Pasquale Costanzo
Legislatore e Corte costituzionale
Uno sguardo d’insieme sulla giurisprudenza
costituzionale
in materia di discrezionalità legislativa dopo
cinquant’anni di attività*
Sommario: 1. Premessa. – 2. Discrezionalità del
legislatore e discrezionalità dei legislatori nella forma di Stato e di governo
italiane. – 3. Il “punto di vista” del legislatore: l’art.
28 della l. n. 87 del 1953. – 4.
Il “punto di vista” della Corte costituzionale:
dall’infondatezza all’inammissibilità. –
5. Segue: il controllo sulla discrezionalità del legislatore e il rimedio delle
sentenze additive. – 6. Segue: la discrezionalità del legislatore “oggetto”
o “criterio orientatore” del controllo della Corte? – 7. Conclusioni.
1. Premessa. - Il tema propostomi, dato il suo carattere generale, è
apparso subito estremamente impegnativo da affrontare in una chiave coerente
con lo spirito del convegno. Ho pertanto interpretato la proposta come un
invito a ritagliare, nel suo ambito, un profilo idoneo a fornire indicazioni ai
colleghi spagnoli e per un eventuale dibattito sullo stato delle relazioni
intercorrenti nell’ordinamento italiano tra Corte costituzionale e Legislatore
alla luce della giurisprudenza dei 50 anni trascorsi dall’inizio dell’attività
della Corte, dato che dei profili di carattere organizzativo si è incaricato
Roberto Bin.
Ma
anche in questa più ristretta prospettiva, i punti di interesse sono
molteplici, richiedendo, per essere accuratamente svolti, molto più spazio di
quello di una relazione.
Ho
stimato pertanto, d’intesa con Miguel Revenga Sanchez, di poter assolvere al
compito occupandomi di un aspetto della giurisprudenza costituzionale italiana
che, oltre ad essere assai significativo sul piano dei rapporti istituzionali
tra Corte e Parlamento, costituisce anche uno snodo problematico ricorrente nei
rapporti tra giustizia costituzionale e potere legislativo in numerosissimi
ordinamenti, compreso evidentemente anche quello spagnolo.
Questo
aspetto attiene alla cd. discrezionalità del legislatore (di cui si occupano
anche numerose decisioni del Tribunal
Constitucional): se si vuole “croce e delizia” della giurisdizione
costituzionale, costituendone nel contempo il limite ma anche un oggetto di
valutazione.
Si
tratta peraltro, a ben vedere, ancor più radicalmente d’indagare lo stesso
rapporto tra politica e diritto costituzionale, anche se nell’ottica qui
prescelta, tale rapporto sarà guardato essenzialmente con gli “occhiali” della
Corte.
2. Discrezionalità del legislatore e discrezionalità dei legislatori nella
forma di Stato e di governo italiane. - Una preliminare considerazione
attiene al fatto che il rapporto in questione è nell’ordinamento italiano,
analogamente a quanto avviene nell’ordinamento spagnolo, un rapporto plurale,
dal momento che i legislatori che intrattengono relazioni con la Corte
costituzionale sono ben ventitrè ossia, oltre al Parlamento nazionale, anche le
assemblee legislative delle regioni e delle due province autonome. Ciò che di
per sé non costituirebbe un’assoluta novità, se non fosse che, a seguito della
riforma costituzionale del 2001, la circostanza ha acquisito un senso assai più
pregnante rispetto al passato, dato che i legislatori locali godono ora di una
dotazione di competenze notevolmente più ampia rispetto al dettato
costituzionale originale (e, se dovesse andare in porto la revisione
costituzionale già approvata dalle Camere in prima lettura, si verificherebbe
un ulteriore accrescimento di tale dotazione).
Tuttavia,
dal nostro particolare punto di vista, le questioni sul tappeto non paiono
suscettibili di grandi mutamenti se non dal punto di vista quantitativo per
effetto dell’aumento del contenzioso, fenomeno peraltro già ampiamente in atto
(fino a tempi recenti infatti, se si è correttamente valutato, le occasioni in
cui ha avuto qualche rilievo la discrezionalità del legislatore regionale e
provinciale non arrivavano alla decina).
