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ALBERTO MARIA BENEDETTI

 

LAVORO PRIVATO, LAVORO PUBBLICO E “ORDINAMENTO CIVILE”: QUALI SPAZI PER LE REGIONI?*

(nota a Corte costituzionale, sentenza 29 aprile 2010, n. 151)

 

1. La Valle d’Aosta – con la legge n. 5/2009 – ha disciplinato il controllo in ordine alla sussistenza delle malattie che giustificano l’assenza dei propri dipendenti, disponendo che i controlli siano obbligatori se l’assenza è continuativa per almeno dieci giorni (art. 2, comma 1), identificando le fasce orarie per lo svolgimento delle visite di controllo (art. 2, comma 2), rinviando al contratto collettivo regionale la determinazione dell’ammontare della riduzione del trattamento economico nei primi cinque giorni di assenza per malattia (art. 2, comma 3).

Il Governo svolge nei confronti di queste disposizioni della legge regionale valdostana alcune contestazioni così sintetizzabili: da una parte, la disciplina del rapporto di lavoro tra amministrazione pubblica regionale e dipendente si colloca nell’ambito della materia “ordinamento civile”, riservata allo Stato dall’art. 117, comma 2, lett. l) cost.; in ogni caso, non si può ammettere che le singole Regioni regolino autonomamente i rapporti di lavoro dei propri dipendenti, perché questo spezzerebbe quell’uniformità delle regole cui non si può rinunziare nell’ambito dei rapporti di lavoro e che è garantita da un unico diritto su tutto il territorio nazionale.

Per identiche ragioni, l’art. 3 della legge valdostana appare incostituzionale, nella misura in cui dispone che il personale della Regione possa chiedere di essere esonerato dal servizio nel corso del triennio antecedente la data di maturazione dell’anzianità contributiva, in luogo dei cinque anni richiesti invece dalla normativa nazionale.

Un’illegittimità per così dire aggravata dal fatto che queste disposizioni sono sostanzialmente difformi dalla corrispondente disciplina statale che, con norme anche recenti, ha provveduto a disciplinare i medesimi aspetti regolati dalla legge della Valle d’Aosta.

La Regione si difende negando, da una parte, che la normativa impugnata appartenga all’area dell’ordinamento civile ed affermando, dall’altra, che detta disciplina è conforme o compatibile con quella statuale.

 

2. La Corte accoglie il ricorso del Governo, con una motivazione così articolata: la disposizione che disciplina il controllo sulle malattie dei propri dipendenti appartiene al più generale potere che l’ordinamento riconosce in capo al datore di lavoro sicché “trattandosi di uno dei poteri che l’ordinamento attribuisce ad una delle parti di un rapporto contrattuale (…) la relativa disciplina deve essere uniforme su tutto il territorio nazionale, ed imporsi anche alle Regioni a statuto speciale (…)”. Questa preclusione è indipendente dal contenuto della normativa statale in materia; le Regioni, su questi temi, non hanno comunque titolo per legiferare.

Anche la disciplina relativa agli emolumenti che il lavoratore ha diritto di percepire durante il periodo di malattia “trova la sua unica causa nel rapporto contrattuale che lo lega al datore di lavoro”: ed infine anche l’art. 3 della legge impugnata – che consente ai dipendenti regionali di chiedere l’esonero dal servizio nel triennio antecedente al raggiungimento dell’anzianità contributiva – è viziato perché incide “sui diritti e gli obblighi delle parti del rapporto di lavoro pubblico”, e, come tale, appartiene all’”ordinamento civile”. Tutte le disposizioni contestate, dunque, esulavano dall’ambito delle competenze legislative attribuite alla Valle d’Aosta, pur essendo quest’ultima una Regione a statuto speciale.

 

3. La questione sottesa alla decisione della Corte costituzionale è, sintetizzando un po’ brutalmente, la seguente: nell’”ordinamento civile”– che poi è il diritto privato ([1]), materia riservata allo Stato dall’art. 117, comma 2, lett. l) cost. – è contenuto tutto il diritto del lavoro [nel senso di: ogni possibile regola sul rapporto di lavoro, sia privato che pubblico], oppure no?

La risposta a questa domanda passa attraverso l’identificazione dei limiti entro i quali le Regioni hanno titolo per dettare norme di rango legislativo che, direttamente o indirettamente, abbiano ad oggetto il mondo del lavoro e le sue regole, sia per quel che attiene al lavoro privato che per ciò che concerne quello pubblico (anche se i due settori, come si dirà nel seguito, meritano di essere trattate distintamente).

