riguardo dalla dottrina e dalla giurisprudenza costituzionale, prima dell’anzidetta riforma.

 

 

1.     Le fonti del diritto internazionale

 

1.1 Tipologia ed ingresso nell’ordinamento interno

 

E’ noto come nell’ambito delle fonti del diritto internazionale, si distingua tra le fonti di carattere generale e le fonti di carattere particolare.

Le prime vengono ricondotte alle norme consuetudinarie, ossia a quell’insieme di norme non scritte che si sono venute consolidando nella loro applicazione per un periodo di tempo ragionevolmente ampio e che sono, pertanto, ormai divenute patrimonio riconosciuto ed irrinunciabile della Comunità internazionale.

Tale insieme di norme costituisce quindi, nell’ambito del diritto internazionale, quello che comunemente viene definito diritto consuetudinario.

Le seconde, invece, si sostanziano nel complesso di norme che regolano i rapporti tra i singoli Stati in virtù di specifici patti ( trattati, convenzioni, ecc…) stipulati tra uno Stato e l’altro.

In ragione di questa particolarità, sempre nell’ambito del diritto internazionale, tale insieme di norme viene ordinariamente definito come  diritto pattizio.

Alle sopracitate fonti di diritto internazionale si affiancano poi quelle di diritto comunitario, a seguito della adesione del nostro Paese ai Trattati Istitutivi delle Comunità Europee, con una specificità di posizione che in questa sede non mette conto trattare, attesa la sostanziale irrilevanza per i fini considerati.

Orbene, in relazione al diritto consuetudinario l’art. 10, 1° comma, della nostra Costituzione dispone espressamente che “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute”.

Tale disposizione a livello dottrinario e giurisprudenziale viene comunemente intesa come un rinvio formale alle consuetudini internazionali, con un conseguente adattamento automatico dell’ordinamento italiano al diritto internazionale consuetudinario (cfr Corte Costituzionale 32/1960, 68/1961, 48/1979, 323/1989).

Non v’è dubbio, infatti, che il diritto internazionale consuetudinario sia l’unico “generalmente riconosciuto”, ossia accettato dalla generalità degli Stati, e che a questo si riferisca quindi il dettato costituzionale.

Solo una isolata anche se autorevole dottrina, invero, ritiene che l’art.10 della Costituzione enunci un principio implicante l’adattamento automatico del diritto italiano all’intero diritto internazionale, ivi compresi tutti i trattati stipulati dal nostro Paese; e ciò in quanto tra le norme cui rimanda la disposizione in parola, rientrerebbe anzitutto la fondamentale regola pacta sunt servanda.

Sennonché, come già precisato, la ricostruzione di gran lunga prevalente è invece nel senso che la conformità prescritta dalla Costituzione non riguardi i Trattati, cui si riferisce specificamente l’art. 80 della Costituzione, bensì le sole consuetudini internazionali, e questa tesi è stata più volte condivisa dalla Corte costituzionale, la quale ha espressamente contestato che l’art. 10 primo comma ricomprenda i singoli impegni assunti in campo internazionale dallo Stato italiano. (cfr. Corte Cost. 18 giugno 1979, n. 48, 6 giugno 1989, n. 323).

Per adattamento automatico, poi, si intende che le norme di diritto internazionale consuetudinario entrano direttamente a far parte dell’ordinamento nazionale, senza che occorrano specifici atti interni di recepimento o di esecuzione.

In relazione al diritto internazionale pattizio, invece, l’art. 80 della Costituzione dispone che “Le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi”.

Da ciò consegue, in primo luogo, che i trattati che non rientrano nell’elencazione normativa possono essere ratificati senza previa autorizzazione legislativa, o addirittura conclusi e perfezionati mediante la semplice sottoscrizione di un rappresentante del Governo.

In quest’ultimo senso, infatti, la prassi internazionale ha visto crescere il numero dei Trattati ratificati in forma c.d. semplificata, i quali non richiedono la ratifica del Capo dello Stato rientrando nella sfera esclusiva di azione del Governo, che cura le trattative preliminari e procede alla loro sottoscrizione, di regola attraverso il ministro degli esteri.