A
questo già articolato quadro si dovrebbe per completezza aggiungere il Governo,
non tanto e non solo per la presenza di leggi ad iniziativa riservata e per la
titolarità a determinate condizioni di una normazione primaria, ma soprattutto
perché, nella nostra, come in tutte le forme di governo parlamentare e in modo
anche più vistoso nella variante francese, la produzione legislativa
s’inserisce quasi sempre nel processo di attuazione del programma e
dell’indirizzo politico governativo.
Anche
qui però si potrebbe ritenere il dato non decisivo in via generale, poiché
ragionando del rapporto tra Corte costituzionale e Parlamento, in realtà vi si
sottintende la relazione tra le due grandi prospettive; quella della giustizia
costituzionale e quella della politica in tutte le componenti coinvolte nel
processo legislativo.
3. Il
“punto di vista” del legislatore: l’art. 28 della l. n. 87 del 1953. -
Prima di tentare di stabilire, sia pure nei termini estremamente succinti
richiesti dalla relazione, un percorso evolutivo della giurisprudenza
costituzionale italiana, nell’arco di cinquant’anni, sul tema propostoci,
occorre ancora ricordare che difficilmente in tutti gli studi sul tema difetta
un riferimento al dato positivo costituito dall’art. 28 della legge n. 87 del
1953 (la legge che, com’è noto, ha mandato a regime l’attività della Corte,
disciplinandone molteplici aspetti organizzativi e processuali).
Ora
già tale disposizione esclude che il controllo di legittimità costituzionale su
una legge o un atto avente forza di legge possa comportare valutazioni di
natura politica o identificarsi in qualsiasi modo o misura con un sindacato
sull’uso del potere discrezionale del Parlamento.
Inutile
dire che da subito - e quindi ancor prima che la Corte costituzionale
incominciasse a funzionare - questo disposto è stato oggetto di critiche in dottrina,
sia da parte di quanti ritenevano il contenuto delle sue statuizioni del tutto
scontato, sia da quanti all’opposto lo consideravano illusorio, non mancando
anche coloro che stimavano tali statuizioni di non facile comprensione.
Ci
sembra tuttavia indubbio che il legislatore del 1953 si volesse premunire nei
confronti di un organo di cui non era ancora tutto sommato ben chiara l’esatta
fisionomia, escludendo ogni sua possibile intromissione sia nel merito della
legge, sia sulle sue finalità e le relative scelte strumentali.
Non
sarei invece così sicuro che con il termine “discrezionale”, volesse prendere
posizione sulla “qualità” del suo potere legislativo (nell’ambito della nota distinzione tra potere
completamente libero e potere vincolato nei soli fini). E’ probabilmente più
esatto pensare che tale termine alludesse tour
court ad un potere assolutamente libero in relazione alla sua natura
politica o al massimo, come si legge nei lavori preparatori, ad un potere da
esercitarsi non in maniera arbitraria e insensata ma con la coscienza più etica
che giuridica di esercitare una funzione orientata dai principi fondamentali
del sistema.
Si
deve piuttosto alla dottrina (esemplarmente Alessandro Pizzorusso) l’aver in
seguito approfondito la nozione, sia mostrandone le ambivalenze, sia
sottolineando la sua non perfetta coincidenza con la “tradizionale”
discrezionalità amministrativa. Sotto il primo aspetto, infatti, al di là delle
posizioni che hanno configurato l’attività legislativa essenzialmente come
un’attività di continua implementazione della Costituzione, anche chi stima che
non tutto il futuro dell’ordinamento sia in essa scolpito, solitamente non ha
difficoltà ad ammettere che vi siano ipotesi in cui la legge è vincolata al
raggiungimento di taluni fini. Sotto il secondo aspetto, il richiamo alla
discrezionalità amministrativa ha avuto spesso più un significato suggestivo
che reale, non foss’altro per le difficoltà di identificare una nozione condivisa
di interesse generale di livello costituzionale a cui funzionalizzare
l’attività legislativa.
