Sentenza n. 70 del 2023

SENTENZA N. 70

ANNO 2023

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Silvana SCIARRA

Giudici  Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 269, da 534 a 537 e 721, lettera a), della legge 30 dicembre 2021, n. 234 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2022 e bilancio pluriennale per il triennio 2022-2024), promosso dalla Regione Veneto con ricorso notificato il 28 febbraio 2022, depositato in cancelleria il 1° marzo 2022, iscritto al n. 18 del registro ricorsi 2022 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell’anno 2022.

Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 21 febbraio 2023 il Giudice relatore Angelo Buscema;

uditi gli avvocati Andrea Manzi e Giacomo Quarneti per la Regione Veneto e l’avvocato dello Stato Emanuele Feola per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 23 febbraio 2023.

Ritenuto in fatto

1.– Con ricorso notificato in data 28 febbraio 2022, la Regione Veneto ha impugnato l’art. 1, commi 269, 534, 535, 536, 537 e 721, della legge 30 dicembre 2021, n. 234 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2022 e bilancio pluriennale per il triennio 2022-2024), in riferimento, complessivamente, agli artt. 3, 32, 97, 117, commi terzo e quarto, 118, 119 e 120 della Costituzione.

1.1.– Più precisamente, l’art. 1, comma 269, della legge n. 234 del 2021 stabilisce che «[a]l comma 1 dell’articolo 11 del decreto-legge 30 aprile 2019, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 2019, n. 60, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al secondo periodo, le parole: “un importo pari al 5 per cento» sono sostituite dalle seguenti: “un importo pari al 10 per cento”;

b) al quarto periodo, le parole: “Per il medesimo triennio, qualora nella singola Regione emergano oggettivi” sono sostituite dalle seguenti: “Qualora nella singola Regione emergano, sulla base della metodologia di cui al sesto periodo, oggettivi”;

c) il sesto periodo è sostituito dai seguenti: “Dall’anno 2022 l’incremento di cui al quarto periodo è subordinato all’adozione di una metodologia per la determinazione del fabbisogno di personale degli enti del Servizio sanitario nazionale. Entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, il Ministro della salute, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, su proposta dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, nel rispetto del valore complessivo della spesa di personale del Servizio sanitario nazionale determinata ai sensi dei precedenti periodi, adotta con decreto la suddetta metodologia per la determinazione del fabbisogno di personale degli enti del Servizio sanitario nazionale, in coerenza con quanto stabilito dal regolamento di cui al decreto del Ministro della salute 2 aprile 2015, n. 70, e dall’articolo 1, comma 516, lettera c), della legge 30 dicembre 2018, n. 145, e con gli standard organizzativi, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza territoriale, anche ai fini di una graduale revisione della disciplina delle assunzioni di cui al presente articolo. Le regioni, sulla base della predetta metodologia, predispongono il piano dei fabbisogni triennali per il servizio sanitario regionale, che sono valutati e approvati dal tavolo di verifica degli adempimenti di cui all’articolo 12, comma 1, dell’intesa 23 marzo 2005, sancita dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, pubblicata nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 105 del 7 maggio 2005, congiuntamente al Comitato paritetico permanente per la verifica dell’erogazione dei livelli essenziali di assistenza (LEA) di cui all’articolo 9, comma 1, della medesima intesa, anche al fine di salvaguardare l’invarianza della spesa complessiva”».