In ambedue i casi, comunque, resta fermo che l’ingresso nell’ordinamento interno della norma di diritto internazionale pattizio non avviene in maniera automatica, ma solo in virtù di uno specifico atto da parte dello Stato che il più delle volte si sostanzia in una formula, la quale nel linguaggio tecnico prende il nome di ordine di esecuzione.

Il procedimento disciplinato dall’art. 80 della Costituzione, poi, si articola nelle sue fasi essenziali con la negoziazione tra gli Stati interessati, che si chiude con la firma del rappresentante del Governo, seguita dalla presentazione del disegno di legge e l’approvazione della legge di autorizzazione, in forza della quale il Presidente della Repubblica può procedere alla ratifica del trattato.

La ratifica, peraltro, è l’atto formale e solenne con cui il Presidente della Repubblica dichiara la volontà dello Stato italiano di assumere gli obblighi ed i diritti derivanti dal trattato, solo però all’interno dell’ordinamento internazionale.

Nell’ambito di quest’ultimo ordinamento, infatti, il trattato entra in vigore con lo scambio delle ratifiche, o con il loro deposito quando gli Stati contraenti sono molteplici.

Perché il trattato produca effetti giuridici nell’ordinamento interno, poi, occorre ancora che si disponga in tal senso con l’ordine di esecuzione.

E’ con tale atto che vengono ordinariamente e conclusivamente recepite nell’ordinamento italiano le norme di un trattato internazionale.

Con tale formula, infatti, si ordina formalmente a tutti i soggetti tenuti all’applicazione del diritto ( amministrazione pubblica, giudici, ecc..), di applicare le norme del trattato come se fossero  norme di diritto interno.

In relazione a tale atto, poi, va rilevato che la giurisprudenza costituzionale è intervenuta più volte per assimilarne il regime a quello proprio della legge di autorizzazione.

Per un verso, infatti, la Corte ha esteso all’ordine di esecuzione la riserva di assemblea, per assicurare le stesse garanzie che circondano la legge di autorizzazione anche alle leggi che ordinano l’esecuzione di trattati stipulati in via semplificata (sent. 295/1984).

Per altro verso, la medesima Corte ha escluso tale atto dal referendum abrogativo, sul rilievo che la preclusione contenuta nell’art. 75 della Costituzione avrebbe ben poco senso se riferita alle sole leggi di autorizzazione e non a qualsiasi legge che dia esecuzione alle norme di un trattato .

Tanto chiarito in ordine all’ingresso delle norme di diritto internazionale nell’ordinamento interno, resta da affrontare la invero non facile questione del rango che le prime vengono ad assumere nell’ambito del sistema delle nostre fonti del diritto.

 

 

1.2                       Posizione nella gerarchia delle fonti

 

a.     Le norme consuetudinarie

 

Come già precisato, le norme internazionali consuetudinarie entrano a far parte del nostro ordinamento in virtù del meccanismo di adattamento automatico enunciato dall’art. 10, 1° comma, della Costituzione.

Tuttavia detto articolo non disciplina il rango delle norme in questione, con la conseguenza che la dottrina ha formulato al riguardo le tesi più varie e talora stravaganti.

E’ stato, infatti, addirittura sostenuto che questa tipologia normativa sia sovraordinata alla stessa Costituzione.

Tesi questa, che secondo l’opinione prevalente non risulta suffragata da seri argomenti risultando, al di là di ogni ulteriore considerazione, incomprensibile come la Costituzione possa attribuire ad una fonte esterna un’efficacia superiore alla propria e quale sia in questa ipotesi l’organo competente a controllare la conformità della prima alla seconda.

All’estremità opposta, invece, è stato sostenuto che l’art. 10, 1° comma, darebbe vita a norme di adattamento al diritto internazionale dotate dell’efficacia propria delle fonti primarie.

Anche nei confronti di questa tesi, peraltro, è facile opporre che la norma costituzionale non colloca le norme di adattamento ad un livello inferiore al proprio e che conseguentemente tale declassamento non può essere ragionevolmente sostenibile senza una specifica base testuale.