Può
essere d’altro canto interessante rilevare come i riferimenti espliciti che la
Corte ha operato in questi cinquant’anni di giurisprudenza all’art. 28 della l.
n. 87 del 1953 sono tutto sommato pochi. La circostanza potrebbe essere
interpretata pensando ad un atteggiamento svalutativo anche da parte della
Corte, sul presupposto forse del valore semplicemente ricognitivo della
disposizione e considerandosi come immanenti i limiti alla potestà di controllo
della Corte sull’operato del legislatore. Un’immanenza che potrebbe essere
avvalorata anche dal fatto che nessuno dubita che la Corte debba astenersi da
valutazioni politiche anche nell’esercizio di attribuzioni diverse da quelle
del sindacato di costituzionalità, mentre l’art. 28 della legge n. 87 del 1953
sembra riferirsi solo a quest’ultimo.
Ma
anche questo problema non è di facile definizione e purtroppo esso evoca
questioni di assai più grande respiro che qui possono essere semplicemente
sfiorate.
Basti
comunque pensare che, sul punto, per quanto riguarda l’ordinamento italiano, le
suggestioni provenienti dall’esperienza della Corte suprema americana sono
sempre state molto forti.
In
tale esperienza troviamo espresso nella maniera più chiara il collegamento tra
il principio di separazione dei poteri e l’incompetenza della stessa Corte a
risolvere nella sede giudiziaria le cd. political
questions. Particolarmente nel leading
case Baker v. Carr
del 1962, il giudice William J. Brennan
afferma chiaramente come la “non giustiziabilità” di una certa controversia
derivi innanzi tutto dal principio della separazione dei poteri, anche se non
si nasconde che decidere se una certa materia sia attribuita dalla Costituzione
ad un altro potere o ne ecceda le competenze è un esercizio delicato di
interpretazione costituzionale, su cui è impegnata la responsabilità della
stessa Corte suprema. Laddove la stessa elencazione di figure sintomatiche
desunte da precedenti al fine di supportare l’interpretazione della Corte
sembra, da un lato, confermare come l’indagine non sia affatto semplice e
immediata, e, dall’altro, che la Corte, aldilà delle proclamazioni di
principio, non sia affatto disposta (e non ritenga di doverlo essere) a farsi
subito da parte alla prima avvisaglia di political
question.
Ma
questi concetti sono meccanicamente trasponibili nell’esperienza di giustizia
costituzionale europea e in quella italiana in particolare?
Si
rifletta innanzi tutto sul fatto che l’argomento della divisione di poteri non
sembra utilizzabile con la stessa forza persuasiva che sul suolo americano,
dove il controllo di costituzionalità è una creazione giudiziaria e dove il
sistema costituzionale è costruito ab
origine sulla distinzione abbastanza netta dei poteri. Nei sistemi in cui
il controllo di costituzionalità non è affidato al potere giudiziario, bensì a
corti costituzionali specializzate, si rivela infatti meno intuitivo presentare
l’interessamento di queste corti a questioni che involgano profili politici
come un’ingerenza del potere giudiziario. Sembrerebbe pertanto preferibile
affrontare il problema alla stregua sia del particolare disegno costituzionale
di un dato Paese, sia sulla base della specifica configurazione del controllo
di costituzionalità.
Se
prendiamo dunque un sistema come quello italiano, sappiamo come il classico
principio di separazione lungi da essere chiaramente espresso è anche a più
riprese contraddetto sia a vantaggio del principio collaborativo, sia per la
non perfetta corrispondenza tra poteri e funzioni. Ciò non significa, sia
chiaro, che la disarticolazione del potere (orizzontale e verticale) con tutti
i benefici che ne derivano non costituisca un principio di struttura
dell’ordinamento costituzionale italiano, ma che in fondo non esistono funzioni
ontologicamente proprie dei vari poteri ed organi, che finiscono per trovare
tutti nella Costituzione rigida il titolo delle loro attribuzioni.
Più
banalmente, se si vuole, alla stregua del puro principio di separazione (e lo
sanno bene i francesi), lo stesso sindacato di costituzionalità delle leggi
potrebbe rappresentare un vulnus
gravissimo per le prerogative del legislatore. Ecco perché la determinazione
dei limiti e la pregnanza del controllo della Corte non è astrattamente
derivabile dal principio di separazione, ma è compito ancora della Costituzione
o di altre fonti legittimate.
