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PASQUALE  COSTANZO

 

Organizzazioni internazionali e sovranazionali in Europa

(dalla “guerra fredda” al “confronto” per la crisi georgiana)*

 

Sommario: 1. Premessa. – 2 Caratteri del multilateralismo europeo dopo la seconda guerra mondiale. – 3. Prove europee di autodifesa tra UEO e UE (alla ricerca di un’identità europea di sicurezza e difesa). – 4. “Decessi e nascite” in materia di sicurezza in dipendenza della caduta del muro di Berlino (il Patto di Varsavia e l’OSCE). – 5. Il Consiglio d’Europa e il “ modello europeo” di protezione dei diritti umani. – 6. La cooperazione economica in Europa: dai “diritti del mercato” ai “diritti nel mercato”. – 7. Le organizzazioni europee come “ponte” tra vecchio e nuovo costituzionalismo in Europa. – 8. Bibliografia essenziale.

 

1. Premessa.

Nel tentare di offrire un affresco della situazione in atto e dei precedenti più significativi in ordine alle organizzazioni di Stati in Europa, la prospettiva qui adottata è legata prevalentemente alla storia e al censimento dei fenomeni trattati. Solo in questo senso, dunque, la relazione ha scopi ricostruttivi, anche se i materiali collazionati si prestano ad una pluralità di letture vuoi sul piano dell’evoluzione del ruolo dello Stato, così come tradizionalmente inteso, in un mondo sempre più globalizzato, vuoi su quello delle relazioni tra Stati collegati da vincoli di cooperazione e tra organizzazione complessiva e singole entità statali, vuoi ancora per il fatto che la tensione in atto oggi in Europa verso la costituzionalizzazione dell’Unione europea mi pare stia avvenendo, pur tra ripensamenti, timori e contraddizioni, non semplicemente a partire dall’acquis communautaire maturato nell’ambito della vicenda evolutiva avviata con la nascita a Parigi il 18 aprile 1951 della CECA (Comunità europea del carbone e dell'acciaio) e il 25 marzo 1957 a Roma della CEE (Comunità economica europea) e dell’EURATOM (Comunità europea dell'energia atomica), ma anche tenendo conto di un acquis européen di portata più vasta e multiforme prodotto delle esperienze delle varie organizzazioni di Stati operanti nel tempo in Europa, nei cui confronti la stessa Unione europea sembra funzionare come una sorta di polo di attrazione.

 

2. Caratteri del multilateralismo europeo dopo la seconda guerra mondiale.

Comunque sia, anche se l’idea di Europa ha ascendenze medievali ed è stata oggetto della speculazione di molti pensatori tra ’700 e ’800, è a far data dalla fine della prima guerra mondiale che essa incomincia a vivere come progetto politico, assumendo però caratteri di operatività soltanto nella fase che coincide con le ultime battute della seconda guerra mondiale e quella immediatamente successiva.

In particolare, se al tavolo del Trattato di pace, che, il 10 febbraio 1947, a Parigi, mise ufficialmente fine allo stato di ostilità, era perfettamente visibile la linea di demarcazione tra vincitori e vinti, lo scenario europeo conseguente al tragico conflitto lasciava chiaramente intendere come le conseguenze rovinose dei sei anni di guerra non avessero risparmiato nessun Paese, facendo impallidire il ricordo degli esiti pur oltremodo nefasti della guerra del 1914-18.

Le novità salienti erano infatti costituite, questa volta, dalla perdita della centralità internazionale dell’Europa dal punto di vista sia economico, sia politico, e dalla vistosa frattura del continente europeo in due blocchi contrapposti sul piano politico-militare, quale conseguenza annunciata della divisione in sfere d’influenza decisa a Yalta ancor prima della fine del conflitto.

Tale situazione insieme al clima di “guerra fredda,” subito instauratosi tra le due grandi Potenze vincitrici, protrarrà i suoi effetti, sull’assetto geopolitico europeo fino alla scomparsa dell’Unione Sovietica nel 1991.

 

2.1. In questo quadro, giocò un ruolo di decisivo rilievo la grande perspicacia dell’ex segretario aggiunto della Società delle Nazioni, il francese Jean Monnet, che, già in piena guerra mondiale aveva espresso l’opinione che non ci sarebbe mai stata pace in Europa se gli Stati si fossero ricostituiti “su una base di sovranità nazionale”, invece che orientarsi verso “una federazione o una entità europea che ne [facesse] una comune unità economica”.

A quest’ordine di idee fece eco la Dichiarazione di Robert Schuman del 9 maggio 1950, nella quale si prospettava quel progetto di un’Europa unita, che, per vero, era già stato al fondo delle intuizioni quasi visionarie degli italiani Ernesto Rossi e Altiero Spinelli.

Si cercava così di mettere da parte, patrocinatori gli Stati Uniti, sia pure in prevalente funzione antisovietica e malgrado la resistenza della Gran Bretagna, ancora fortemente legata agli interessi del suo impero coloniale (Winston Churchill si proclamava favorevole alla formazione degli Stati Uniti d’Europa, ma senza la Gran Bretagna), la secolare conflittualità tra gli Stati europei, nella convinzione che qualsiasi scontro futuro sul territorio europeo sarebbe assomigliato ad una sorta di guerra civile, oltre che ad una guerra tra poveri.

Anzi proprio l’idea della stretta connessione tra risorgimento economico e promozione della pace e del buon vicinato tra le Nazioni europee motivava che si mettesse mano ad un multilateralismo economico all’insegna peraltro di principi liberistici opposti ai sistemi autarchici e ai nazionalismi economici ritenuti tra i fattori responsabili della crisi del sistema economico internazionale tra le due guerre e dello stesso conflitto armato.

Il proposito appariva per altro verso coerente con analoghe iniziative di livello mondiale: a Bretton Woods, avevano infatti visto la luce nel luglio del 1944 il Fondo Monetario Internazionale e il Gruppo della Banca Mondiale, mentre era ancora recente la firma, il 30 ottobre 1947 a Ginevra, del GATT (Accordo Generale sulle Tariffe ed il Commercio).

Più in controtendenza poteva apparire la dimensione regionale dell’intesa che avrebbe sostenuto la nascita di organizzazioni di tipo economico in Europa. In precedenza, infatti, la stipula di accordi su scala geograficamente limitata era stata anch’essa giudicata foriera di dissidi internazionali a motivo della frammentazione di interessi politici, economici e militari che comportava. È noto, del resto, come il Covenant della Società delle Nazioni, animato invece da ispirazioni universalistiche, avesse richiesto l’impegno degli Stati membri ad abrogare qualsiasi obbligazione o accordo di carattere settoriale intervenuto tra gli stessi Stati.

Tuttavia, l’universalismo, che ancora nel 1945 aveva permeato l’Organizzazione delle Nazioni Unite, avrebbe trovato da lì a poco una plateale smentita nel Patto Atlantico, stipulato il 4 aprile 1949, in nome di ideali liberaldemocratici reputati incompatibili con il bolscevismo dell’Unione Sovietica e dei suoi alleati.

 

3. Prove europee di autodifesa tra UEO e UE (alla ricerca di un’identità europea di sicurezza e difesa). – La collaborazione sul piano economico che, come meglio vedremo nelle battute conclusive di questo discorso, si avviò in Europa col Trattato di Parigi del 1948, istitutivo del l’Organizzazione europea per la Cooperazione economica (OECE), si surrogò per certi versi a quel confronto marcato verso Est, che numerose ragioni sconsigliavano di trasformare in un multilateralismo militare esclusivamente europeo (tra questi, l’oggettiva debolezza delle forze armate disponibili, la contiguità territoriale con la zona critica egemonizzata dall’URSS, la presenza di forti Partiti comunisti ligi alla linea dettata da Mosca, e, non ultimo, l’ostilità degli Stati Uniti a che si potesse sviluppare un sistema militare-difensivo europeo al di fuori della Nato).

3.1. È vero che, col Trattato di Bruxelles del 17 marzo del medesimo anno, s’era dato vita ad un Patto di autodifesa collettiva tra alcuni Stati europei (Belgio, Francia, Gran Bretagna, Lussemburgo e Paesi Bassi), ma il suo scopo era quello d’impedire la rinascita militare della Germania, assicurandosi che questa non potesse violare gli impegni assunti in tal senso. Era invece sul precitato Patto Atlantico che l’Europa occidentale avrebbe fatto affidamento per la sua sicurezza nei confronti della strategia di espansione sovietica culminato nella creazione delle due Germanie.

A tal proposito, occorre avvertire che non si parlerà qui della NATO, per la semplice ragione che non si tratta di un’organizzazione esclusivamente europea. È, del resto, noto che la sua nascita fu resa possibile dall’abbandono della dottrina Monroe in base alla famosa risoluzione Vanderberg approvata dal Senato americano l’11 giugno 1948, che assicurò il necessario sostegno alla politica di Truman tesa a contenere l’imperialismo sovietico sul continente europeo.

Va letta in questo senso anche l’adesione alla NATO della Grecia e della Turchia nel 1952. La Spagna, tenuta fuori a causa del regime franchista, ebbe però, nel clima di “guerra fredda”, buoni rapporti con la NATO, entrando a farne parte nel 1982. Va inoltre ricordata la decisione della Francia di De Gaulle di ritirarsi dalla NATO, ritenuta eccessivamente dominata dagli Stati Uniti, pur restando nell’alleanza atlantica. E, se di recente il disimpegno della Francia rispetto alla NATO è andato diminuendo, non è certo venuto meno il suo obiettivo di promuovere più largamente gli interessi europei sul piano della cooperazione difensiva.

 

3.2. Tornando al Patto di autodifesa collettiva del 1948, può osservarsi come la sua storia assomigli alla mitica araba fenice in grado di rinascere dalle proprie ceneri, portando impresso il segno delle accennate difficoltà ad organizzare una difesa europea autonoma ed emancipata dagli Stati Uniti. Esemplare in tal senso fu il fallimento della Comunità europea di difesa (CED) nel 1954, concepita come un progetto di collaborazione militare tra gli Stati europei alternativo alla NATO. Proposto e sostenuto dalla Francia con l’appoggio dell'Italia, tale progetto fallì per il disimpegno successivo della stessa Francia.