Per effetto di questa modifica, l’art. 11, comma 1, del decreto-legge 30 aprile 2019, n. 35 (Misure emergenziali per il servizio sanitario della Regione Calabria e altre misure urgenti in materia sanitaria), convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 2019, n. 60, prevede che «[a] decorrere dal 2019, la spesa per il personale degli enti del Servizio sanitario nazionale delle regioni, nell’ambito del livello del finanziamento del fabbisogno sanitario nazionale standard cui concorre lo Stato e ferma restando la compatibilità finanziaria, sulla base degli indirizzi regionali e in coerenza con i piani triennali dei fabbisogni di personale, non può superare il valore della spesa sostenuta nell’anno 2018, come certificata dal Tavolo di verifica degli adempimenti di cui all’articolo 12 dell’Intesa 23 marzo 2005 sancita in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, o, se superiore, il valore della spesa prevista dall’articolo 2, comma 71, della legge 23 dicembre 2009, n. 191. I predetti valori sono incrementati annualmente, a livello regionale, di un importo pari al 10 per cento dell’incremento del Fondo sanitario regionale rispetto all’esercizio precedente. Nel triennio 2019-2021 la predetta percentuale è pari al 10 per cento per ciascun anno. Qualora nella singola Regione emergano, sulla base della metodologia di cui al sesto periodo, oggettivi ulteriori fabbisogni di personale rispetto alle facoltà assunzionali consentite dal presente articolo, valutati congiuntamente dal Tavolo tecnico per la verifica degli adempimenti e dal Comitato permanente per la verifica dell’erogazione dei livelli essenziali di assistenza, può essere concessa alla medesima Regione un’ulteriore variazione del 5 per cento dell’incremento del Fondo sanitario regionale rispetto all’anno precedente, fermo restando il rispetto dell’equilibrio economico e finanziario del Servizio sanitario regionale. Tale importo include le risorse per il trattamento accessorio del personale, il cui limite, definito dall’articolo 23, comma 2, del decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 75, è adeguato, in aumento o in diminuzione, per garantire l’invarianza del valore medio pro-capite, riferito all’anno 2018, prendendo a riferimento come base di calcolo il personale in servizio al 31 dicembre 2018. Dall’anno 2022 l’incremento di cui al quarto periodo è subordinato all’adozione di una metodologia per la determinazione del fabbisogno di personale degli enti del Servizio sanitario nazionale. Entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, il Ministro della salute, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, su proposta dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, nel rispetto del valore complessivo della spesa di personale del Servizio sanitario nazionale determinata ai sensi dei precedenti periodi, adotta con decreto la suddetta metodologia per la determinazione del fabbisogno di personale degli enti del Servizio sanitario nazionale, in coerenza con quanto stabilito dal regolamento di cui al decreto del Ministro della salute 2 aprile 2015, n. 70, e dall’articolo 1, comma 516, lettera c), della legge 30 dicembre 2018, n. 145, e con gli standard organizzativi, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza territoriale, anche ai fini di una graduale revisione della disciplina delle assunzioni di cui al presente articolo. Le regioni, sulla base della predetta metodologia, predispongono il piano dei fabbisogni triennali per il servizio sanitario regionale, che sono valutati e approvati dal tavolo di verifica degli adempimenti di cui all’articolo 12, comma 1, dell’intesa 23 marzo 2005, sancita dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, pubblicata nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 105 del 7 maggio 2005, congiuntamente al Comitato paritetico permanente per la verifica dell’erogazione dei livelli essenziali di assistenza (LEA) di cui all’articolo 9, comma 1, della medesima intesa, anche al fine di salvaguardare l’invarianza della spesa complessiva».

Sostiene la ricorrente che l’art. 1, comma 269, della legge n. 234 del 2021, nella parte in cui prevede il «piano dei fabbisogni triennali per il servizio sanitario regionale», introdurrebbe uno strumento pianificatorio di secondo livello, sovraordinato rispetto agli ordinari «piani triennali del fabbisogno di personale degli enti del servizio sanitario regionale», ledendo tanto l’autonomia organizzativa delle regioni, di competenza legislativa residuale, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost., quanto la competenza legislativa concorrente nella materia «tutela della salute», di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost.

La disposizione impugnata sarebbe altresì irragionevole e in contrasto con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, poiché prevedendo una sovrapposizione di strumenti pianificatori, oltre a generare una illegittima compressione dell’autonomia organizzatoria degli enti del servizio sanitario regionale, determinerebbe inevitabili esiti contraddittori e incongruenze nella rilevazione dei fabbisogni da parte di soggetti diversi.

La Regione ricorrente lamenta altresì la lesione dell’art. 32 Cost., unitamente al terzo comma dell’art. 117 Cost., poiché la mancata previsione di termini perentori di adozione del decreto del Ministro della salute, contenente la metodologia per la determinazione del fabbisogno del personale, ovvero – quanto alla fase integrativa dell’efficacia – senza che siano previsti termini e forme di silenzio significativo per il caso di mancata approvazione, farebbe sì che, nelle more della conclusione dell’iter così articolato e temporalmente incerto, le aziende e gli enti del SSR non potrebbero disporre assunzioni di personale, così compromettendo l’erogazione delle prestazioni sanitarie e la garanzia dei livelli essenziali di assistenza.