Non
è forse un caso che il testo previgente dell’art. 127 della Costituzione
italiana provvedesse esplicitamente a sottrarre i conflitti legislativi di
merito tra Stato e Regioni alla Corte costituzionale per attribuirli alle
Camere, non esitando al contrario ad emarginare il principio di separazione
attribuendo alla stessa Corte la decisione sull’eventuale contrastata configurazione
dei conflitti stessi.
Se
si condivide questa ricostruzione, lo stesso art. 28 della l. 87 del 1953, come
si diceva, assai spesso sottovalutato, può ritrovare una sua ragion d’essere
come disposizione immediatamente integrativa della fonte costituzionale nel
momento in cui occorreva porre mano alla fisionomia definitiva di un organo
capace d’interferire con il potere politico da differenti prospettive e per due
terzi creatura di questo stesso potere.
4. Il
“punto di vista” della Corte costituzionale: dall’infondatezza
all’inammissibilità. - Comunque sia, non c’è dubbio che gran parte del
percorso argomentavo del giudice Brennan sia stato in tutti questi anni
condiviso dalla Corte costituzionale.
Esso
può in buona sostanza riassumersi nell’interrogativo: esiste e come si
riconosce il potere discrezionale del Parlamento?
E in
secondo luogo: in che senso e in che misura tale riconoscimento può davvero
comportare che la Corte declini le proprie competenze?
Quanto
al primo interrogativo, invertendo i termini di una considerazione già fatta,
anche la dottrina che cerca di valorizzare gli indirizzi di politica
costituzionale rintracciabili nella Carta fondamentale (il riferimento è
chiaramente a Franco Modugno) non esita a riconoscere in varia misura al
Parlamento ampi spazi autonomi di manovra. Del resto, il contrario
significherebbe lasciare su ogni argomento l’ultima parola alla Corte
costituzionale o ingaggiare una perpetua rincorsa tra essa e il legislatore di
revisione, ma anche qui con il rischio sia pur remoto che la Corte possa
giocare la carta della sovracostituzionalità, con le rischiose ricadute che si
possono intuire (pericolo che, ad esempio, i francesi si sono ben guardati dal
correre).
Comunque
si ponga il problema sul piano speculativo, ciò che conta ai nostri più
limitati fini è che la Corte stessa ha mostrato sistematicamente ed
inequivocamente di riconoscere il potere discrezionale del Parlamento o come
talvolta viene definito: la discrezionalità del legislatore o la
discrezionalità politica.
Quest’ultima
espressione è anzi forse la più adatta a cogliere l’essenza del fenomeno,
mettendo in campo una sfera di azione ritenuta per sua natura e per antica
tradizione anche negli ordinamenti liberaldemocratici esente da giurisdizione o
non giustiziabile.
L’opinione della
Corte al proposito in questi cinquant’anni non pare aver subito vistose
oscillazioni. Se si prende una delle sue prime decisioni (la sent. n. 28 del 1957) si
apprende innanzi tutto che la Corte consente sulla sostanziale coincidenza tra
esercizio di un potere discrezionale e attività politica, mentre le scelte del
legislatore sarebbero discrezionali allorchè operino in un campo rispetto al
quale la Corte stessa ritiene che le regole costituzionali non orientino verso
alcuna soluzione. Quindi sarebbe l’indifferenza della Costituzione a
qualificare le norme impugnate come espressione di discrezionalità legislativa.
Più
dubbia sembra invece la tesi per cui sarebbe l’assenza assoluta di un parametro
costituzionale a configurare l’esercizio del potere come discrezionale.
Non
solo per quanto da tempo evidenziato e cioè che la proposizione di una
questione di legittimità costituzionale è formalmente corretta solo se vi viene
individuato un parametro, quanto perché l’esistenza stessa del controllo di
costituzionalità postula, in difetto di esplicite eccezioni, la sottoponibilità
della legge (di tutta la legge) al controllo già solo in ragione del suo regime
formale, dovendosi dunque a questa stregua valutare i casi di discrezionalità
legislativa come inoffensivi per qualunque parametro. In altri termini, non
dovrebbero esistere in linea di principio questioni inammissibili motivate
dall’incompetenza della Corte a conoscere per qualche motivo la legge.