La tesi quindi maggiormente sostenuta, e senz’altro preferibile, è quella intermedia che attribuisce efficacia costituzionale alle norme consuetudinarie di diritto internazionale.

Essendo, infatti, la volontà di soggiacere a tali norme, contenuta in una disposizione costituzionale, anche le prime acquistano conseguentemente pari rango costituzionale.

Nell’ambito di tale tesi, poi, un filone di pensiero ritiene che l’adattamento automatico debba intendersi limitato alle sole norme consuetudinarie non contrastanti con norme costituzionali, non potendo ammettersi l’ingresso di norme discordanti con la Carta costituzionale.

Secondo un’altra corrente di pensiero, invece, il rapporto tra le norme di adattamento e le altre norme costituzionali dovrebbe essere risolto in base alle comuni regole sui conflitti di norme, ferma restando in ogni caso la subordinazione delle une e delle altre ai principi supremi dell’ordinamento costituzionale dello Stato.

Tale opinione, in oggi, risulta essere quella maggiormente condivisa e da preferire.

Deve perciò ritenersi che le norme consuetudinarie di diritto internazionale, quando non siano in palese contrasto con i principi supremi del nostro ordinamento, assumano la stessa efficacia  delle norme costituzionali e che i conflitti che possano eventualmente insorgere debbano essere risolti, stante l’equiparazione nella scala gerarchica, in base al principio di specialità oppure, ove ciò non sia possibile, in base al principio cronologico.

Va da sé, infine, che stante il rango costituzionale delle anzidette norme consuetudinarie, le leggi interne che eventualmente si ponessero in contrasto con le stesse, si profilerebbero viziate da illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 10, 1° comma, della Costituzione.

 

b.  Le norme pattizie

 

Per ciò che riguarda le norme internazionali pattizie il loro ingresso nel nostro ordinamento, come già precisato, è filtrato in via generale da una legge di autorizzazione delle camere e da uno specifico ordine di esecuzione con cui viene stabilito di dare  attuazione alle stesse.

Conseguentemente secondo il principio affermato in materia dalla dottrina e dalla giurisprudenza, per cui il rango assunto dalle norme internazionali è quello proprio della norma nazionale che ne consente l’ingresso, le norme pattizie assumono rango legislativo e si pongono in un rapporto di equiordinazione con le leggi interne.

In tale contesto, quindi, il rapporto tra la norma internazionale pattizia e quella interna viene ad essere disciplinato secondo gli ordinari canoni vigenti tra fonti pariordinate, ossia in base al criterio di specialità ed a quello cronologico.

Al riguardo, si è tuttavia affermato da parte di taluna dottrina che le norme internazionali pattizie sono caratterizzate da una loro specialità intrinseca derivata dal fatto che il legislatore ha spontaneamente limitato la propria sovranità, impegnandosi con un vincolo di fedeltà nei confronti dei patti internazionali e delle norme che ne derivano.

In quest’ottica, pertanto, si è sostenuto autorevolmente che nel contrasto tra norma interna ed internazionale, debba essere privilegiata la soluzione interpretativa più conforme a quest’ultima.

Sempre in tale ottica, poi, si è ritenuto che il legislatore nazionale non possa procedere all’abrogazione tacita della norma internazionale, potendo gli impegni assunti in sede pattizia essere correttamente superati solo con l’ esplicitazione di un formale dissenso sopravvenuto.

Conclusivamente, alla stregua di quanto rilevato, è opinione consolidata in ambito dottrinario che la specialità delle norme internazionali pattizie non si traduca in una valenza formalmente superiore, ma si risolva in un vincolo di interpretazione conservatrice ed in un tendenziale divieto di abrogazione tacita.

L’assunto, del resto, corrisponde a quanto la Corte Costituzionale ha sempre affermato al riguardo, ed è espressione di una visione dualista degli ordinamenti sino ad oggi largamente diffusa.

Su tale assetto di rapporti, peraltro, è di recente intervenuta la riforma del Titolo V della Costituzione ad opera della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, che ha introdotto novità di assoluto rilievo per i fini considerati.