Nel frattempo, le vicende della guerra di Corea e il timore di un’iniziativa militare sovietica anche in Europa avevano convinto della necessità di riarmare la Germania, la quale, insieme all’Italia entrò a far parte del predetto Patto, trasformato nel 1954 in una vera e propria organizzazione, l’Unione Europea Occidentale (UEO).

 

3.3. Alla UEO toccò quindi paradossalmente di giocare un ruolo decisivo per l’integrazione della Germania Ovest nella NATO e per il ritorno alla fiducia reciproca tra gli Stati dell'Europa occidentale attraverso il mutuo controllo degli armamenti. In ogni caso, lo scopo principale dell’UEO fu quello di assicurare la sicurezza degli Stati membri attraverso un meccanismo automatico di reazione che andava al di là di quanto richiesto dall’appartenenza alla stessa Alleanza atlantica, con il limite dell’efficacia degli impegni al solo territorio continentale europeo (ciò che ha evitato, ad esempio, l’applicazione del Trattato alla guerra tra Gran Bretagna e Argentina per il possesso delle Malvine-Falklands nel 1982).

Dopo un periodo di eclissi, l’UEO è stata riattivata nel 1984 con la Dichiarazione di Roma, che ha riconosciuto che la definizione di un’identità europea di difesa e la graduale armonizzazione delle politiche di difesa costituiva l’obiettivo degli Stati membri.

Con il Trattato di Maastricht sono stati stabiliti rapporti privilegiati tra l’Unione europea e l’UEO, mentre con la “Dichiarazione dell’Unione dell’Europa occidentale sul ruolo dell’Unione dell'Europa occidentale e le sue relazioni con l’Unione europea e con l’alleanza atlantica” del 22 luglio 1997, s’è prodotto un vero e proprio raccordo funzionale con l’Unione Europea. Parte della Dichiarazione ha infatti assunto la veste formale di Protocollo allegato al Trattato di Amsterdam, in quale ha inoltre riconosciuto l’organizzazione militare come “parte integrante del processo di sviluppo dell'Unione europea" (Trattato di Amsterdam, Articolo J.7).

Questa previsione è stata soppressa dal successivo Trattato di Nizza, anche in conseguenza della decisione del Consiglio europeo di Colonia del giugno 1999 di rafforzare la Politica europea di sicurezza e di difesa (PESD), dello scioglimento dello stato maggiore militare dell’UEO e del trasferimento della gestione delle crisi all’Unione europea.

Peraltro, sul punto della difesa europea, sia il Trattato costituzionale, sia il Trattato di Lisbona del dicembre 2007, hanno ancora una volta espresso un deciso orientamento verso la NATO, indicata come il fondamento della difesa collettiva degli Stati, che ad essa aderiscono, e come l’organismo incaricato di attuare tale politica di difesa, mentre come più futuribile è presentata un’autentica politica di difesa comune. Persino gli impegni e la cooperazione strutturata permanente, che, in questo settore, possono intraprendere gli Stati membri che rispondono a criteri più elevati in termini di capacità militari, devono rimanere conformi agli impegni assunti nell'ambito della NATO.

Del tutto ripetitivo dell’art. V del Trattato UEO è infine il disposto di entrambi i testi per cui qualora uno Stato membro subisca un’aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati alleati sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in conformità dell’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite.

 

3.4. Sembra peraltro ancora interessante un rapido excursus sulla struttura dell’UEO, di cui può subito rilevarsi l’appartenenza alle organizzazioni intergovernative di “tipo europeo”, essendo così definite quelle che presentano il peculiare carattere della presenza di un organo direttamente o indirettamente elettivo di rappresentanza degli interessi dei popoli degli Stati membri.

Tale organo, nel nostro caso, s’identifica con l’Assemblea nella quale siedono (a Parigi) le delegazioni dei 27 Stati membri dell’Unione europea, designate dai Parlamenti nazionali interessati tra i loro stessi componenti, le delegazioni degli Stati associati non appartenenti all’Unione europea, ma membri della NATO (Islanda, Norvegia e Turchia), nonché le delegazioni degli altri Stati europei c.d. partners, mentre altre delegazioni, come quella del Parlamento europeo, possono essere invitate a partecipare in qualità di osservatori (si noti peraltro che solo ai parlamentari provenienti dall’Unione europea spettano per intero tutti i diritti di partecipazione all’attività dell’Assemblea).

L’Assemblea si pronuncia con rapporti e raccomandazioni, alcune delle quali sono state all’origine degli avanzamenti europei in materia d’integrazione nel campo della sicurezza e della difesa. Inoltre, vige l’obbligo per i governi dei Paesi membri dell’UEO di sottoporre all’Assemblea una relazione annua scritta, realizzandosi anche per questa via la doppia cooperazione intergovernativa ed interparlamentare.

Sono stati quindi previsti alcuni meccanismi automatici di coordinamento tra Unione Europea e UEO, facendo sì che, ad esempio, il Segretario Generale del Consiglio dell'Unione Europea - Alto Rappresentante per la PESD sia automaticamente designato Segretario Generale dell’UEO.

Tali soluzioni non sono prive di razionalità, considerato che fanno parte degli organi consimili, in particolare i Consigli delle due organizzazioni, i medesimi Ministri degli esteri e della difesa dei Paesi dell’Unione europea, cosi che anche il Consiglio dei ministri comunitario preposto alla PESD coincide con il Consiglio permanente dell’UEO, competente a deliberare con voto unanime su tutte le questioni concernenti l’organizzazione.

Con Lisbona 2007 si è cercato di ridare smalto al dialogo tra Parlamenti nazionali e Parlamento europeo: permane tuttavia il dubbio circa l’efficacia di questo sistema nel particolare settore della difesa e della sicurezza europea, dato che vi rimarrebbe sostanzialmente estranea proprio l’Assemblea parlamentare dell’UEO, che gode delle attribuzioni di controllo più pregnanti in materia, mentre gli attori di quel dialogo potrebbero rivelarsi poco incisivi rispetto alle condotte degli esecutivi dell’Unione europea e degli Stati membri

È comunque da notare che, svuotata la competenza dell’UEO in relazione ai trasferimenti di materia all’Unione europea di cui s’è già accennato, l’Assemblea ha concentrato gran parte della propria attività sulle questioni concernenti la PESD, in ciò venendo in certo modo a colmare la corrispondente lacuna in seno all’Unione europea e, per quanto di ragione, il corrispondente deficit democratico comunitario.

Se conclusivamente, l’obbligo di mutua difesa sembra per il momento restare sostanzialmente fuori dalla prospettiva dell’Unione europea, le recenti vicende testimoniano comunque la tendenza di allestire un’“Europa della difesa” nell’ambito del contesto più strutturato dell’Unione europea.

 

4. “Decessi e nascite” in materia di sicurezza in dipendenza della caduta del muro di Berlino (il Patto di Varsavia e l’OSCE). – Prima di abbandonare il piano delle organizzazioni di carattere difensivo a livello europeo, risulta opportuno dare conto, sia pure in rapida successione, di almeno due diverse realtà.

La prima di esse ha per vero cessato di essere tale a seguito della fine dell’Unione Sovietica. A far data dal 1° luglio 1991, è stata infatti definitivamente archiviata negli annali della storia l’Organizzazione del Patto di Varsavia, che rappresentò in qualche modo la faccia militare della preesistente COMECON (Consiglio per la Mutua Assistenza Economica: 1949-1991), l’'organizzazione economica degli stati comunisti, contraltare Comunità Economica Europea, anche se evidentemente meno propensa alla liberta del mercato.

La seconda, al contrario, deve proprio allo sfaldamento del blocco orientale la sua attuale configurazione. È durante la Conferenza di Parigi sulla sicurezza e la cooperazione in Europa del novembre 1990 che si decide infatti di trasformare la Conferenza stessa nell’Organizzazione di identico nome (sigla: OSCE), che decollerà il 1° gennaio 1995 dopo l’adozione delle relative delibere al summit di Budapest del 5 dicembre 1994.

 

4.1. Tornando al Patto di Varsavia, occorre precisare come la molla scatenante per la sua costituzione, il 14 maggio 1955, era stata dichiaratamente l’ingresso della Germania Occidentale nella NATO e nell’UEO. Per risposta si era ritenuto allora necessario allestire un quadro difensivo in cui inserire come contrappeso la Germania comunista. Per una sorta di nemesi storica, è stata la riunificazione della Germania a dare il via all’uscita degli altri Paesi dal Patto fino al suo scioglimento e all’annullamento di tutti gli altri trattati di reciproca assistenza militare intercorsi tra gli Stati membri. Tra questi ultimi, poi, hanno aderito alla stessa Nato la Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Romania, Bulgaria, Lituania, Estonia e Lettonia.

Il Patto di Varsavia perse nel 1968 l’Albania in conseguenza dei dissidi sorti tra Unione Sovietica e Cina, mentre quest’ultima, pur avendo partecipato come osservatrice alla costituzione del Patto, non ne fece mai parte. Per ragioni diverse, non vi aderì la Yugoslavia cui era riuscito di adottare una politica di non allineamento.

Costituito, dunque, come risposta alla NATO, il Patto di Varsavia tese anche a rifletterne nella struttura interna, imperniata pertanto su un Comitato consultivo composto dai rappresentanti degli Stati e deliberante all’unanimità, un Comando unificato sotto la guida sovietica e residente a Mosca; un Segretariato anch’esso di natura consultiva e una Commissione permanente quale emanazione del Comitato consultivo competente a formulare raccomandazioni in materia di politica estera. Questa circostanza non ne celava peraltro la fondamentale differenza, ossia il fatto che, diversamente dalle organizzazioni occidentali, il Patto fosse concepito come un’alleanza fondata sulla subordinazione degli Stati membri all’Unione Sovietica, potenza dominante e a vario titolo presente nei territori degli Stati stessi.