D’altro
canto, una distinzione piuttosto sottile sembra poi quella di chi, pur
ritenendo che vi sia qui “carenza di potere” da parte della Corte, riconosce ad
essa una capacità di controllo meramente logico.
Comunque
sia, la Corte italiana, come subito vedremo, non sembra essere andata nella
direzione appena indicata.
In
effetti è solo nei primi tempi di attività della Corte che l’accertamento della
discrezionalità del legislatore conduce direttamente a decisioni di
infondatezza. Ancora nella sent. n. 175 del
Che
non di “mancanza di parametro” infatti si tratti, è chiarito dal fatto che esso
è pressoché costantemente individuato soprattutto nell’art. 3 della
Costituzione, la cui osservanza è fatta valere dalla Corte, avvertendosi, ad
esempio, che fino a quando i relativi “limiti siano osservati e le norme siano
dettate per categorie di destinatari e non ad
personam, ogni indagine sulla corrispondenza della diversità di regolamento
alla diversità delle situazioni regolate implicherebbe valutazioni di natura
politica, o quanto meno un sindacato sull'uso del potere discrezionale del
Parlamento, che alla Corte costituzionale non spetta esercitare”.
Ma
non v’è chi non veda come per questa via un controllo sull’uso del potere
discrezionale è già bello che avvenuto!
Analogamente
nella sent. n. 172 del 1972, “La Corte ritiene che la questione non sia fondata. Vero é, infatti,
che anche in materia processuale, nel prevedere procedure differenziate da
quelle ordinarie (ci si riferisce al rito direttissimo per i reati di stampa) e
nel determinare i casi di applicazione delle prime, il legislatore - oltre che
garantire comunque l'osservanza dei principi costituzionali che presiedono alla
giurisdizione ed al processo - deve ispirarsi al canone della ragionevolezza:
ma non può dirsi che nella legge in esame siano stati travalicati i limiti
entro i quali può spaziare la sua discrezionalità politica”
L’abbandono
di questo paradigma sembra datare alla seconda metà degli anni ’70 dapprima con
qualche oscillazione. Particolarmente interessante sotto il profilo processuale
è ancora la sent. n 211 del 1976 dove si fa uso dell’inammissibilità per
sanzionare la carente legittimazione del giudice (dell’esecuzione), mentre è
ancora la non fondatezza a riflettere la discrezionalità legislativa.
Sempre
in questo torno di tempo troviamo in una famosa sentenza, la n. 16 del 1978,
dedicata ai problemi dell’ammissibilità del referendum abrogativo, l’obiter dictum per cui “la cosiddetta (si
noti l’aggettivo) discrezionalità legislativa non esclude il sindacato degli
arbitri del legislatore, operabile da questa Corte in rapporto ai più vari
parametri”.
Si
può forse dire che il più decisivo cambio di rotta avvenga con la presidenza di
Leopoldo Elia a partire dalla quale i dispositivi d’inammissibilità diventano
più visibili e tendono a chiudere le questioni dalle quali la Corte crede di
doversi ritrarre a motivo della discrezionalità del legislatore. Da questo
punto di vista può non essere rilevante ricorrere ad un criterio statistico per
accertare la grandezza del fenomeno rispetto al perdurare di decisioni
d’infondatezza: più interessante è che tali dispositivi prendano piede, lasciando
intravedere una correzione di prospettiva da parte della Corte nei confronti
dei suoi rapporti con il legislatore, che potrebbe configurarsi almeno sul
piano teorico come un arretramento della linea del sindacato di
costituzionalità.
5. Segue: il controllo sulla discrezionalità del legislatore e il rimedio delle
sentenze additive. - Comunque sia, con riferimento a questa prima fase, può
ancora insistersi sul fatto che la nozione di discrezionalità legislativa
appare strettamente collegata al principio di eguaglianza, di cui la Corte
mostra di ritenere legittima un’attuazione modulabile, tanto che “La
valutazione della rilevanza delle diversità di situazioni in cui si trovano i
soggetti dei rapporti da disciplinare non può non essere riservata al potere discrezionale
del legislatore, salva l'osservanza dei limiti stabiliti nel primo comma
dell'art. 3 della Costituzione, ai sensi del quale le distinzioni di sesso, di
razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche e di condizioni personali
e sociali non possono essere assunte quali criteri validi per la adozione di
una disciplina diversa” (ancora la sent. n. 28 del 1957). E’ perciò
interessante ricordare che, proprio partendo da una non dissimile prospettiva,
nella sent. n. 9 del 1964, si erano già realizzate le condizioni per una delle
primissime sentenze additive della Corte, allorché, ragionando del diritto di
querela esercitato nell’interesse del figlio minore, si afferma esser venuto
meno “il particolare fondamento della disposizione che limita il diritto di
querela al genitore esercente la patria potestà, con la conseguenza che la
limitazione stessa si manifesta lesiva del principio di eguaglianza fra i
coniugi, al quale nel caso presente non é concesso fare eccezione”.