Occorre muovere da una premessa: il diritto del lavoro ha costruito la sua evoluzione e la sua autonomia sulla progressiva ma costante fuoriuscita da regole, principi e schemi propri del diritto privato([2]); ma l’ “ordinamento civile” può avere la forza di restituire al diritto privato quella sua storica, originaria forza attrattiva su tutto ciò che non è diritto pubblico. Riappropriandosi, almeno ai fini della ripartizione delle competenze, di territori che un tempo indiscutibilmente appartenevano ad esso.

Ed allora la formula costituzionale – per molti versi ambigua, e, comunque, difficilmente traducibile in significati generalmente accettati([3]) – può guadagnare un senso insperato, se si guarda, appunto, alla potenziale ampiezza racchiusa nel sostantivo “ordinamento”: il diritto del lavoro, per ciò che attiene alla ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni, sembra perdere la sua autonomia, conquistata non senza fatiche e con processi storici lenti e laboriosi([4]), per tornare ad essere considerato come una “costola” del diritto privato([5]).

Ma il quadro non è così nitido, e qualche complicazione nasce a causa della previsione, nel nuovo Titolo V della Costituzione, di una competenza concorrente dai contenuti inafferrabili – quella identificata come “tutela e sicurezza del lavoro” (art. 117, comma 3, cost.) - e che finisce con lo scontrarsi, inevitabilmente, con l’ ”ordinamento civile”, avendone generalmente la peggio. Oltretutto, anche in altri settori le Regioni detengono competenze concorrenti od esclusive con possibili ricadute giuslavoristiche: istruzione, professioni, formazione, previdenza integrativa, tutti ambiti che possono indurre le Regioni a qualche incursione anche sul versante del diritto del lavoro.

Per tracciare un possibile confine, si è tentata una semplificazione articolata sul binomio contratto/mercato (del lavoro)([6]): il primo integralmente rimesso alla disciplina statale; il secondo parzialmente affidato anche a quella di fonte regionale, pur dentro un quadro di limiti molto stringenti. O, ancora, si è provato ad identificare la materia concorrente con un non meglio precisato diritto amministrativo del lavoro([7]).

Ma il punto è che, a leggere le decisioni dei giudici costituzionali, pare che il “contratto” attiri a sé qualunque disciplina che, in qualche modo, sia destinata a regolare il settore del lavoro, fino a nullificare, di fatto, quella pur limitata competenza concorrente che la Costituzione, in quest’ambito, riconosce alle Regioni: vuoi perché, qui, l’eguaglianza svolge un ruolo assolutamente dominante, che sembra rendere sostanzialmente impossibile ogni differenziazione regionale; vuoi perché non è sempre facile né possibile discernere la regola sul contratto da quella sul mercato (del lavoro), in un settore nel quale si registrano tassi molto elevati di complessità.

 

4. La giurisprudenza costituzionale può essere evocata a conferma del quadro appena tracciato.

Una prima significativa decisione è stata pronunziata sulle questioni di costituzionalità che diverse Regioni hanno sollevato contro la legge Biagi sulla riforma del mercato del lavoro, muovendo dal riparto di competenze delineato dall’art. 117 Cost., nuova versione.

L’argomentazione che la Consulta ([8]) usa per rigettare tutte o quasi le doglianze regionali è grosso modo la seguente: ogni norma che tocca il contratto – anche quello di lavoro subordinato nelle sue complesse varianti – appartiene all’ ”ordinamento civile”, e permane nell’esclusiva potestà del legislatore statale. E la legge Biagi, o gran parte di essa, è appunto composta da disposizioni che sono ampiamente coperte dalla competenza statale esclusiva sull’ordinamento civile.

Nel contesto del lavoro subordinato e delle sue regole, dunque, alle Regioni potrà riconoscersi una (molto limitata e secondaria) potestà normativa concorrente, ma (solo) per tutto ciò che non attiene né direttamente né indirettamente all’area del “contratto”.

Quell’indirettamente, tuttavia, è davvero molto ampio.

In un caso di poco successivo, la Corte costituzionale([9]) ritiene conforme a Costituzione escludere le Regioni dalla legislazione (solo statale) in materia di emersione del lavoro sommerso, sulla base di considerazioni che non appaiono totalmente appaganti ed, anzi, sembrano un po’ artificiose.