All’alto comando sovietico erano operativamente sottoposte le forze alleate e in tempo di pace permaneva un sistema di controllo militare e politico in cui i comandati delle forze alleate erano identificati nei Ministri della difesa dei vari Paesi, mentre un controllo ancora più profondo era esercitato dalle diramazioni del Partito comunista nelle diverse Forze armate.

Inutile nascondersi come, almeno sulla carta, un simile sistema si presentasse assai più solido e compatto di quelli occidentali. L’Europa occidentale ha avuto peraltro la ventura di non sperimentarne il confronto in quanto, già a partire dalla guerra di Corea, erano state implicitamente definite dalle due grandi Potenze le regole del gioco nell’era nucleare, attraverso la teoria dei conflitti limitati e contenuti all’uso delle armi convenzionali, che non avrebbero messo a rischio gli interessi vitali delle Potenze medesime. Minor fortuna ha tuttavia arriso a qualcuno degli stessi Stati membri, come l’Ungheria nel 1956 e la Cecoslovacchia del 1968, che, sulla base della teoria e alla pratica della sovranità limitata, sono stati gli unici a saggiare la capacità d’intervento e di repressione delle forze armate del Patto.

 

4.2. Per quanto concerne l’Organizzazione sulla sicurezza e la cooperazione (OSCE), è probabile che, nella memoria di tutti, sia rimasta soprattutto impressa la Conferenza di Helsinki, apertasi formalmente il 3 luglio 1973, che ne ha costituito la manifestazione antesignana.

Per le origini di tale Conferenza è possibile però risalire ancora più indietro e cioè alla proposta formulata dall’Unione Sovietica nel 1954, quindi prima del precipitare della situazione che darà origine al Patto di Varsavia, della convocazione di una conferenza paneuropea per la stipula di un trattato cinquantennale di sicurezza collettiva. La proposta poté però essere accettata solo assai più tardi nel nuovo clima prodotto a livello mondiale dai negoziati SALT 1 tra Stati Uniti e Unione Sovietica nel 1972, e, a livello europeo, dall’Ostpolitik del cancelliere tedesco Willy Brandt nei primissimi anni ’70 del secolo passato.

La Conferenza ebbe tra i suoi risultati il non meno famoso Atto finale del 1° agosto 1975, che stabilì che la cooperazione (si noti: ormai non solo tra tutti i Paesi europei ad eccezione dell’Albania, ma anche con il coinvolgimento di Canada e Stati Uniti) sarebbe stata organizzata intorno alle c.d. tre ceste: la sicurezza vera e propria, economia, scienza, tecnologia e ambiente, e i diritti umani.

È peraltro noto come l’Atto finale non abbia mai assunto la veste giuridica vincolante di un trattato, ma l’alto livello politico al quale era stato stipulato non l’ha reso completamente privo di effetti, dato che, proprio a partire dai suoi contenuti, si sono prodotti i c.d. sèguiti di Helsinki, ossia le varie Conferenze destinate a valutare i comportamenti degli Stati e a fissare coordinate aggiornate per la loro azione. In questo senso, una particolare importanza ha avuto nel 1989 la Conferenza di Vienna, sopraggiunta alla vigilia del terremoto geografico e politico determinati dalla caduta del muro di Berlino, dalla riunificazione tedesca, dalla dissoluzione dell’Unione sovietica e dal presentarsi di nuovi e vecchi Stati nell’Europa centrale e orientale.

È ancora in questa fase che ha luogo la già ricordata Conferenza di Parigi del 1990 cui si deve la “Carta di Parigi per una nuova Europa”, considerata il primo atto politico multilaterale che ha segnato la fine della c.d. guerra fredda. Val la pena di ricordarne l’incipit:

Noi, Capi di Stato e di Governo degli Stati partecipanti alla Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa, siamo riuniti a Parigi in un periodo di profondi mutamenti e di attese storiche. L’era della contrapposizione e della divisione dell'Europa è terminata.

Dichiariamo che per l‘avvenire le nostre relazioni saranno basate sul rispetto e sulla cooperazione.

L'Europa si sta liberando dal retaggio del passato. Il coraggio di uomini e donne, la potenza della volontà dei popoli e la forza delle idee dell'Atto Finale di Helsinki hanno dischiuso una nuova era di democrazia, pace ed unità in Europa.

È questo il momento di realizzare le speranze e le aspettative nutrite dai nostri popoli per decenni: l‘impegno costante per una democrazia basata sui diritti dell'uomo e sulle libertà fondamentali, la prosperità attraverso la libertà economica e la giustizia sociale nonché un’uguale sicurezza per tutti i nostri paesi”.

È con questo viatico, dunque, si va, come già accennato, verso l’allestimento a Budapest nel dicembre 1994 della struttura permanente dell’OSCE. Da notare come fosse assai intenso l’interessamento della Russia per tale metamorfosi organizzativa, dato che, con la sua esclusione dalla NATO, essa vedeva nell’OSCE il mezzo per uscire dall’isolamento e far valere ancora il suo ruolo di grande Potenza nello scacchiere europeo, sostituendo gli Stati Uniti nel posto occupato in Europa. Ma ciò, com’è noto, si è rivelato solo una mera intenzione.

 

4.3. Comunque sia, dal punto di vista organizzativo, l’OSCE ha il suo centro decisionale nei summit, ossia negli incontri periodici dei Capi di Stato e di governo dei Paesi membri, oggi in numero di 56, ossia tutti i Paesi europei e della Comunità degli Stati indipendenti (che ha, a sua volta, instaurato una cooperazione stretta tra 11 delle 15 ex Repubbliche sovietiche) più gli Stati Uniti e il Canada). Tali incontri sono preceduti da Conferenze preparatorie con cadenza almeno biennale. Tra un summit e l’altro, funziona un Consiglio dei Ministri, cui partecipano i Ministri degli Esteri con compiti esecutivi e di monitoraggio del perseguimento degli obiettivi indicati nei summit. La struttura permanente è invece rappresentata da un vertice composto da un Presidente, scelto annualmente a rotazione tra i Ministri degli Esteri, assistito dalla c.d. trojka, in cui siedono oltre al Presidente in carica, quello precedente e quello designato per l’anno successivo, e sostenuto da un Segretario generale.

Alla struttura dell’OSCE partecipa anche Consiglio permanente di delegati governativi che si riuniscono con ritmo settimanale a Vienna e un’Assemblea parlamentare composta di delegati dei Parlamenti nazionali il cui Segretariato ha sede a Copenhagen. Non potendo scendere oltre nei dettagli, ci limitiamo a segnalare per il loro indubbio interesse i Forum: quello per la cooperazione in materia di sicurezza che si riunisce settimanalmente a Vienna, e quello economico che si riunisce annualmente a Praga.

 

4.4. Come si sarà forse potuto intendere da queste rapide notazioni, l’OSCE comprende tra i suoi principali campi d’interesse la promozione di società basate sui valori democratici e sullo Stato di diritto, nonché la prevenzione dei conflitti locali attraverso un sistema cooperativo di sicurezza.

Si ragiona in questo quadro particolarmente di dimensione politica e umana della sicurezza comprendente, tra l’altro, il controllo sul regolare svolgimento delle elezioni nei Paesi membri, l’azione a favore dell’eguaglianza tra i sessi, dei diritti umani e delle minoranze etniche, e di tutela della libertà di espressione e dei media.

Questo complesso e articolato insieme di interessi coltivato dall’OSCE conduce inevitabilmente a porre il problema delle sovrapposizioni e delle interferenze con altre organizzazioni, tra cui, a parte la NATO che abbiamo lasciato fuori dalla nostra prospettiva, la già considerata UEO ed il Consiglio d’Europa di cui si parlerà tra poco.

Inoltre, il rapporto tra OSCE e UEO finisce per configurarsi in realtà come un rapporto con l’Unione europea per effetto del già riferito trasferimento a quest’ultima di competenze UEO, mentre, anche sul piano della tutela dei diritti dei diritti umani, del rispetto dello Stato di diritto, e del culto del sistema democratico, occorre ricordare come l’Unione europea si fosse già impegnata, specie all’indomani del varo del Trattato di Maastricht, a promuovere e a difendere tali valori, non solo all’interno dei suoi confini, ma anche nelle sue relazioni con i Paesi terzi, “rafforzando così l’identità dell’Europa e la sua indipendenza al fine di promuovere la pace, la sicurezza e il progresso in Europa e nel mondo” (Trattato di Maastricht, preambolo). Specificamente, all’art. J, 1 (attuale art. 11), tra gli obiettivi della politica estera e di sicurezza comune, che l’Unione sarebbe stata chiamata a portare avanti “cooperando sistematicamente” con gli Stati membri, erano stati annoverati il mantenimento della pace ed il rafforzamento della sicurezza internazionale, conformemente ai principi della Carta delle Nazioni Unite, nonché ai principi dell’atto finale di Helsinki del 1° agosto 1975 e agli obiettivi della Carta di Parigi del 21 novembre 1990, che si è testé visto rappresentare i contribuiti più cospicui offerti dall’OSCE nella materia.

Sulle dinamiche di tale rapporto, la cronaca si è incarica purtroppo di attirare l’attenzione proprio in questo mese di agosto con il conflitto tra Russia e Georgia: come ha dichiarato il ministro degli Esteri della Francia, che in questo momento ha la presidenza dell’Unione europea, Bernard Kouchner “il Presidente georgiano Mikheïl Saakachvili ha accettato quasi tutte le proposte dell’Unione europea e dell’OSCE per bloccare il conflitto”. Più difficile è risultato convincere i russi!