Questa
tendenza sarà, com’è noto, destinata a concretarsi in un corposo filone nella
giurisprudenza successiva. La popolarità di tale tipo di sentenza presso i
giudici i merito (nonostante talune resistenze della Corte di cassazione) e
all’opposto talune reazioni contrariate del legislatore sono fattori entrambi
all’origine degli standard di giudizio elaborati dalla Corte per razionalizzare
il suo operato. Tal che, come esemplarmente affermato nella sentenza n. 215 del
1986, “la natura derogatoria di una norma non impedisce alla Corte di emettere
una pronuncia che ne comporti l'estensione, quando ciò serva a ristabilire il
principio d'eguaglianza, ossia a rispettare una regola fondamentale del nostro
sistema costituzionale: sempreché, beninteso, l'estensione sia il risultato di
un procedimento logico necessitato e riferibile al contesto normativo in cui é
inserita la norma impugnata, senza alcuna invasione della sfera di
discrezionalità riservata al legislatore”. E analogamente nella di poco
precedente sentenza n. 106 del 1986, la Corte informa che “una decisione
additiva é consentita, com’é ius receptum
(sic!), soltanto quando la soluzione adeguatrice non debba essere frutto di
una valutazione discrezionale ma consegua necessariamente al giudizio di
legittimità, sì che la Corte in realtà proceda ad un'estensione logicamente
necessitata e spesso implicita nella potenzialità interpretativa del contesto
normativo in cui é inserita la disposizione impugnata. Quando invece si profili
una pluralità di soluzioni, derivanti da varie possibili valutazioni,
l'intervento della Corte non é ammissibile, spettando la relativa scelta
unicamente al legislatore”.
D’altra
parte, in nessun altro settore come in questo, la Corte è stata costretta a
riflettere su se stessa, sulla latitudine dei suoi poteri, sulla sua
collocazione istituzionale e, per quanto qui ci riguarda, sul suo rapporto con
il parlamento legislatore.
Ma
in quelle apparentemente lineari affermazioni della Corte, di cui a nessuno
sfugge il riecheggiamento di una ormai celebre dottrina (Vezio Crisafulli), è
contenuto però il germe di una serie complicata di questioni che la
giurisprudenza costituzionale si è trovata nel tempo ad affrontare con
soluzioni non sempre persuasive e recensite talvolta con severità dalla
dottrina, alla quale si devono anche analisi approfondite della giurisprudenza
di settore e rilevazioni di costanti e di eccezioni nel tentativo di
ricostruire le logiche dei comportamenti della Corte dinnanzi alla
discrezionalità del legislatore.
6. Segue: la discrezionalità del legislatore “oggetto” o “criterio orientatore”
del controllo della Corte? – Così, con una sintesi che farà allibire quanti
hanno dedicato, anche fra i presenti, intelletto e tempo a questo tema, può
osservarsi che alla base stanno i casi in cui la Corte ritiene la norma
censurata non irrazionale o assolutamente arbitraria, in base ad un
apprezzamento sostenuto di volta in volta dall’accertamento dell’adeguatezza o
della proporzionalità della disciplina in questione e da una valutazione più o
meno stringente a seconda del campo materiale (ad esempio, è ricorrente
l’affermazione per cui la materia penale è oggetto di ampia discrezionalità
legislativa: per tale profilo, v. particolarmente Roberto Romboli) o della
natura della disciplina (ad esempio, la discrezionalità del legislatore è
particolarmente ampia quando trattasi di dettare disposizioni transitorie: da
ultimo, sent. 1/2005).