La legge sull’emersione del lavoro irregolare, constatano i giudici, possiede contenuti (per lo più) riconducibili all’ ”ordinamento civile”, e per conseguenza appartiene all’area dell’esclusiva competenza statuale.

La motivazione di quella decisione dà l’impressione che il giudizio di prevalenza sia stato formulato con una certa approssimazione, quasi che il collegio volesse “cercare” solo quelle norme utili a sostenere il dispositivo finale, ignorando, invece, quelle che potevano apparire incoerenti rispetto all’idea che i giudici s’erano fatta (quella secondo la quale la legge andava salvata siccome appartenente all’area dell’esclusiva competenza statale).

La Corte valorizza – quale elemento che la orienta a collocare (tutta) la legge nell’ambito dell’”ordinamento civile” - il fatto che molte delle disposizioni contestate dalle Regioni si collocano sul versante contrattuale (autonomia negoziale, sanatoria ed integrazione dei contratti originariamente irregolari etc.), e, dunque: per un verso appartengono naturalmente al diritto privato, e, per altro verso, sono totalmente estranee alla “tutela e sicurezza del lavoro”, quale materia oggetto di potestà normativa concorrente. Ma forse vede norme sul “contratto” anche laddove forse non ci sono: non solo, infatti, l’”ordinamento civile” viene a coprire – e questo non scandalizza - la disciplina intersoggettiva dei rapporti di lavoro (ad es: tipi, contenuti, forme, dei relativi contratti), ma finisce col coprire – e questo forse crea qualche dubbio in più - regole e criteri attraverso i quali si intende fare emergere il lavoro sommerso, regolarizzandolo (anche ma non solo) dal punto di vista contrattuale.

D’altra parte, la stessa dottrina giuslavoristica non nega che – nel titolo di competenza concorrente “tutela e sicurezza del lavoro” - le Regioni possano legiferare su taluni aspetti che sfuggono a quell’esigenza di eguaglianza, anche costituzionale, che ha ispirato il diritto del lavoro fin dalla sua “uscita” dal diritto privato: previdenza integrativa, il collocamento, le politiche sull’occupazione, o, in generale, tutto quanto può ragionevolmente essere oggetto di una disciplina territorialmente differenziata[10]. Forse, in quel caso, la Corte – se non avesse scelto un po’ frettolosamente di ripararsi sotto l’ampio ombrello dell’ ”ordinamento civile” – avrebbe potuto constatare senza troppi problemi come l’esclusione (totale) delle Regioni dalla definizione dei piani di emersione del lavoro sommerso poteva comportare, forse, una violazione di quel principio di “leale collaborazione” che dovrebbe ispirare la normazione di quei settori su cui Stato e Regioni hanno, entrambi, titoli di competenza legislativa([11]).

Nel lavoro privato, le Regioni sembrano quasi totalmente fuori dalla disciplina del settore; e se non v’è dubbio che il contratto di lavoro è fortemente permeato da esigenze di uniformità ed eguaglianza che ne giustificano la quasi integrale nazionalità, l’uso che la Corte costituzionale ha fatto dell’ordinamento civile [che, come si è scritto altrove[12], sembra dotato di una “forza fagocitratice” rispetto al diritto del lavoro] sembra azzerare o quasi quella competenza che pure l’art. 117 Cost. assegna (anche) alle Regioni, laddove identifica la materia “tutela e sicurezza del lavoro” e la colloca tra le materie ripartite in modo concorrente tra Stato e Regioni.

 

5. Qualche eccezione, nella giurisprudenza costituzionale, c’è stata, ma non ha avuto la forza di produrre nuovi orientamenti: in una norma della finanziaria 2004 lo Stato destinava fondi per incentivare la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, anche attraverso la costituzione di appositi organi dotati di poteri decisionali; una commistione tra elementi che attengono alla sola organizzazione delle relazioni industriali tra datori di lavoro e lavoratori (“tutela e sicurezza del lavoro”) ed elementi che, invece, incidono sulla struttura delle imprese e delle società (“ordinamento civile”[13]), tale da rendere illegittima la (totale) esclusione delle Regioni, con conseguente illegittimità della normativa impugnata.