 

4.5. Per quanto riguarda infine i rapporti tra UEO e Consiglio d’Europa, può sottolinearsi come, in numerosi documenti della sua Assemblea parlamentare, compaia sia il compiacimento per gli esiti della cooperazione tra le due Organizzazioni, sia l’auspicio di un miglioramento delle sinergie nei campi di comune interesse. Probabilmente un modo elegante per sottolineare la persistenza di un’eccessiva autonomia di linee d’azione, di cui però non si vede come scongiurare i rischi in presenza di istituzioni ben strutturate e certamente non desiderose di cedere definitivamente il passo.

 

5. Il Consiglio d’Europa e il modello europeo di protezione dei diritti umani. – Anche se non sempre è possibile delimitare nettamente i campi nei quali la cooperazione tra Stati europei si attua nelle varie organizzazioni internazionali e sovranazionali, può osservarsi che, se finora si è ragionato prevalentemente di cooperazione nel campo della difesa militare, con il Consiglio d’Europa ci troviamo a gravitare essenzialmente nel campo politico-giuridico dei diritti umani; mentre alla cooperazione economica dedicheremo successivamente la nostra attenzione, anche se, come abbiamo già potuto constatare, la sua realizzazione più cospicua, ossia l’Unione europea, ha ormai assunto un ruolo che supera largamente la sua originaria vocazione.

 

5.1. Il 1948 fu l’anno propizio anche per realizzare l’idea di un’organizzazione europea in grado di offrire specifica tutela ai diritti dell’uomo e di concludere accordi a tale scopo su scala internazionale, favorendo anche l’emersione di un’identità europea basata su valori condivisi e trascendenti le diversità culturali.

È nel maggio di quell’anno, contrassegnato dal colpo di Stato a Praga e dal blocco di Berlino, che all’Aja, durante il Congresso svoltosi sotto la presidenza di Churchill, poterono confrontarsi direttamente le due anime principali dell’unità europea, ossia quelle dei “costituzionalisti”, fautori di una nuova entità politica di tipo federale tesa a superare e ad assorbire le realtà nazionali, e degli “unionisti”, favorevoli invece a salvaguardare, pur nell’ambito di stretti raccordi internazionali, gli Stati nazionali nella pienezza delle loro sovranità.

Da queste discussioni, si originò il 5 maggio 1949 a Londra, lo Statuto del Consiglio d’Europa, organizzazione aperta all’adesione di qualsiasi Stato europeo che riconoscesse, secondo l’art. 3 di detto Statuto, la preminenza del diritto e il principio in virtù del quale ogni persona posta sotto la giurisdizione del Consiglio deve godere dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Questa sorta di “brevetto di democrazia” potrà da lì a poco essere conseguito mediante la sottoscrizione della Convenzione adottata dal Consiglio a Roma il 4 novembre 1950, tanto che, se una tale sottoscrizione non è configurata come obbligo formale per l’ingresso nell’organizzazione, resta nella prassi inibito che uno Stato vi sia accolto senza aver quantomeno sottoscritto l’impegno ad aderire entro breve termine alla Convenzione.

Per questo stesso ordine di ragioni, è stato possibile nel tempo individuare diverse categorie di Stati che intrattengono rapporti con il Consiglio d’Europa: si va infatti dagli Stati membri pleno iure, che cioè rispettano integralmente le obbligazioni dello Statuto e della Convenzione (oltre agli Stati fondatori, Francia, Gran Bretagna e Benelux, altri se ne sono aggiunti sia prima che dopo la caduta del muro di Berlino fino a raggiungere il numero attuale di 46), agli Stati che, in quanto ritenuti in grado di conformarsi alle predette obbligazioni sia pure in attesa di una verifica formale e invitati a far parte dell’Organizzazione, godono della condizione di membro associato, (si noti che dopo il 1989 proprio per venire incontro agli Stati dell’ex blocco sovietico è stata creata la particolare categoria di “invitati speciali”). Una terza categoria di Stati è rappresentata da membri “osservatori”, con l’avvertenza tuttavia che bisogna distinguere gli Stati osservatori presso il Comitato dei Ministri da quelli presso l’Assemblea: tra i primi troviamo Stati non europei desiderosi di cooperare con il Comitato, come gli Stati Uniti e persino il Giappone, nonché diverse organizzazioni internazionali; tra i secondi, troviamo dei Parlamenti di Stati non membri altrettanto desiderosi di cooperare, com’è il caso del Canada, del Messico e di Israele.

 

5.2. Abbiamo così accennato ai due organi cardine del Consiglio d’Europa: il Comitato dei Ministri e l’Assemblea parlamentare.

Il Comitato dei Ministri è il protagonista nella procedura di ammissione di nuovi Stati, sia pure dopo aver raccolto il parere favorevole dell’Assemblea emesso almeno ai due terzi dei voti. Analogamente spetta al Comitato sospendere dai suoi diritti rappresentativi lo Stato membro ritenuto inadempiente agli obblighi di appartenenza (è stato, ad esempio, il caso della Grecia dopo il regime dei colonnelli del 1967, della Turchia dopo il colpo di Stato militare del 1981, e della Russia nel 2000 a causa della politica repressiva condotta in Cecenia).

Occorre peraltro sottolineare come non infrequentemente si siano verificati attriti tra l’Assemblea e il Comitato la prima più rigida nell’applicazioni delle sanzioni; il secondo più pervaso da Realpolitik e probabilmente persuaso che la permanenza nel Consiglio dia luogo comunque a qualche salvaguardia dei diritti nel Paese interessato.

Circa i profili organizzativi non si ha qui la possibilità di condurre ulteriori approfondimenti, limitandoci a precisare che il Comitato dei Ministri, composto dai Ministri degli Esteri dei vari Stati membri che dispongono ciascuno ugualmente di un voto, è l’organo competente ad agire in nome del Consiglio d’Europa sia a livello decisionale, sia a livello esecutivo e di controllo. In particolare, spetta al Comitato l’approvazione definitiva delle Convenzioni elaborate dal Consiglio dì Europa e l’adozione delle raccomandazioni. L’Assemblea parlamentare, composta di membri designati dai Parlamenti nazionali in numero rapportato alla consistenza demografica degli ordinamenti interessati (si va da un minimo di ad un massimo di 18 parlamentari), esercita piuttosto un ruolo d’indirizzo e consultativo, potendo adottare, alla maggioranza dei due terzi, raccomandazioni e pareri destinati al Comitato dei Ministri o, a maggioranza assoluta, delle autonome risoluzioni.

Peraltro, a differenza di quanto accade nell’ambito dell’Unione europea, tali deliberazioni non sono vincolanti e non esiste un diritto derivato direttamente applicabile all’interno degli Stati membri, così che lo strumento più adeguato per incidere nelle materie d’interesse continua ad essere costituito dalle convenzioni, atti squisitamente internazionalisti.

 

5.3. Tra le varie convenzioni, certamente la più famosa resta la già citata Convenzione di Roma del 1950, attraverso la quale il Consiglio d’Europa è riuscito a dotarsi, almeno nel settore della protezione dei diritti umani, di un apparato di controllo piuttosto efficace.

Siffatto controllo è pervenuto anzi a costituire il prototipo di un sistema fondato su una convenzione obbligatoria per gli Stati aderenti munita di controllo giurisdizionale specifico altrettanto obbligatorio. Il modello è rimasto tuttavia privo di imitazioni, se si eccettua il sistema allestito dalla Convenzione americana dei diritti dell’uomo. Nella stessa Unione europea, la protezione dei diritti è ancora assai imperfetta sia per l’indisponibilità per i singoli di vie di ricorso specifiche, sia per la perdurante inapplicabilità della Carta di Nizza dopo l’insuccesso del Trattato costituzionale e lo stallo del Trattato di Lisbona.

Contenendoci anche qui sull’essenziale e sull’attualità, ricordiamo allora che sul piano organizzativo la protagonista è la Corte europea dei diritti dell’Uomo con sede a Strasburgo. Essa può lavorare in diverse formazioni: l’assemblea plenaria cui spettano compiti puramente organizzativi e amministrativi, e le Sezioni in numero di quattro, nell’ambito delle quali possiamo individuare, a mente del Protocollo n. 14 differenti soluzioni organizzative: il giudice monocratico, incaricato solo di rigettare richieste individuali ritenute manifestamente irricevibili; comitati di tre giudici, cui spetta ancora di filtrare le richieste individuali, ma anche di deciderle con voto unanime se l’oggetto della controversia rientra in una giurisprudenza ben consolidata; Camere giurisdizionali di sette giudici quali formazioni ordinarie competenti sia sugli aspetti processuali, sia sul merito delle questioni; e finalmente la Grande Camera, composta di 17 giudici, a cui vanno indirizzate le richieste di riesame delle questioni già decise dalle Camere semplici.

Sul piano procedurale, ricordiamo che i ricorsi possono essere presentati dagli Stati, dai singoli e dalle organizzazioni di persone, indipendentemente dalla loro nazionalità. Il meccanismo di ricorso concerne oggi tutti gli Stati, essendo venuta meno nel 1978 la possibilità di non accettare la giurisdizione obbligatoria della Corte. Resta comunque indispensabile essere titolari di un ben fondato interesse a ricorrere quale può esemplarmente derivare dalla dimostrazione di essere stati lesi in uno dei diritti garantiti dalla Convenzione di Roma.

È tuttavia altrettanto noto che il ricorso è caratterizzato dal principio di sussidiarietà, in quanto esperibile solo quando siano state percorse tutte le vie interne di tutela o si dimostri che tali vie sono inutili, di fatto inoperanti o inaccessibili.

Comunque sia, allorché un ricorso abbia superato il vaglio della ricevibilità, viene esperito il tentativo di una composizione amichevole della controversia, in difetto della quale la Corte è finalmente investita del merito della questione.

 

5.4. La Corte decide con sentenza motivata, la quale può anche contenere l’opinione dissenziente di qualche giudice. Solo le sentenze della Grande Camera sono immediatamente definitive, mentre, per quelle delle Camere semplici, devono decorrere almeno tre mesi a meno che le parti non rinuncino alla facoltà di ricorso.