Afferma, infine, la difesa regionale che i commi terzo e quarto dell’art. 117, Cost. risulterebbero lesi dalla previsione secondo la quale il menzionato strumento di programmazione sarebbe valutato e approvato da parte di due organismi tecnici a composizione mista statale e regionale (ossia il Tavolo di verifica degli adempimenti di cui all’art. 12, comma 1, dell’intesa 23 marzo 2005, raggiunta in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, e il Comitato paritetico permanente per la verifica dell’erogazione dei livelli essenziali di assistenza di cui all’art. 9, comma 1, della medesima intesa), che potrebbero ingerirsi nei profili organizzatori della Regione.

La ricorrente chiede, pertanto, la caducazione dell’intero comma 269, ovvero, in subordine, del solo periodo in cui sottopone «[la] verifica e [l’]approvazione» del Piano del fabbisogno triennale al Tavolo di verifica e al Comitato paritetico permanente.

1.2.– La Regione ha impugnato altresì l’art. 1, commi 534, 535, 536 e 537, della legge n. 234 del 2021, poiché, ai sensi delle richiamate disposizioni, i contributi per la rigenerazione urbana erogati dallo Stato per il 2022 sarebbero ripartiti fra i comuni beneficiari con decreto interministeriale, senza coinvolgimento delle regioni.

Ai sensi del comma 534, il limite complessivo dei contributi che possono essere erogati dallo Stato ai comuni è pari a euro 300 milioni per l’anno 2022 e di essi possono beneficiare gli enti locali indicati nel comma 535, ossia:

a) i comuni con popolazione inferiore a 15 mila abitanti che, in forma associata, superino, tuttavia, la suddetta soglia di popolazione; e

b) i comuni che non risultino già beneficiari delle risorse attribuite con il decreto interministeriale previsto dall’art. 5 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 21 gennaio 2021 «Assegnazione ai comuni di contributi per investimenti in progetti di rigenerazione urbana, volti alla riduzione di fenomeni di marginalizzazione e degrado sociale».

Nei casi sub a), l’impugnato comma 535 prevede che la domanda di accesso ai contributi sia presentata dai comuni capofila e che il limite massimo della sovvenzione sia pari a euro cinque milioni. Per i comuni sub b), invece, la medesima disposizione prevede che il limite massimo delle sovvenzioni sia pari alla differenza fra gli importi previsti dall’art. 2, comma 2, del menzionato d.P.C.m. 21 gennaio 2021 e le risorse attribuite dal decreto interministeriale di cui all’art. 5 del medesimo d.P.C.m.

Il comma 536 dispone che i comuni comunichino ai Ministero dell’interno, entro un termine perentorio, le richieste di contributo per la realizzazione delle opere pubbliche individuate per le finalità di rigenerazione urbana, specificando, fra l’altro, la tipologia dell’opera, il quadro economico, il cronoprogramma dei lavori, il codice unico di progetto (CUP), nonché – nel caso di comuni in forma associata – l’elenco dei comuni che fanno parte della forma associativa.

Ai sensi del comma 537, infine, l’ammontare del contributo attribuito a ciascun comune «è determinato con decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, da adottare entro il 30 giugno 2022».

Deduce la ricorrente che la mancata previsione di una partecipazione regionale nella gestione dei menzionati contributi statali si porrebbe in contrasto anzitutto con l’art. 117, comma terzo, Cost., poiché la rigenerazione urbana rientrerebbe nella materia «governo del territorio», che – in quanto materia di legislazione concorrente – non consentirebbe allo Stato interventi attuativi di dettaglio. Quindi, pur operando il contributo in un ambito materiale asseritamente ricadente nella richiamata competenza legislativa concorrente, la mancata previsione di alcuna forma di partecipazione regionale determinerebbe la lesione del principio di leale collaborazione (sono citate le sentenze di questa Corte n. 40 del 2022 e n. 74 del 2018).

Ai sensi della richiamata giurisprudenza costituzionale, tali interventi sarebbero consentiti esclusivamente nei casi di chiamata in sussidiarietà da parte dello Stato delle funzioni amministrative (e delle correlate funzioni legislative), ai sensi dell’art. 118, primo comma, Cost., oppure per la promozione di specifiche finalità contemplate dall’art. 119, quinto comma, Cost.