In quel caso, l’impossibilità di ritenere “prevalente” uno dei due titoli di competenza coinvolti ha indotto la Corte([14]) a rimettere al legislatore il compito di individuare meccanismi e/o criteri tali da garantire un coinvolgimento anche delle Regioni in quel contesto, proprio perché le differenze territoriali – di cui la Regione è naturale portatrice- possono fornire utili elementi al migliore perseguimento dell’obiettivo di fondo perseguito dalla legge (quello di coinvolgere di più i lavoratori nella gestione delle imprese).

Esistono dunque zone del diritto del lavoro che nulla hanno (più) a che fare col diritto privato, e che non rispondono neppure a stringenti logiche di eguaglianza ed uniformità: al contrario, parti di esso possono dirsi esposte ad una differenziazione plasmata su esigenze e peculiarità regionali, che non offende l’eguaglianza, ma che, anzi, aiuta una migliore efficienza delle regole in settori – come quello della sicurezza ([15]), della formazione professionale ([16]), dell’emersione del lavoro sommerso, dell’organizzazione lavorativa dei pubblici uffici regionali([17]) – nei quali l’autonomia regionale può esplicarsi senza dare luogo a fratture irragionevoli, ma attuando, nel rispetto dei principi generali desumibili dal diritto statale, competenze concorrenti di cui le Regioni sono titolari. E nell’esercizio delle quali, peraltro, possono non mancare riflessi privatistici che non superano il limite costituzionale: la stessa Corte, d’altra parte, ha ammesso che non invade l’”ordinamento civile” una norma di una legge regionale che dispone la caducazione di un contratto di lavoro per il venire meno del provvedimento che conferiva all’interessato un incarico dirigenziale, perché così disponendo la norma regionale si è limitata “a rinviare al principio per cui gli effetti di un contratto cessano quando ne venga meno la causa”([18]). Anche in questo ambito, pure delicato, l’autonomia regionale necessita di soluzioni flessibili, più rispettose dell’assetto costituzionale, e scevre da pregiudizi: che distinguano il core egalitario del diritto del lavoro – appartenente allo Stato, e all’”ordinamento civile”([19]) – da quelle parti che, nel diritto del lavoro, possono senza traumi essere esposte anche a discipline regionali: fermo restando, comunque, il rispetto dei principi generali espressi dalle leggi statali [ma veri principi generali; non gabbie generalissime nelle quali, sostanzialmente, tutta la legislazione statale sia considerata “di principio”!([20])], e la determinazione riservata allo Stato dei “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” [art. 117, comma 2, lett. m) cost.], che, in questo settore, può giocare un ruolo di particolare rilievo.

 

5. Sul lavoro pubblico regionale, l’art. 117 Cost. non fornisce indicazioni certe, anche se, complessivamente, le Regioni sembrano godere, in quest’area, di qualche potere in più. La ragione è che, in questo settore, le Regioni possono vantare un forte titolo di competenza che coincide con la materia “ordinamento e organizzazione amministrativa delle Regioni e degli enti locali”; essa non compare più nel nuovo art. 117 Cost. e, dunque, dovrebbe ritenersi appartenente all’esclusiva e residuale competenza regionale [anche perché figura invece tra quelle di esclusiva competenza statuale sotto la veste di “ordinamento e dell’organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali”: art. 117, comma 2, lett. g)([21])].

Da ciò dovrebbe dedursi che una Regione può dettare regole sul lavoro pubblico regionale nella misura in cui dette regole hanno a che fare con la propria organizzazione amministrativa, dovendosi arrestare di fronte alla disciplina del rapporto contrattuale, rimessa alla competenza esclusiva dello Stato sull’ordinamento civile. Le norme (che possono qualificarsi come) organizzative ammettono la differenziazione; quelle del rapporto contrattuale di lavoro, invece, non la tollerano [perché l’eguaglianza, in questo diverso ambito, implica quell’uniformità garantita da sola dalla legislazione statale, identica su tutto il territorio nazionale].

Distinguere la norma (regionale) sull’organizzazione da quella (che ha anche riflessi) sul contratto (e sui suoi obblighi, contenuti, cause di risoluzione etc.) non è sempre facile tant’è che, anche in quest’ambito, la Consulta oscilla tra chiusure (più frequenti) ed aperture (più rare).