Il contenuto della decisione si rivela però alquanto circoscritto dato che, in caso di accoglimento del ricorso, la Corte non può ingiungere alcun comportamento positivo allo Stato condannato, tranne il pagamento di una riparazione pecuniaria, sul cui adempimento vigila il Comitato dei Ministri, ma anche qui senza un apprezzabile potere di reazione di fronte alla riottosità dello Stato condannato.

In questo quadro, uno dei più consistenti effetti della giurisprudenza della Corte di Strasburgo è quello di influenzare la giurisprudenza interna degli Stati membri.

Per l’Italia s’è pronunciata di recente la Corte costituzionale che, in due sentenze divenute subito famose, la 347 e la 348 del 2007, pur riconoscendo il differente effetto sistemico tra adesione alla CEDU e appartenenza all’Unione europea, non solo ha chiarito l’effetto di vincolo della CEDU, come impegno internazionale, per le autorità giurisdizionali del nostro Paese, ma ha anche precisato che il senso autentico delle clausole della Convenzione di Roma è esattamente quello dato dalla Corte di Strasburgo, sì da condurre all’invalidità di leggi nazionali che vi contrastino, a meno che non si alleghi la contraddittorietà delle regole CEDU così interpretate con la Costituzione nazionale.

Un secondo effetto di rilievo della CEDU fa parte invece della storia di un’altra organizzazione, ossia l’Unione europea, su cui mette conto pertanto di ritornate nella parte conclusiva del nostro discorso.

 

5.5. Resta qui invece da fare qualche accenno al contenuto della CEDU, poiché essa si riferisce essenzialmente ai diritti civili e politici, ai diritti della persona umana come tale, e ai diritti procedurali, anche se, nel tempo, grazie al alcuni Protocolli addizionali, altri se ne sono aggiunti come il diritto a libere elezioni, il diritto di proprietà e il divieto della pena di morte, restandone però sempre fuori i diritti sociali ed economici. Questi hanno trovato invece trovato collocazione in un altro atto del Consiglio d’Europa: la Carta sociale europea del 1961, rivista e aggiornata nel 1996. Tuttavia il meccanismo di controllo di questa Carta permane ancora debole, basandosi su ricorsi proponibili ad uno speciale organismo, il Comitato europeo dei diritti sociali, purché lo Stato interessato abbia palesato la sua disponibilità in proposito. In caso di accertata violazione, sarà il Comitato dei ministri ad indirizzare allo Stato una raccomandazione, senza che esista la possibilità di un ricorso davanti alla Corte di Strasburgo.

 

5.6. Almeno un certa completezza avrebbe richiesto che fosse menzionata anche la competenza consultiva della Grande Camera, attivabile solo dal Comitato dei Ministri, circa l’interpretazione della Convenzione di Roma e dei suoi Protocolli. Di fatto, essa è rimasta pressoché sulla carta, dato che, in base alla sua stessa giurisprudenza, la Grande Camera declina ogni richiesta che potrebbe interferire non solo con ricorsi già presentati, ma anche con ricorsi potenziali. Più interessante è, se mai, che, com’è stato rilevato, questa stessa circostanza metta la Corte di Strasburgo in una situazione notevolmente diversa rispetto alla Corte interamericana dei diritti dell’uomo, la cui competenza consultiva è invece molto sviluppata sino a costituire un metodo alternativo di risoluzione delle questioni e a rappresentare la gran parte della sua attività.

 

6. La cooperazione economica in Europa: dai “diritti del mercato” ai “diritti nel mercato”. – Venendo finalmente alla cooperazione tra Stati di tipo economico in Europa, si ricorderà come il discorso abbia preso le mosse proprio da questa prospettiva e, precisamente, dal Trattato con cui, nel 1948 a Parigi, s’istituì l’Organizzazione europea per la Cooperazione economica (OECE), alla quale peraltro è sufficiente ora dedicare solo qualche rapido cenno, sia perché, pur costituendo un’organizzazione ancora vitale, essa ha a un certo punto il carattere di “europeità”, sia perché il suo ruolo è stato decisamente assorbito dall’Unione europea.

 

6.1. Basti quindi ricordare come l’OECE, nata nel quadro del Piano Marshall di aiuti americani all’Europa prostrata dalla guerra, avesse riunito fin dall’inizio 17 Paesi europei, avendo l’Unione sovietica respinto l’invito a farne parte, non tollerando interferenze nella sua sovranità statale. In effetti l’OECE aveva e conserva lo scopo di promuovere la cooperazione interstatale nei settori dell’economia e della finanza, mettendo al bando le politiche protezionistiche, le restrizioni commerciali e i controlli sugli scambi.

Ma, per queste ragioni, l’OECE ha cessato di interpretare un ruolo rilevante con l’avvento delle Comunità europee, tanto da indurre ad un ripensamento sulla sua stessa esistenza e struttura. È stato così che, con la Convenzione del 14 dicembre 1960, l’OECE si è trasformata in OCSE, ossia nell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, laddove la sparizione dell’aggettivo “europea” intendeva indicare l’apertura anche a Paesi esterni all’Europa, come avvenne per gli Stati Uniti e il Canada (attualmente ne fanno parte anche il Giappone, il Messico e la Nuova Zelanda).

Imperniata su un Consiglio composto dai Ministri degli Esteri e dell’Economia dei Paesi membri, dotato di attribuzioni deliberative, e su un Segretariato, cui spetta un ruolo di esecuzione, l’OCSE si presenta oggi soprattutto come un organismo di studio e di analisi impegnato ad offrire consulenza ed aiuto ai Paesi membri in disparati campi politici ed economici. A tal fine, esso può emanare raccomandazioni e concludere accordi, con l’avvertenza tuttavia che, trattandosi di una struttura interstatale di carattere tradizionale, soltanto quanto deliberato all’unanimità può vincolare tutti gli Stati aderenti.

Quest’ultima osservazione ci conduce a sottolineare come, con riferimento al titolo di questa relazione, solo all’Unione europea si addica propriamente il carattere di sovranazionalità. Essa ha, del resto, presentato questo carattere fin dalle sue origini, ossia dalla fondazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) nel 1951, che, differenziandosi dalle altre organizzazioni fino ad allora esistenti, esibiva, accanto ad organi di natura tipicamente internazionali, cioè pariteticamente rappresentativi degli Stati aderenti (come il Consiglio e il Parlamento), un organo, l’Alta autorità, di natura “sopranazionale”, indipendente cioè dai governi nazionali, costituendo altresì segnali evidenti di questa nuova tensione sopranazionale l’efficacia diretta delle sue decisioni generali, l’attribuzione di risorse proprie al bilancio comunitario, il principio del voto a maggioranza nel Consiglio dei ministri e la possibilità dell’elezione diretta del Presidente da parte dell’Assemblea parlamentare comune.

 

6.2. Ancora legata al tradizionale carattere di internazionalità si sarebbe mostrata, invece, l’EFTA (European Free Trade Association o Zona europea di libero scambio), l’organizzazione nata a Stoccolma il 4 gennaio 1960, tra Austria, Danimarca, Gran Bretagna, Norvegia, Portogallo, Svezia, Svizzera e in seguito Finlandia, Islanda e Liechtenstein, allo scopo di realizzare un’unione doganale alternativa alla CEE. Tale organizzazione, che conta oggi solo su quattro membri residui, fu effettivamente voluta dalla Gran Bretagna, che non aveva voluto far parte né della CECA nel 1951, né della CEE nel 1957, reputate eccessivamente integrazioniste e troppo rischiose per la sovranità di Sua Maestà Britannica, benché successivamente, di fronte al successo indiscutibile del modello comunitario, essa abbia paventato l’isolamento nello scacchiere occidentale anche di fronte all’asse collaborativo instauratosi tra Francia e Germania.

Le strutture organizzative dell’EFTA rimanevano dunque improntate al principio internazionalista dell’unanimità dei consensi degli Stati aderenti e le decisioni andavano tutte prese al livello governativo.

Il ritiro britannico dall’EFTA, a seguito del suo travagliato ingresso nelle Comunità europee il 1° gennaio 1973, ha marcato l’inizio della crisi dell’organizzazione e la diserzione di quasi tutti i suoi membri, alcuni dei quali sono entrati poi, anch’essi, a far parte dell’Unione europea.

Attualmente maggior rilievo può, se mai, assegnarsi al c.d. Spazio economico europeo (SEE), costituito il 1° gennaio 1994 allo scopo di dar vita ad una sorta di unione doganale tra EFTA ed Unione europea, nella sostanza prodromica all’adesione dei restanti Stati all’Unione europea (in realtà solo Norvegia, Islanda e Liechtenstein in quanto il quarto paese, la Svizzera, ha optato per la conclusione di accordi bilaterali con l’Unione europea).

 

6.3. Tornando alle Comunità europee, può succintamente sottolinearsi come tutta la vicenda successiva alla stipula dei Trattati originari sia andata nel senso vuoi di un crescente allargamento territoriale, vuoi di una più intensa integrazione tra gli Stati membri, vuoi ancora del progressivo potenziamento delle competenze devolute all’Unione (secondo una tendenza di tipo federalista). Di quest’organizzazione europea, è mutata anche nel tempo la natura: da organizzazione prettamente economica a organizzazione a competenza tendenzialmente generale, estesa, ad esempio, al campo della difesa, della sicurezza e della giustizia, nonché, assai più esplicitamente dopo la c.d. Carta di Nizza, a quello della tutela dei diritti fondamentali, compresi quelli di natura sociale.