 Nella sua attuale formulazione, infatti, l’art. 117 della Costituzione dispone che “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.

La novella legislativa, ha subito indotto parte della dottrina ad affermare la diretta applicabilità anche dei trattati nell’ordinamento interno e la loro immodificabilità da parte delle leggi nazionali, come peraltro già accade in altri Paesi.

A prescindere da questa posizione, forse troppo assoluta, non sembra comunque che possano esserci dubbi sul fatto che l’intervenuta costituzionalizzazione degli obblighi internazionali, comporti la necessaria incostituzionalità delle disposizioni legislative interne contrastanti con tali obblighi.

In altri termini, la riforma costituzionale ha determinato l’elevazione del rango occupato dalle norme internazionali pattizie nell’ambito del sistema delle nostre fonti, sottraendo le stesse alla possibilità di successivi interventi legislativi di segno contrario.

Conclusivamente, in oggi le norme internazionali pattizie possono essere superate a livello di normativa interna, o con una retrocessione dal trattato di cui sono emanazione, ovvero con una specifica norma di rango costituzionale.

Attenta dottrina, poi, non ha mancato di rilevare che il riferimento agli obblighi internazionali, nella sua ampia formulazione, consente di ricomprendere non solo gli obblighi derivanti dai trattati ratificati previa autorizzazione legislativa, ma anche quelli derivanti dai trattati stipulati in forma semplificata, che sono cioè conclusi, come già precisato, sulla base della semplice sottoscrizione di un rappresentante del Governo dotato di pieni poteri, senza necessità di successiva ratifica.

 

 

2.     L’affermazione del principio di non discriminazione di genere nell’ordinamento internazionale

 

Il principio di non discriminazione di genere ha da sempre costituito, nell’ambito dell’ ordinamento internazionale, uno dei principi cardine.

Sin dalla Carta di San Francisco del 1945, infatti, le Nazioni Unite si sono prefisse, tra l’altro, lo scopo fondamentale di “promuovere ed incoraggiare il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzione di razza, di sesso, di lingua o di religione…”.

Parimenti nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, viene affermato all’art. 2 che “…ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione….”.

Tale principio, poi, è stato ripreso e riaffermato nei Patti internazionali sui diritti dell’uomo, adottati dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1966, ed ulteriormente trasfuso in quel documento noto come International Bill of Rigths, la Carta internazionale dei diritti umani.

Nel 1979, inoltre, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha  adottato la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna (Cedaw), in cui per la prima volta viene specificamente definito il concetto di discriminazione di genere, nell’assunto che lo sviluppo ed il benessere delle moderne società democratiche possano compiersi solo con la partecipazione piena delle donne, in condizioni di parità con l’uomo, in tutti i settori dell’agire umano.

A livello europeo, poi, sin dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, viene espressamente affermato il principio per cui  il godimento dei diritti e delle libertà “… deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua,…”(cfr.art. 14).

Da allora, attraverso l’Atto unico europeo, i Trattati di Maastricht,  Amsterdam e Nizza fino alla recente Carta costituzionale europea, ratificata nel nostro Paese con legge 7 aprile 2005, n. 57, il principio di non discriminazione di genere è sempre stato enunciato e ricompreso tra quelli fondanti l’ordinamento comunitario.

 

 

3.     La definizione del concetto di discriminazione di genere nell’ambito dell’ ordinamento interno

 

Quanto sin qui esposto, consente ora di poter compiutamente valutare la bontà del rilievo mosso dal Comitato delle Nazioni Unite al Governo italiano, circa l’asserita mancanza di una definizione di discriminazione contro le donne “nella Costituzione o nella legislazione".

Detto rilievo nella sua assolutezza non è esatto e, come tale, non appare condivisibile.

Se è vero, infatti, che nella Costituzione manca una specifica definizione di “discriminazione contro le donne”, sopperendo al riguardo sul piano sostanziale il principio di eguaglianza enunciato all’art.3, non è altrettanto vero che “nella legislazione” detta definizione non sia rinvenibile con una attenta operazione di ermeneutica giuridica.