In una decisione del 2004 ([22]) – avente ad oggetto una disposizione dello Statuto della Calabria che rimette alla legislazione regionale la disciplina della contrattazione con i propri dirigenti – la Consulta salva la norma statutaria contestata, rilevando che essa manterrebbe la sua validità solo relativamente agli aspetti di quel rapporto di competenza regionale, e non oltre, salvo lasciare nel vago l’individuazione di questi ambiti aperti alla disciplina regionale. In altra occasione([23]), la Corte ha ammesso che la Regione possa disciplinare alcuni profili concernenti la responsabilità amministrativa dei propri dipendenti, nel senso di individuare gli obblighi dalla cui violazione essa derivi, ma non può disciplinarne il regime, che rimane di competenza del diritto nazionale.

Gli spazi sembrano ampliarsi sul versante del c.d. spoils-system: le Regioni possono disciplinarlo, perché la relativa normativa non sembra interferire con l’ordinamento civile ([24]): in una decisione già menzionata poco sopra, la Corte salva norme della Calabria e dell’Abruzzo perché le riconduce integralmente alla materia residuale d’esclusiva competenza regionale sull’organizzazione amministrativa della Regione, che reputa comprensiva dell’incidenza della stessa sulla disciplina del relativo personale. Ed ammette, come già ricordato sopra, che questa disciplina – nella misura in cui consente la revoca dei provvedimenti di nomina dei dirigenti - possa determinare il venire meno del contratto di lavoro, poiché si limita “a rinviare al principio per cui gli effetti di un contratto cessano quando ne venga meno la causa”. Le Regioni possono dunque regolare i provvedimenti amministrativi che servono a conferire incarichi legati all’organizzazione dell’ente (emissione, forma, revoca, condizioni), ma debbono rimettere gli effetti di questi provvedimenti sui singoli rapporti contrattuali di lavoro all’operare del diritto privato generale (e nazionale).

Se ne può trarre una conclusione finale, che la sentenza della Corte costituzionale sopra riportata sembra a pieno titolo confermare: tutto ciò che appartiene alla sfera “organizzativa” del proprio ente può rientrare nella competenza esclusiva regionale, con annessi possibili effetti privatistici indiretti (e, comunque, rigorosamente rimessi al diritto nazionale e alle sue regole); ma se, invece, una Regione intende disciplinare direttamente il contratto di lavoro dei propri dipendenti nei suoi aspetti tipicamente privatistici – o, comunque, legati ad una disciplina statale uniforme su tutto il territorio nazionale - rischia di invadere la competenza esclusiva dello Stato, producendo una normativa inevitabilmente destinata a non passare il vaglio di costituzionalità.

Di certezze, tuttavia, non ve ne sono molte: perché è inevitabile che disciplinando l’organizzazione del (proprio) lavoro pubblico una Regione si possa imbattere con estrema facilità in aspetti direttamente o indirettamente oggetto della disciplina privatistica, considerato che il lavoro presso le pubbliche amministrazioni, Regioni comprese, è stato investito da quella “privatizzazione” avviata negli anni novanta, che, in buona sostanza, ha comportato la generale estensione a questo settore delle medesime regole vigenti per i rapporti di lavoro privati.

Se, dunque, il diritto privato permea in modo così profondo anche il lavoro pubblico, le Regioni possono detenere su di esso spazi di regolazione molto esigui, se è vero, come si legge in una decisione della Consulta, che “i princípi fissati dalla legge statale in materia costituiscono tipici limiti di diritto privato, fondati sull’esigenza, connessa al precetto costituzionale di eguaglianza, di garantire l’uniformità nel territorio nazionale delle regole fondamentali di diritto che disciplinano i rapporti fra privati e, come tali, si impongono anche alle Regioni a statuto speciale”([25]).

La “privatizzazione” del lavoro pubblico funge quindi da principio generale della legislazione statale, cui le Regioni non sono in grado di apportare né deroghe né adattamenti.

Ne nasce un interrogativo: cosa resta, allora, di quella competenza esclusiva che pure è riconosciuta alle Regioni sulla disciplina della propria organizzazione? Forse qualcosa, ma davvero di poco significativo se si pensa che neppure le Regioni a statuto speciale possono sottrarsi all’operatività di questo principio, o apportarvi adattamenti, deroghe o modifiche, anche nei casi in cui i loro Statuti speciali offrano ulteriori titoli di competenza su questo settore ([26]).

La Valle d’Aosta, dunque, non poteva in nessun modo dettare regole che sotto qualunque forma incidessero sui diritti e sui doveri delle parti del rapporto di lavoro pubblico, che non possono essere oggetto di differenziazioni regionali[27] e che, anche dopo la riforma del Titolo V ([28]), debbono rimanere d’esclusiva pertinenza delle fonti statali.