Schematicamente, restando sull’attualità ed anzi guardando ad un futuro che può supporsi prossimo se andrà in porto la ratifica del Trattato di Lisbona, può riferirsi come la metafora, alla quale si ricorre per rappresentare il modello di integrazione e di cooperazione dell’Unione europea, sia quella di un tempio greco, sorretto da tre pilastri: il primo è quello originario delle politiche comunitarie, di natura economica e monetaria; il secondo è costituito dalle politiche di cooperazione nella politica estera e nella sicurezza comune (PESC); il terzo coincide con la cooperazione in materia di giustizia e affari interni (GAI). Sul frontone del tempio, leggiamo l’iscrizione della cittadinanza, mentre lo zoccolo è costituito dalle Istituzioni europee, comuni a tutti e tre i pilastri, sia pure con procedure e poteri diversi, laddove solo la Corte di giustizia ne ha costituito in maniera omogenea il meccanismo regolatore.

Dunque, quest’organizzazione in pilastri denota anche i differenti metodi di deliberazione e attuazione delle varie politiche, valendo ancora per il secondo e il terzo pilastro il metodo intergovernativo, ossia l’attribuzione al solo Consiglio e al suo potere di decisione delle politiche che ancora si ritengono interessare l’esercizio della sovranità degli Stati.

Per vero, il Trattato costituzionale aveva previsto la soppressione del sistema dei pilastri, sia pure mantenendo particolari soluzioni in certi settori come la PESC. Il Trattato di Lisbona ha riproposto tale soluzione con l’allestimento un quadro istituzionale unico, che comprende il Parlamento europeo, il Consiglio europeo, il Consiglio dei ministri, la Commissione europea, la Banca centrale europea, la Corte dei conti e la Corte di giustizia dell’Unione europea.

 

6.4. Scorrendo rapidamente questo elenco di organi (e lasciandone da parte altri di natura ausiliaria come il Comitato economico e sociale ed il Comitato delle Regioni), incontriamo, dunque, in primo luogo il Parlamento europeo.

Esso conta oggi su 785 parlamentari, che dovrebbero scendere a 736 a partire dalla legislatura 2009-2014. Il Trattato di Lisbona in particolare stipula che “i membri del Parlamento europeo sono eletti a suffragio universale diretto, con uno scrutinio libero e segreto”, e che esso “è composto di rappresentanti dei cittadini dell’Unione”. È stata rilevata la portata non solo formale, ma anche sostanziale di tali disposizioni, poiché esse individuano nel Parlamento la colonna portante della democrazia rappresentativa europea, che simboleggia anche il principio base del funzionamento dell’Unione.

La partecipazione del Parlamento europeo ai procedimenti decisionali comunitari è gradualmente aumentata nel tempo e a Lisbona si è preso atto che il Parlamento europeo esercita, congiuntamente al Consiglio, la funzione legislativa, nonché le funzioni di bilancio, di controllo politico e consultive.

 

6.5. Il Consiglio europeo, inizialmente concepito in via di fatto come la “testa politica”, ha progressivamente trovato collocazione del Trattati fino ad essere ricompreso a Lisbona tra le Istituzioni. Il Consiglio vi risulta composto dai capi di Stato o di Governo degli Stati membri, dal suo Presidente e dal Presidente della Commissione, nonché dalla nuova figura dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (ex Ministro degli Affari esteri dell’Unione nella Costituzione europea). Vi si precisa altresì come il Consiglio europeo debba deliberare “per consenso”, ma non escludendosi la possibilità di votare anche a maggioranza qualificata. Quanto alle attribuzioni, esse possono sinteticamente ascriversi alla funzione di indirizzo politico, per sua natura difficile da formalizzare in contenuti e procedure. Del resto, l’organo possiede di fatto un potere decisionale su qualsiasi materia di cui venga ad essere eventualmente investito dal Consiglio dei ministri.

Attualmente la presidenza del Consiglio europeo spetta a ciascuno Stato membro per la durata di un semestre. In base a quanto indicato dal Trattato sull’Unione europea come riformato a Lisbona, vi sarà invece l’elezione da parte del Consiglio europeo a maggioranza qualificata del proprio Presidente, per una durata di due anni e mezzo, rinnovabile una sola volta, come per la carica di Presidente del Parlamento europeo e pari alla metà di quella del Presidente della Commissione.

 

6.6. Il Consiglio dei Ministri, o più semplicemente Consiglio sulla base dei Trattati emendati a Lisbona, risulta composto da un rappresentante nominato da ciascuno Stato membro a livello ministeriale per ogni formazione del Consiglio stesso. Tra queste formazioni, un particolare interesse presenta il Consiglio legislativo e degli Affari generali, che in prospettiva avrà il compito di dare coerenza ai lavori delle diverse formazioni del Consiglio dei ministri, mantenendo però l’esercizio delle due distinte funzioni. In particolare, in qualità di Consiglio legislativo condividerà con il Parlamento europeo la funzione legislativa dell’Unione.

Accanto a tale funzione, che si manifesta nell’approvazione di direttive e regolamenti, ossia le principali fonti del diritto comunitario derivato, troviamo anche la possibilità di esercizio diretto di funzioni esecutive, e soprattutto di funzioni di indirizzo politico e di coordinamento.

A parte i settori in cui l’unanimità resta la regola (come la politica estera e la sicurezza comune, la politica di cooperazione giudiziaria e di polizia, nonché la politica relativa al fisco e alla cultura), il Consiglio delibera a maggioranza qualificata secondo il criterio della ponderazione dei voti, per cui ad ogni Stato membro è attribuito un certo numero di voti in ragione della sua consistenza demografica, e da un meccanismo di perequazione, che permette un equilibrio tra Paesi con ampia popolazione e quelli con popolazione più ridotta. Il Trattato costituzionale ha però palesato l’intento di abbandonare il sistema di ponderazione dei voti, adottando il meccanismo della doppia maggioranza, secondo il quale l’adozione delle decisioni, sia da parte del Consiglio europeo, sia da parte del Consiglio dei ministri, deve avvenire attraverso la deliberazione da parte della maggioranza degli Stati membri, rappresentanti almeno i 3/5 della popolazione dell’Unione. Il nuovo Trattato sull’Unione europea ha confermato tale intendimento, indicando come maggioranza qualificata almeno il 55% dei membri del Consiglio, con un minimo di quindici, rappresentanti Stati membri che totalizzino almeno il 65% della popolazione dell’Unione. Il Trattato di Lisbona ha tuttavia alcuni meccanismi, di cui evitiamo in questa sede di dare conto, destinati a stemperare nel tempo l’impatto del principio della doppia maggioranza.

Di sicuro rilievo è finalmente la tendenza del Consiglio a trasformarsi progressivamente in una “Camera degli Stati”, sede di rappresentanza degli interessi nazionali, condividendo il potere legislativo, relativamente a determinate materie, con il Parlamento europeo, luogo di rappresentanza degli interessi dei cittadini europei, in un sistema legislativo bicamerale.

 

6.7. Non si ha purtroppo qui modo di entrare più nel dettaglio del processo decisionale comunitario, che specie per l’adozione di atti normativi, conosce una varietà di procedure. Infatti, se per la consultazione o per il parere conforme la funzione normativa è esercitata precipuamente dal Consiglio, lo stesso non vale nella procedura di codecisione, ove si registra anche l’intervento del Parlamento europeo, posto ormai su un piano di perfetta parità. Inoltre, in casi rari, si può rilevare come la “funzione legislativa” sia esercitata anche dalla Commissione, che generalmente è invece tenuta all’esercizio di funzioni propriamente esecutive e d’impulso).

 

6.8. La Commissione europea costituisce, si può dire, il cuore pulsante del sistema comunitario, svolgendo tradizionalmente – come è stato esattamente osservato – un ruolo di “collante dinamico”, “in grado di elaborare e successivamente rilanciare gli impulsi provenienti dagli Stati membri, riuscendo a comporre gli interessi particolaristici nel quadro dell’interesse generale della collettività degli Stati stessi”.

La Commissione esercita una nutrita serie di poteri, così classificabili: poteri di iniziativa, soprattutto per la produzione degli atti normativi comunitari; poteri di esecuzione, assicurando la corretta attuazione della normazione comunitaria e delle previsioni di bilancio; poteri di controllo, al fine di garantire il rispetto da parte sia dei soggetti privati, sia degli Stati, degli obblighi assunti con l’adesione alla Comunità; poteri sanzionatori, e poteri di rappresentanza esterna, limitatamente al primo pilastro, cioè quello comunitario.

Il procedimento di formazione della Commissione vede nel Trattato di Lisbona come protagonista il Parlamento europeo, cui spetterà l’elezione del Presidente della Commissione sulla base di una proposta del Consiglio europeo deliberata a maggioranza qualificata e non più all’unanimità. La proposta dovrà tenere conto dei risultati dell’elezione del Parlamento europeo (attualmente sono i Governi degli Stati membri a designare di comune accordo la persona che dovrà rivestire la carica di Presidente della Commissione, anche se successivamente il Parlamento europeo ha il potere di approvare tale nomina).

La scelta dei commissari avverrà da parte del Consiglio di comune accordo con il Presidente della Commissione eletto all’interno di una terna di candidati predisposta da ciascuno Stato membro e compilata rispettando la rappresentanza di genere e il criterio d’idoneità ad esercitare le funzioni di commissario europeo. Seguirà un voto di approvazione finale, da intendersi quale voto di fiducia, da parte del Parlamento europeo sull’intera Commissione e la nomina della medesima da parte del Consiglio europeo, che delibera a maggioranza qualificata.

Resta attribuita al Parlamento europeo il potere di adottare una mozione di censura nei confronti della Commissione, secondo modalità ricalcanti lo schema attualmente adottato, per cui se tale mozione è approvata a maggioranza dei due terzi dei voti espressi e a maggioranza dei membri che compongono il Parlamento europeo, i membri della Commissione sono obbligati a dimettersi.