Poi
vi è il mare magnum dei casi che
hanno creato più problemi. Sono quelli in cui la Corte, pur mostrando di non
condividere o di non condividere appieno la linea fissata dal legislatore,
afferma di non avere la possibilità di rimediarvi a causa:
- o
della pluralità di soluzioni adottabili:
- o
della necessità che la soluzione non sia tranchante,
ma ancorata a sua volta ad un quadro di riferimento più ampio;
- o
ancora del pericolo che un vuoto legislativo produca nell’ordinamento una nuova
incostituzionalità;
- o
persino della miscela di tutti questi elementi.
Di
quest’ultima situazione è assolutamente esemplare la sent. n. 442 del 1994,
frutto di un serrato dialogo tra Corte e giudice remittente in materia di
necessità del consenso del pubblico ministero all’esperibilità del giudizio
abbreviato. Il giudice a quo infatti,
dopo essersi visto già opporre una prima pronuncia d’inammissibilità della
questione, riconosciuta - si badi - in certa misura fondata dalla Corte (sent.
n. 187 del 1992 e anche più ampiamente nella sent. n. 92 dello stesso anno), a
causa dell’esistenza “di ben quattro soluzioni tra loro alternative, alle quali
(…) non era da escludere potessero essere aggiunte altre ancora, nessuna delle
quali costituzionalmente obbligata”, si vede nuovamente addurre
l’inammissibilità non solo perché anche la soluzione additata come la più
corretta presenta, a sua volta, ulteriori variabili, ma anche perché
“L'eliminazione del consenso del pubblico ministero quale presupposto del rito
in esame potrebbe considerarsi senza dubbio un'opzione idonea a risolvere i
rilevanti sospetti di incostituzionalità prospettati con riferimento alla
normativa impugnata, ma la divaricazione che essa determinerebbe rispetto alla
disciplina degli altri tipi di giudizio abbreviato previsti dal codice potrebbe
aprire la via a ulteriori censure di incostituzionalità, superabili solo
attraverso un generale riassetto del procedimento speciale di cui si discute”.
Peraltro
lo stesso caso è interessante perché vi si intravede anche un’altra delle cause
talvolta allegate dalla Corte per motivare l’inammissibilità della questione
ovverosia l’insufficienza delle prospettazioni del giudice a quo, al quale si addebita di non avere chiaramente indicato alla
Corte il “verso” dell’eventuale pronuncia additiva richiesta.
In
questo quadro, una soluzione di compromesso, per così dire, è rappresentata
dalla cd. additive a dispositivo generico, con le quali infatti si evita di
entrare nella sfera ritenuta di pertinenza del legislatore (sul punto, tra gli
altri, particolarmente Gustavo Zagrebelsky, Sandro Staiano e Carmela Salazar),
ma non si rinuncia, come la stessa Corte afferma, a “somministrare” un
principio (sent. n. 205 del 1991) destinato da orientare il legislatore e ad
offrire intanto un supporto al giudice per la risoluzione del caso concreto (il
richiamo all’analoga esperienza tedesca delle pronunce di Unvereinbarkeit è ricorrente in dottrina, anche se gli accostamenti
sono rischiosi e non sempre condivisi).
Comunque
sia, simili frangenti in cui la Corte ammette di trovarsi di fronte a
previsioni invalide ma individua per vari motivi nel legislatore l’unico
soggetto in grado di farvi (scusate il bisticcio di parole) “validamente”
fronte, hanno sempre suscitato un qualche sconcerto (così Paolo Falzea),
configurando una sorta di “non liquet”
a livello della giurisdizione costituzionale, in cui la discrezionalità del
legislatore finisce per trasformarsi da oggetto a criterio orientatore (si
starebbe per dire: parametro) del giudizio.
Rispetto
a tale situazione i moniti talvolta espressi dalla Corte per cui, perdurando lo
stato d’inerzia del legislatore, ove investita di ulteriori questioni di
costituzionalità riguardanti il medesimo specifico tema, essa non potrebbe
“esimersi dall'adottare le decisioni più appropriate ad evitare che permanga la
più volte constatata distonia dell'istituto con i princìpi costituzionali”, lungi
dal rassicurare non fanno che accentuare lo stato di sconcerto.