Ed invero, la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna (Cedaw) dispone, all’art. 1, che “l’espressione discriminazione nei confronti delle donne, concerne ogni distinzione esclusione o limitazione basata sul sesso che abbia come conseguenza o come scopo di compromettere o eliminare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio da parte delle donne, quale che sia il loro stato civile, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo su base di parità tra l’uomo e la donna”.

Detta Convenzione è stata adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 18 dicembre 1979 ed è entrata in vigore, nell’ordinamento internazionale, nel 1981.

L’autorizzazione alla ratifica e l’ordine di esecuzione in Italia, poi, sono stati dati con la legge n. 132 del 14 marzo 1985 e le norme della Convenzione sono entrate in vigore nel nostro ordinamento interno dal 10 luglio 1985.

Per quanto sin qui precisato con riguardo al rapporto tra le fonti di diritto interno ed internazionale, quindi, non v’è dubbio che dal 1985 la definizione di discriminazione di genere abbia fatto il suo formale ingresso nel nostro ordinamento giuridico, negli stessi esatti termini contenuti nell’art. 1 della Convenzione.

Con l’ordine di esecuzione contenuto nella sopra richiamata legge di autorizzazione, infatti, è stata formalmente disposta l’applicazione di tutte le norme di quest’ultima come se fossero norme di diritto interno, e quindi anche di quella che definisce, giust’appunto, il concetto di discriminazione di genere,

Se si ha riguardo, poi, a quanto più sopra rilevato in merito al rango che in oggi deve essere riconosciuto alle norme internazionali pattizie, a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, detta definizione normativa non solo è già presente nel nostro ordinamento, ma non può neppure essere contraddetta o comunque ridotta, nella sua ampia formulazione, da eventuali leggi nazionali.

Ove ciò avvenisse, infatti, la relativa norma risulterebbe necessariamente incostituzionale per violazione dell’art. 117 della Costituzione che in oggi, come già precisato, vincola la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni al rispetto degli obblighi internazionali.

A ciò aggiungasi, che con legge 7 aprile 2005, n. 57 è stato ratificato con contestuale piena ed intera esecuzione il Trattato che adotta la Costituzione europea, la quale espressamente riconosce tra i suoi valori fondanti e persegue tra i suoi obiettivi fondamentali la “parità tra donne e uomini”, e disciplina altresì compiutamente, nell’ambito della Carta dei diritti fondamentali, quello di eguaglianza in tutti i suoi aspetti, dalla non discriminazione basata sul sesso, alla piena parità tra donne e uomini che deve essere assicurata in tutti i campi.

Tali specifiche disposizioni, pertanto, sono parimenti entrate a far parte dell’ordinamento interno con il nuovo rango assunto dalla normativa internazionale pattizia e spiegheranno i loro effetti secondo quanto disposto dall’articolo IV-447 del Trattato, con ciò concorrendo a corroborare ulteriormente la sopra richiamata definizione di discriminazione di genere.

Conclusivamente, non v’e’ dubbio che alla stregua dell’attuale stato dei rapporti intercorrenti tra le fonti del diritto internazionale e quelle interne, la definizione normativa del concetto di discriminazione di genere sia presente nel nostro ordinamento interno, con il rango proprio che in oggi deve essere riconosciuto alle norme internazionali pattizie.

Certo, per riprendere la contestazione avanzata dal Comitato delle Nazioni Unite, non può sottacersi come la presenza di tale definizione non risulti immediatamente percepibile, contrariamente a quanto sarebbe opportuno, considerata la rilevanza del principio che ad essa si ricollega.

Ciò dipende, verosimilmente, non solo dalla oggettiva complessità del sistema delle fonti del diritto, ma anche, se non soprattutto, dalla persistenza di una visione dualista degli ordinamenti ancora oggi largamente diffusa che si rivela, nella sua accezione conservatrice, sempre più inadeguata ad affrontare e risolvere il delicato problema dei rapporti intercorrenti tra l’ordinamento interno e quello internazionale, nell’attuale momento storico di crescente globalizzazione.