Quanto alla chiamata in sussidiarietà, la ricorrente deduce che non vi sarebbe alcuna esigenza di gestione unitaria tale da giustificare l’applicazione del meccanismo in esame; comunque, anche giustificando l’intervento normativo statale con la menzionata attrazione in sussidiarietà, sarebbe comunque violato il principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost., per difetto di previsione di adeguate forme di coinvolgimento delle regioni.

Quanto ai fondi speciali, secondo la ricorrente il contributo statale avrebbe natura vincolata e sarebbe destinato a una platea generalizzata di comuni, in relazione a finalità di decoro e rigenerazione urbane, le quali – afferendo alle ordinarie competenze comunali – non sarebbero riconducibili alle finalità elencate tassativamente dal quinto comma dell’art. 119 Cost. Dal che si dedurrebbe l’illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate.

1.3.– È impugnato, infine, l’art. 1, comma 721, della legge n. 234 del 2021, che demanda la disciplina dei tirocini extracurriculari a specifiche linee guida, da definirsi con un accordo, concluso in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, nel rispetto di alcuni criteri generali stabiliti dalla disposizione impugnata.

Dispone il citato comma 721 che «[e]ntro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Governo e le regioni concludono, in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, un accordo per la definizione di linee-guida condivise in materia di tirocini diversi da quelli curriculari, sulla base dei seguenti criteri:

a) revisione della disciplina, secondo criteri che ne circoscrivano l’applicazione in favore di soggetti con difficoltà di inclusione sociale;

b) individuazione degli elementi qualificanti, quali il riconoscimento di una congrua indennità di partecipazione, la fissazione di una durata massima comprensiva di eventuali rinnovi e limiti numerici di tirocini attivabili in relazione alle dimensioni d’impresa;

c) definizione di livelli essenziali della formazione che prevedano un bilancio delle competenze all’inizio del tirocinio e una certificazione delle competenze alla sua conclusione;

d) definizione di forme e modalità di contingentamento per vincolare l’attivazione di nuovi tirocini all’assunzione di una quota minima di tirocinanti al termine del periodo di tirocinio;

e) previsione di azioni e interventi volti a prevenire e contrastare un uso distorto dell’istituto, anche attraverso la puntuale individuazione delle modalità con cui il tirocinante presta la propria attività».

Afferma il ricorrente che tale disposizione, nel predeterminare rigidamente i criteri di adozione delle linee guida – nella specie, circoscrivendo l’applicazione dei tirocini extracurriculari a soggetti con difficoltà di inclusione sociale – violerebbe la competenza legislativa residuale delle regioni in materia di «formazione professionale», ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost., nonché il principio di ragionevolezza, poiché verrebbero stravolte le finalità proprie dei menzionati tirocini, intesi quali strumenti formativi di rilevanza sociale. Sarebbe altresì leso il principio di leale collaborazione, posto che l’accordo cui rinvia la disposizione sarebbe «avvilito e umiliato» dalla predeterminazione dei contenuti da parte dello Stato con l’impugnata disposizione.

2.– Con atto depositato l’8 aprile 2022, si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, sostenendo la non fondatezza del ricorso.

2.1.– Quanto al primo gruppo di questioni, la difesa erariale osserva che il comma 269 dell’art. 1 della legge n. 234 del 2021 disciplina la possibilità per le regioni di incrementare le proprie facoltà assunzionali e, quindi, di beneficiare di una variazione del cinque per cento del Fondo sanitario regionale rispetto all’anno precedente, ma esclusivamente a fronte di «oggettivi ulteriori fabbisogni di personale». Tali ulteriori fabbisogni devono emergere da un apposito Piano del fabbisogno triennale predisposto dalla regione, applicando una «metodologia uniforme su tutto il territorio nazionale», determinata da un decreto del Ministro della salute, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, su proposta dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, da adottarsi entro 180 giorni dalla data di entrata in vigore della legge e in coerenza con i criteri già stabiliti dal regolamento di cui al decreto ministeriale 2 aprile 2015, n. 70, con le disposizioni di cui all’art. 1, comma 516, lettera c), della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021), nonché con «gli standard organizzativi, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza territoriale». Il fabbisogno così emergente deve essere comunque valutato e approvato dal Tavolo di verifica degli adempimenti e dal Comitato paritetico permanente per la verifica dell’erogazione dei livelli essenziali di assistenza (LEA).