7. Conclusioni.
– Se guardiamo peraltro alla giurisprudenza costituzionale nel suo complesso:
dal riconoscimento alle Camere di “una indipendenza guarentigiata nei confronti
di qualsiasi altro potere” (sent. 154 del 1985) quando si è trattato di
controllare i regolamenti parlamentari, alla riconosciuta esenzione dal
controllo della Corte dei conti dei bilanci interni delle Camere (sent. n. 129
del 1981, alla legittimazione dell’autodichia (sent. n. 154 del 1985), a quella
sorta di rivitalizzazione degli “interna
corporis” effettuata nella vicenda dei parlamentari pianisti (sent. n. 379
del 1996), la sensazione è appunto che una certa “ragion di Corte” abbia per
solito sconsigliato di “strafare” quando c’era di messo il legislatore.
Se
siamo infatti persuasi che sia spesso sottile quella “frontera entre el Derecho y la politica” , cui fa riferimento anche
Manuel Aragòn Reyes nei suoi “25 años de
justicia constitucional en España”, non ci sembra men vero che il più
sicuro lasciapassare debba consistere nella possibilità di “argumentar jurìdicamente sus decisiones”
e che, quando a tale possibilità rinunzi troppo presto o troppo facilmente, sia
la Corte a fare della “realpolitik”
non consona al suo ruolo (e se è davvero questo lo scotto da pagare, molto
meglio allora il sistema preventivo alla francese, invidiabilissimo da questo
punto di vista).
Occorre
peraltro rilevare che, solo più di recente, a questa linea di condotta della
Corte, sembra aver fatto riscontro qualche più accentuata severità di giudizio
tra i commentatori, alla maggior parte dei quali l’atteggiamento cauto e
rinunciatario della Corte nei confronti del potere legislativo è parso in
passato quasi un corollario della sua posizione istituzionale, talvolta idoneo
a legittimare il sacrificio della giustizia nel caso concreto (ancora di
recente qualcuno vi ha individuato addirittura la “garanzia di tenuta di
determinati equilibri tra organi costituzionali”). Magari preferendo puntare sul
cd. seguito legislativo, ossia sul fatto che il legislatore registrerà
puntualmente sia la situazione di anomalia nel sistema segnalata dalla Corte,
sia il disagio degli operatori tra cui in primo luogo i giudici, ripianando la
lacuna o correggendo le rotte della legislazione vigente. Purtroppo non è
frequente che ciò accada ed è anzi capitato che la reazione fosse di segno
opposto: effettuata cioè per neutralizzare qualche raro intervento sgradito
della Corte.
Ma
non sarà che anche questo imperterrito scommettere della Corte sul seguito
legislativo rifletta poco coerentemente la relativa disciplina costituzionale?
Se si concepisse infatti il “seguito legislativo” non come un’eventualità
remota nell’agenda del legislatore, ma come un appello imperioso alla
responsabilità di costui, la stessa posizione della Corte non potrebbe che
riuscirne alleggerita e maggiormente legittimata ad esercitare a tutto tondo il
suo mandato, sia che la molteplicità delle soluzioni apprestabili la
imbarazzino sul da farsi, sia che il rimedio possa sembrarle peggiore del male.
Certo
non ci nascondiamo (ed è stato opportunamente rilevato in più sedi) che con un
tal sistema si sposerebbe opportunamente se non di necessità il potere della
Corte di dilazionare nel tempo gli effetti delle proprie sentenze di
accoglimento. Ma non potrebbero essere allora proprio le implicazioni
sistematiche del “seguito” a fondare un siffatto potere della Corte?
Anche
perché in proposito, dalla revisione costituzionale in corso, pare che non ci
sia nulla da attendersi o piuttosto che, a causa del rimescolamento nel modo di
reclutamento dei giudici costituzionali, possa diventare ancor più plateale
quanto di recente rilevato (da Antonio Ruggeri) e cioè che, nel nostro Paese,
la Corte si farebbe “impressionare” dalla produzione legislativa più di quanto
il Parlamento si faccia “impressionare” dalla giustizia costituzionale.
* Relazione tenuta nell’ambito delle “IV Jornadas
ítalo-españolas de justicia constitucional: 50 aniversario de