* Per gentile concessione della Rivista Lavoro nelle pubbliche amministrazioni.

([1]) Sul problema del diritto privato regionale possono vedersi: benedetti, Il diritto privato delle Regioni, Bologna, Il Mulino, 2008, in particolare, per quanto attiene al diritto del lavoro di fonte regionale, 259 ss.; roppo, Diritto dei contratti, ordinamento civile, competenza legislativa delle Regioni. Un lavoro complicato per la Corte costituzionale, in CG, 2005, 1301; roppo, Diritto privato regionale?, in RDP, 2003, 11; alpa, Il limite del diritto privato alla potestà normativa regionale, in CI, 2002, 597; vitucci, Proprietà e obbligazioni: il catalogo delle fonti dall’Europa al diritto privato regionale, in EDP, 2002, 747; giova, Ordinamento civile e diritto privato regionale, Napoli, Esi, 2008. Tra i pubblicisti: lamarque, Regioni e ordinamento civile, Padova, Cedam, 2005. Tra i comparatisti barela, Diritto privato regionale, foral ed autonomico. Verso un diritto europeo della persona, Torino, Giappichelli, 2009 e torino (a cura di), Il diritto privato regionale in Spagna, Padova, Cedam, 2008.

([2]) Sull’evoluzione del diritto del lavoro verso la «autosufficienza» si può rinviare, per tutti, al recente contributo di del punta, Il diritto del lavoro fra due secoli: dal protocollo Giugni al Decreto Biagi, in ichino (a cura di), Il diritto del lavoro nell’Italia repubblicana, Milano, Giuffrè, 2008, 253 ss.

([3]) Il fatto che l’art. 117, comma 2, lett. l) cost. attribuisca il diritto privato alla competenza esclusiva dello Stato non significa che le Regioni siano totalmente escluse dal produrre norme aventi contenuti direttamente o indirettamente privatistici. Sul punto, in dottrina, si rinvia ad Benedetti , Il diritto privato delle Regioni, cit.; in giurisprudenza si è recentemente assistito da alcune significative aperture all’autonomia legislativa regionale sul versante del diritto privato: Corte cost., 4 dicembre 2009, n. 318 (con nota di Benedetti , Atti soggetti a trascrizione, parcheggi e potestà legislativa delle Regioni; una sintesi può trovarsi in Annuario del contratto 2009, 211-213) e Corte cost., 10 maggio 2010, n. 178 (che salva una legge veneta in materia di conciliazione non obbligatoria nell’ambito della sanità pubblica).

([4]) Sulla costruzione della «inderogabilità» come caratteristica genetica del diritto del lavoro vedasi voza, L’inderogabilità come attributo genetico del diritto del lavoro. Profili storici, in RGL, 2006, 229 ss.

([5]) Di (ri)cucitura del diritto del lavoro con l’ordinamento civile parla efficacemente nogler, La tutela del lavoro, in RE, 2007, 77.

([7]) Persiani, Devolution e diritto del lavoro, governo regionale e locale, in ADL, 2002, 19 ss.

([8]) Corte cost., 28 gennaio 2005, n. 50, in FI, 2006, 2, 365. Per un’analisi di dettaglio dei contenuti della decisione si rinvia a gianfrancesco, La ripartizione di competenze tra Stato e Regioni in materia di tutela e sicurezza del lavoro, in RE, 2005, 513, in partic. 525-526

([9]) Corte cost., 16 giugno 2005, n. 234, in RE, 2005, 1266, con nota di benedetti , «Ordinamento civile» e «tutela e sicurezza del lavoratore»: un (apparente) "scontro” tra materie?

[10] Aperturista sembra essere treu, Diritto del lavoro e federalismo, in aa.vv., L’ordinamento civile nel nuovo sistema delle fonti legislative, cit., 35 ss. Secondo di stasi, Il diritto del lavoro nelle Regioni a statuto ordinario, in ILLeJ, vol. VI, n. 2, 2004, https://www.labourlawjournal.it, ISSN 1561-8048, le Regioni possono dettare norme anche sul rapporto di lavoro, nel rispetto delle regole base dettate dalla legislazione nazionale (anche in relazione alla competenza statale sulla determinazione dei livelli minimi essenziali dei diritti civili e sociali).