 

6.9. La Banca centrale europea ha il compito di dare attuazione alla politica monetaria europea definita dal Sistema europeo delle banche centrali. Tra le principali attribuzione della Banca centrale europea, volte ad assicurare la piena operatività dell’unione economica e monetaria, viene in rilievo il diritto esclusivo di autorizzare l’emissione di banconote all’interno della Comunità. La Banca centrale dispone inoltre di un potere d’iniziativa per gli atti comunitari che investono il settore economico e monetario e per garantire l’esplicazione delle proprie funzioni è fornita anche di autonomo potere normativo. La BCE viene, inoltre, consultata non solo in merito alla proposta di adozione di atti comunitari che investono i settori di sua competenza, ma anche nell’ambito della procedura di revisione dei trattati qualora siano oggetto di riforma le disposizioni istituzionali nel settore monetario.

La Banca centrale europea è governata da un Consiglio direttivo composto dai membri del Comitato esecutivo e dai Governatori delle Banche centrali partecipanti alla terza fase dell’unione monetaria. Il Comitato esecutivo è composto, a sua volta, dal Presidente, dal Vicepresidente e da altri quattro membri, scelti tra persone di riconosciuta levatura ed esperienza professionale nel settore monetario e bancario e nominati per un periodo di otto anni di comune accordo dai Governi nazionali, su raccomandazione del Consiglio e previa consultazione del Parlamento europeo e del Consiglio direttivo della BCE. Accanto a questi opera un Consiglio generale formato dal Presidente e dal Vicepresidente della BCE e dai Governatori delle Banche centrali nazionali, compresi quelli dei Paesi che non hanno ancora manifestato l’intento di aderire all’unione monetaria o non si trovano nella possibilità di rispettare i parametri di accesso (tra le sue attribuzioni rileva quella della fissazione dei tassi di cambio delle monete degli Stati membri e la facoltà di assistere la BCE nelle sue attività di consulenza).

 

6.10. La Corte dei conti esercita all’interno dell’ordinamento comunitario il controllo finanziario. Essa è formata da un giudice per ogni Stato membro, individuato tra le personalità che hanno partecipato o partecipano, nei rispettivi Paesi, a organi di controllo esterno o che possiedano specifiche competenze nel settore di riferimento. Le funzioni esercitate dalla Corte dei conti, che possono essere sinteticamente classificate in funzioni di controllo e funzioni consultive, non divergono grandemente da quelle esercitare dagli organi consimili all’interno degli Stati.

 

6.11. La Corte di giustizia è composta di un giudice per ogni Stato membro. Questa regola dà oggi come risultato un numero di 27 giudici. La nomina a giudice della Corte, che deve essere effettuata di comune accordo dai Governi degli Stati membri, trova già pertanto in partenza il vincolo della distribuzione tra gli Stati, anche se ciò non significa, almeno in teoria, che il designando debba possederne la cittadinanza, così come in generale non è previsto che egli debba appartenere ad uno qualunque degli Stati membri.

Si richiedono invece per l’alto ufficio precise caratteristiche personali sia sotto il profilo dell’indipendenza, sia sotto quello della competenza.

I giudici della Corte di giustizia sono guarentigiati, oltre che dai privilegi e dalle immunità previsti per i funzionari e gli agenti della Comunità, dalla speciale prerogativa dell’immunità giurisdizionale, che si protrae, per quanto concerne gli atti da loro compiuti in veste ufficiale, comprese le loro parole e i loro scritti, anche oltre la cessazione dalle funzioni.

Componente non meno essenziale del meccanismo giustiziale comunitario sono gli Avvocati generali, che non fanno parte della Corte, ma debbono assisterla, presentando pubblicamente, con assoluta imparzialità e in piena indipendenza, le loro conclusioni motivate. Degli attuali otto avvocati generali quattro appartengono in permanenza ai grandi Stati membri (Germania, Francia, Italia, Regno Unito), gli altri quattro sono nominati a rotazione dagli altri Stati.

Accanto alla Corte, operano sia il Tribunale di primo grado, sia il Tribunale della funzione pubblica: il primo presentandosi come l’organo giurisdizionale a competenza generale, così la Corte di giustizia ed il Tribunale della funzione pubblica finiscono per configurarsi come giudici specializzati ratione materiae e personarum.

Le decisioni del Tribunale di primo grado sono impugnabili davanti alla Corte di giustizia per i soli motivi di diritto, ed eccezionalmente e per iniziativa del Primo Avvocato generale possono essere oggetto di riesame davanti alla stessa.

Davanti alle Corti comunitarie è attivabile un fascio di procedure, che non è qui dato di descrivere nel dettaglio, a garanzia della legalità degli atti e talvolta dei comportamenti comunitari.

Un cenno va però fatto alla procedura pregiudiziale, che può essere attivata in via incidentale dai giudici degli Stati membri a “salvaguardia dell’indole comunitaria del diritto istituito dal trattato ed ha lo scopo di garantire in ogni caso a questo diritto la stessa efficacia in tutti gli Stati della comunità; [esso] mira anzitutto ad evitare divergenze nell’interpretazione del diritto comunitario che i tribunali nazionali devono applicare, ma anche a garantire tale applicazione”, sicché resta possibile operare la fondamentale distinzione tra rinvio pregiudiziale d’interpretazione e rinvio pregiudiziale di validità.

Le sentenze emesse in esito al rinvio pregiudiziale d’interpretazione chiariscono dunque il senso e la portata di una norma di diritto comunitario, con effetti vincolanti e diretti per il giudice richiedente, che deve darvi applicazione, non applicando invece le norme nazionali eventualmente in contrasto con l’interpretazione fornita in sede comunitaria.

In via generale è dunque alla Corte di giustizia che si sono dovute decisive spinte espansive sulla strada dell’integrazione europea e della tutela dei diritti individuali, tanto da aver indotto un sostanziale mutamento di natura nell’organizzazione comunitaria, trascorrendosi, come si suole efficacemente rilevare, dai “diritti del mercato” ai “diritti nel mercato”. Ruolo che non potrà che essere potenziato dall’elevazione della Carta di Nizza a diritto originario dell’Unione e alimentato dal rapporto dialettico con la Corte europea dei diritti dell’uomo allorché verrà attuata l’adesione dell’Unione come tale alla Convenzione di Roma, la quale peraltro ha già da tempo costituito il vettore, insieme alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, della protezione accordata dalla Corte di giustizia ai diritti dei cittadini comunitari.

 

6.12. Un cenno va in ultimo riservato al fattore di sovranazionalità a cui la Corte di giustizia ha forse offerto i più cospicui contributi, ossia il sistema delle fonti comunitarie e, tra queste, in particolare regolamenti.

Se pure, com’è noto, accanto ai regolamenti il Trattato CE enumera (nell’art. 249) altre fonti di diritto derivato come le direttive, le decisioni e le raccomandazioni, è solo ai regolamenti che sono infatti attribuiti quei caratteri di applicabilità diretta in ciascuno degli Stati membri, che sono propri del carattere sovranazionale dell’organizzazione da cui promanano.

In questo senso, a differenza delle direttive, che pure ne condividono la struttura normativa analoga alle fonti del diritto nazionale, i regolamenti non esigono ed anzi ricusano, se così si può dire, l’intervento di qualche fonte interna come condizione della loro applicazione negli ordinamenti degli Stati membri (anche se possono comunque necessitare norme nazionali di esecuzione in senso stretto).

La direttiva invece vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi. Si tratta, dunque, come è stato osservato, “di una fonte di scopo, per natura portatrice di norme di principio e, perciò, bisognosa di ulteriore svolgimento in ambito interno al fine di poter essere applicata”. Da questo punto di vista non si nota una differenza apprezzabile rispetto agli altri tipi di direttive che, come s’ è potuto osservare, promanano da altre organizzazioni europee.

A meno che non si sia in presenza di una direttiva c.d. autoapplicativa: ciò si verifica quando le sue norme, a motivo del dettaglio che le caratterizza, non richiedono alcun ulteriore svolgimento, e sia decorso inutilmente il termine assegnato allo Stato membro di darvi attuazione. In quest’ultimo caso, poi, di fronte allo stato inadempiente, la direttiva in generale esprime un’efficacia, che è stata definita in senso restrittivo “verticale”, nel senso di riconoscere a tutti gli interessati la possibilità di far valere la responsabilità dello Stato per i danni subiti in dipendenza della mancata attuazione.

La medesima efficacia diretta dei regolamenti va poi ancora riconosciuta alle statuizioni giurisdizionali della Corte di giustizia “al pari delle norme comunitarie direttamente applicabili cui ineriscono”.

 

7. Le organizzazioni europee come ponte tra vecchio e nuovo costituzionalismo in Europa. – La vicenda sin qui riassunta si presta sicuramente ad una pluralità di letture sotto l’aspetto politico, economico, sociologico e giuridico. Non si possiedono qui le competenze necessarie per addentrarci in questa variegata analisi, ma dal punto del giurista e più precisamente del costituzionalista per il quale la fisionomia dello Stato resta centrale nella sua riflessione, crediamo possibile individuare già nella situazione immediatamente successiva alla seconda guerra mondiale le premesse della crisi della configurazione dello Stato, così come la modellistica della storia costituzionale europea ce lo ha proposto almeno a partire da Westfalia transitando per le varie esperienze dello Stato nazionale (dall’assolutismo allo Stato-provvidenza del XX secolo).

 

7.1. Questo processo conosce due principali fasi separate tra loro dalla fine della c.d. guerra fredda nel passaggio tra gli anni ’80 e ’90, per cui nella prima fase la tendenza alla regionalizzazione ossia allo stabilimento di accordi di cooperazione più o meno intensi tra Stati nazionali contigui in aree più o meno vaste, ma delimitate, del mondo, si verifica in maniera più graduale: essa deve tenere conto sotto il profilo sia politico, sia economico della presenza di due grandi Potenze mondiali, nonché di organizzazioni universaliste come l’ONU e il GATT. Nella seconda fase, il fenomeno sembra invece svilupparsi con minori condizionamenti nel tentativo di far fronte al globalismo economico espresso dai grandi movimenti finanziari, dalle delocalizzazioni industriali e dalle concentrazioni imprenditoriali, che tendono a sottrarre spazi di tradizionale sovranità agli Stati. Basti pensare alle conseguenze in termini di mercato del lavoro o di bilancia commerciale delle iniziative che gruppi multinazionali possono adottare nel disinvestire o nel de localizzare attività economiche.

Di fonte alla globalizzazione, lo Stato tradizionale tende, dunque, a perdere incisività, mentre ul suo ruolo di supremo regolatore deperisce di fronte ai nuovi soggetti mondiali e transnazionali che lo condizionano ed in certa misura riescono ad emarginarlo.

Il fiorire di organizzazioni regionali un po’ dappertutto nel mondo risponde quindi all’esigenza di dar vita a nuovi spazi politico-economici che non corrispondono più al formato statale. Solo aggregazioni più vaste appaiono in grado di pesare sul piano internazionale e di prendere parte attiva agli scambi, reagendo all’incapacità della maggior parte degli Stati ad agire in perfetta solitudine a livello mondiale.

Così, se in Asia troviamo l’ASEAN (Association of South-East Asian Nations), che dal 1967 si ripropone di promuovere la cooperazione e l’assistenza reciproca fra gli Stati membri (Brunei Cambogia, Indonesia, Laos, Malesia, Myanmar, Filippine, Singapore, Tailandia e Vietnam), nell’America latina il MERCOSUR, di cui fanno parte, tra gli altri, il Brasile, si presenta capace di intrattenere rapporti dirette mante con l’Unione europea senza dover per forza subire l’egemonia statunitense. Dal canto suo, l’Unione europea è divenuta gradualmente una reale potenza economica e tende a proporsi in un modo multipolare come un fattore di equilibrio, anche se, a tale scopo, è necessario che essa allestisca davvero una politica estera comune e diventi credibile sul piano politico così come lo è su quello economico.

Comunque sia, sembra innegabile come la cooperazione tra Stati sovrani sia vieppiù percepita come la più vantaggiosa sotto il profilo economico, accrescendo anche la sicurezza dei paesi partecipanti all’accordo di integrazione. È stato esattamente notato sia come i regionalismi contribuiscano a superare, attraverso la collaborazione nelle materie economica e commerciale, i conflitti esistenti e/o potenziali tra i membri dell’accordo, citandosi al proposito gli esempi dell’Unione europea, ma anche del MERCOSUR; sia la tendenza a delegare agli organismi regionali, da parte della comunità internazionale funzioni di intermediazione diplomatica e di peace keeping, come nel caso della missione Eulex dell’Unione europea in Kosovo, che ha come obiettivo l’assistenza alle giovani istituzioni democratiche, alle autorità giudiziarie ed agli organi di sicurezza, per rafforzarne la sostenibilità e l’autonomia ed assicurare, nel contempo, l’applicazione degli standard internazionali di buon governo. Come, anzi, ha dichiarato Holly Cartner, direttrice per l’Europa e l’Asia Centrale della organizzazione non governativa internazionale Human Rights Watch: “La mancanza di controlli sull’operato delle Nazioni Unite in Kosovo ha macchiato la reputazione dell’ONU ed eroso la sua legittimità. L’Unione Europea dovrebbe imparare da questi errori e permettere uno vero scrutinio del proprio operato in tema di diritti umani fin dal primo giorno”.

 

7.2. Quest’ultima notazione ci permette di avviarci alla conclusione, richiamando l’attenzione su ulteriori ruoli che le organizzazioni di Stati in Europa hanno assunto, dapprima, dopo la fine del secondo conflitto bellico e,più recentemente, a seguito dell’acquisizione dell’indipendenza politica da parte di vecchi e nuovi Stati gravitanti nell’ex-blocco comunista.

Per il primo aspetto, credo che non sia da sottovalutare il ruolo di conciliazione svolto dalle organizzazioni in questione a fronte delle fratture spesso profonde tra i vari Paesi europei sul fronte ideale, politico-giuridico, economico-sociale. Si pensi, oltre ovviamente ai fattori scatenanti e agli esiti della guerra mondiale, al fronteggiamento tra Est e Ovest durato fino a tempi non lontani, ma anche  al ritorno alla democrazia di taluni Paesi dell’Europa occidentale. Innegabilmente la cooperazione e la reciproca conoscenza che nelle organizzazioni europee si è attuato e va attuandosi contribuisce in maniera decisiva a mettere da parte gli elementi (anche storici) di contrasto e a rileggere certa storia passata come un insegnamento ineguagliabile per l’avvenire degli Stati nella comune “casa europea”.

Circa il secondo aspetto, in certo modo non disgiunto dal primo, mi riferisco a quella sorta di patronato svolto sia nella scrittura delle nuove Costituzioni, sia per altri aspetti ordina mentali, particolarmente dal Consiglio d’Europa, dall’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) e dalla stessa Unione europea.

Si tratta – è bene sottolinearlo – solo di esempi, perché altri se ne potrebbero citare, scelti però – ci pare – tra i più significativi, idonei ad illustrare il succitato ruolo che si potrebbe definire di traghettamento o di ponte tra tali Stati e il costituzionalismo occidentale e i suoi principi quali lo Stato di diritto, la separazione dei poteri e la tutela dei diritti umani.

 

7.3. Il Consiglio d’Europa, come si è già ricordato, a partire dalla sua fondazione ho svolto un’incessante opera di monitoraggio sul tasso di democrazia degli Stati membri sulla base delle previsioni recate dalla Convenzione di Roma. Ma di grande rilievo è il ruolo che il Consiglio stesso ha svolto e svolge nei confronti di Stati candidati a diventarne membri.

Si possono qui citare due esempi molto distanti tra loro: il Principato di Monaco e la Repubblica di Albania, il primo gravitante da sempre nell’orbita del costituzionalismo occidentale, la seconda neofita della democrazia dopo la fine della dittatura comunista di Hoxha.

Le pressioni esercitate infatti dall’organizzazione europea sul piccolo Stato affacciato sul Mediterraneo in occasione della richiesta di quest’ultimo di entrarne a far parte hanno addirittura prodotto un’imponente revisione costituzionale nel 2002, che ha costituito la base per la democratizzazione del sistema elettorale, la promozione del ruolo dell’Assemblea parlamentare, l’estensione dei diritti e dell’eguaglianza tra i sessi, nonché per una revisione dei rapporti bilaterali con la Francia a favore di un maggior rispetto dell’indipendenza del Principato.

Per quanto riguarda l’Albania basti ricordare che, al momento dell’adesione al Consiglio d’Europa, essa si è obbligata a seguire i modelli democratici europei in materia sia di diritti umani, sia di garanzie dello Stato di diritto. La “Commissione per la democrazia attraverso il diritto” (c.d. Commissione di Venezia ), organo consultivo del Consiglio d'Europa istituito nel 1990, ha partecipato attivamente al processo di revisione costituzionale in Albania a partire dal 1991, giocando un ruolo decisivo anche nel corso degli anni successivi.

 

7.4. Abbiamo già osservato come l’OSCE si sia dato come obiettivo il mantenimento della pace e della sicurezza in Europa, da intendersi non solo come assenza di conflitti armati, ma anche come presupposto per la difesa dei diritti dell’uomo e per l’esistenza di strutture democratiche stabili all'interno di uno “Stato di diritto”.

La già citata Carta di Parigi del 21 novembre 1990 ha in particolare collocato le libere elezioni come “base immancabile” della democrazia: “Il governo democratico si basa sulla volontà del popolo, espressa regolarmente attraverso elezioni libere e corrette”. A tal fine è stato istituito  a Varsavia, il “Bureau des elections libres”, oggi meglio noto come Office for Democratic Institution and Human Right (ODIHR), vero e proprio “punto focale” di tutto quanto concerne la materia elettorale, ivi incluso il monitoraggio elettorale e l’assistenza tecnica (anche a fini di legislazione elettorale).

In questo quadro, l’OSCE ha collaborato con suggerimenti e rilievi di ordine tecnico al perfezionamento della legislazione elettorale di numerosi Paesi dell’ex blocco sovietico come l’Albania, l’Armenia, la Croazia, le Georgia, la Serbia e numerosi altri.

 

7.5. Si è già accennato, per quanto riguarda l’Unione europea, alla Carta dei diritti fondamentali proclamata a Nizza nel 2000. Qui, al di là dei pur importanti effetti sul piano istituzionale e giuridico di tale documento una volta che ne sarà consentita l’entrata in vigore, s’intende in conclusione sottolinearne anche le implicazioni sul piano politico-costituzionale a cominciare dall’attribuzione ad essa della funzione di “standard di salvaguardia” nei confronti di involuzioni interne all’Unione da parte sia dei singoli Stati membri, sia della Comunità nel suo complesso, vale a dire come cartina di tornasole della perdurante fedeltà di tutti questi soggetti al principio della tutela dei diritti.

Corrispondentemente, è stata messa in rilievo la funzione di test della Carta stessa nei confronti dell’idoneità di nuovi Stati ad entrare nell’Unione, soprattutto per quei Paesi, attualmente candidati, le cui tradizioni costituzionali appaiono, per certi versi, piuttosto distanti, se non incompatibili (si pensi solo al caso della Turchia, che peraltro, com’è noto, ha già messo in cantiere notevoli riforme, tra cui la sospensione dell’applicazione della pena di morte).

 

8. Bibliografia essenziale.

Nelle indicazioni bibliografiche, prevalentemente riferite alla dottrina italiana, si sono privilegiati, per quanto possibile, i riferimenti alle organizzazioni europee diverse dall’Unione Europea, in quanto per solito più difficilmente accessibili agli studiosi stranieri.

 

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Governance: teorie, principi, modelli, pratiche nell’era globale, a cura di A. Palumbo e S. Vaccaro, Milano, Mimesis, 2007

 



* Relazione al seminario di studi Italo-Brasileiro de Direito Constitucional (28 agosto-4 settembre 2008, Recife e Salvador di Bahia).