([11]) Proprio il principio di “leale collaborazione” viene invocato per risolvere il nodo di una legislazione concorrente che non sembra poter decollare: in questa prospettiva, ma relativamente alla sicurezza sul lavoro, legata anche al diritto alla salute, vedasi tullini, Le competenze legislative in materia di sicurezza sul lavoro: i nodi irrisolti, in Le istituzioni del federalismo, suppl. 1.2009, 15 ss.

[12] benedetti , Il diritto privato delle Regioni, cit., 259.

([13]) Non mancano dubbi sulla riconducibilità al diritto privato di norme che incentivano solo la sperimentazione di nuove forme di collaborazione tra datori di lavoro e lavoratori nella gestione delle imprese (vedasi sul punto roppo, Diritto dei contratti, ordinamento civile, competenza legislativa delle Regioni. Un lavoro complicato per la Corte costituzionale, cit., 1312).

([15]) In materia di sicurezza sul lavoro natullo, Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, in RGL, 2007, 71 ss.; l’Autore, giustamente, riconosce alle Regioni un ruolo di integrazione dell’azione statale, sia sul piano normativo che su quello amministrativo e conclude: «Ciò implica (…) che in un’ottica di leale e proficua collaborazione con lo Stato e le amministrazioni centrali, a livello regionale si punti anzitutto, nella logica della sussidiarietà, a plasmare gli strumenti normativi e amministrativi statali per adattarli alle specifiche esigenze poste dalle differenziate caratteristiche dei territori e dei contesti economico-produttivi (…)», ivi, 72.

([16]) Sull’apprendistato e sulla formazione professionale si veda de salvia, La legislazione regionale sull’apprendistato professionalizzante ancora al vaglio della Corte costituzionale, in RGL, 2007, 388. La Consulta ammette, in questo settore, che le Regioni possano concorrere a determinare le regole della formazione c.d. «esterna», appartenendo invece quella «interna» all’area dell’«ordinamento civile»: per tutte Corte cost., 2 febbraio 2007, n. 21, in RGL, 2007, 383. Sugli spazi regionali in materia di formazione professionale si segnala malzani, Il lavoro nel Titolo V della Costituzione tra essere e dover essere, in DL, 2005, II, 59, in partic. 76 ss. Sull’apprendistato, una legge Regione Molise (n. 3/2008) reca una disciplina di dettaglio, comprendente anche aspetti relativi al contratti di apprendistato, che difficilmente potrebbe passare il vaglio della Corte costituzionale e che, effettivamente, contiene norme sul contratto di apprendistato che sembrano troppo sbilanciate verso l’ordinamento civile.

([17]) Su cui vedasi mastinu, Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni regionali nel Titolo V della Costituzione, in RGL, 2007, 371 ss.

([19]) Che, dunque, non può assorbire l’intero diritto del lavoro, come sosteneva subito dopo l’entrata in vigore del nuovo Titolo V: ballestrero, Differenze e principio di eguaglianza, in LD, 2001, 424 ss.

([20]) Da condividere l’approccio di treu, Diritto del lavoro e federalismo, in aa.vv., L’ordinamento civile nel nuovo sistema delle fonti legislative, cit., 58, ad avviso del quale i principi generali vanno individuati in quei «principi effettivamente irrinunciabili per l’unità dell’ordinamento statale, cioè essenzialmente a quelli di rilevanza costituzionale».

([21]) Sui problemi sollevati da questa materia può vedersi Lamarque, Regioni e ordinamento civile, cit., 312 ss.

([24]) Corte cost., 16 giugno 2006, n. 233, su cui vedasi la nota di Salomone, Spoils-System regionale e riparto di competenza: via libera dalla Consulta, in questa Rivista, 2006, 692 ss.

([26]) La Valle d’Aosta, per Statuto, ha competenza anche sul “regime giuridico” dei propri dipendenti (art. 2, lett. a).

([27]) Sulla “riforma Brunetta” del lavoro pubblico e sullo scarso ruolo in essa attribuito alle Regioni e agli enti locali si può vedere Salomone, Il lavoro pubblico regionale e locale nella “riforma Brunetta”, in questa Rivista, 2009, 1 ss.

([28]) La riforma mostra segni di crisi proprio con riferimento all’elenco delle “materie” di cui all’art. 117 Cost.: sul punto si possono vedere le interessanti ed acute riflessioni di Bin R., La legge regionale, tra “ri-materializzazione” delle materie, sussidiarietà e resurrezione dell’interesse nazionale, in Le istituzioni del federalismo, 2009, 3-4, 439 ss.