Secondo la difesa erariale tale disciplina sarebbe espressiva della competenza legislativa esclusiva dello Stato di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., che, per costante giurisprudenza costituzionale, includerebbe non solo la competenza a fissare standard quantitativi, strutturali, tecnologici e qualitativi relativi all’assistenza ospedaliera, ma anche le procedure strumentali indispensabili ad assicurare che gli enti del servizio sanitario siano in condizione di garantire la loro erogazione all’utenza (sono citate le sentenze n. 231 e n. 192 del 2017).

Oltre a intersecare la determinazione dei livelli essenziali di assistenza, la disposizione impugnata sarebbe riconducibile anche alla competenza legislativa concorrente in materia di tutela della salute e di coordinamento della finanza pubblica, poiché traccerebbe la cornice «funzionale e operativa che garantisce la qualità e l’adeguatezza delle prestazioni erogate» (è citata la sentenza di questa Corte n. 207 del 2010), e introdurrebbe condizionalità volte a incrementare l’efficienza della spesa pubblica nel settore sanitario (sono citate le sentenze di questa Corte n. 272 del 2015, n. 52 del 2010 e n. 193 del 2007).

In proposito, il Presidente del Consiglio dei ministri osserva che la disposizione impugnata sarebbe stata adottata in attuazione di quanto stabilito con il Patto per la salute 2019-2021, di cui all’intesa del 18 dicembre 2019 raggiunta in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano. Nella scheda n. 3 del Patto, relativa alle risorse umane, le parti avrebbero infatti convenuto di sostituire, nel triennio 2019-2021, la percentuale di incremento della spesa di personale dal cinque per cento – di cui all’art. 11, comma 1, del d.l. n. 35 del 2019, come convertito, – al dieci per cento, precisando altresì di valutare l’ulteriore incremento del cinque per cento qualora emergano oggettivi ulteriori fabbisogni di personale, valutati congiuntamente dal Tavolo di verifica degli adempimenti e dal Comitato paritetico permanente per la verifica dell’erogazione dei LEA. Le parti avrebbero altresì convenuto, al fine di dare attuazione a quanto previsto dal citato art. 11, comma 1, la definizione di una idonea metodologia di calcolo dei fabbisogni ospedalieri di personale da parte del Ministro per la salute. La disposizione impugnata, pertanto, altro non farebbe se non dare attuazione a quanto convenuto nella richiamata intesa, per fornire agli enti regionali uno strumento di programmazione delle risorse umane che consenta loro di assicurare standard quantitativi uniformi, in relazione all’assistenza ospedaliera territoriale.

Non sarebbero dunque lese le competenze regionali concorrenti e residuali – rispettivamente, di tutela della salute e di organizzazione del personale – poiché la disposizione richiamata non disporrebbe norme di dettaglio che incidano sull’organizzazione degli enti del sistema sanitario regionale, ma fisserebbe un principio generale in materia di coordinamento della finanza pubblica, volto all’efficientamento della spesa pubblica.

Secondo la difesa erariale, la disposizione nemmeno sarebbe irragionevole, poiché non creerebbe alcuna sovrapposizione fra la predisposizione del censurato Piano dei fabbisogni triennale, affidata alle regioni, e la predisposizione dei singoli Piani triennali dei fabbisogni, demandata a ciascun ente del servizio sanitario regionale. Il primo strumento, infatti, registra i fabbisogni di personale a livello regionale, il secondo, invece, i fabbisogni di ciascuna azienda sanitaria locale (ASL). Inoltre, il Piano dei fabbisogni triennali ha la specifica funzione di consentire il rilevamento di oggettivi ulteriori fabbisogni di personale, al fine di accedere all’incremento del cinque per cento – rispetto all’anno precedente – del Fondo sanitario regionale, elemento che lo distingue nettamente dai piani redatti dalle ASL, sia per il suo oggetto, sia per le sue finalità.

Osserva, infine, l’Avvocatura generale dello Stato che la fissazione di un termine – nella specie di 180 giorni – non perentorio ma meramente ordinatorio sarebbe funzionale a garantire le prerogative delle autonomie territoriali, in considerazione dell’esigenza di acquisire l’intesa con le stesse sulla metodologia di calcolo. Diversamente, la fissazione di un termine perentorio precluderebbe al Ministro il potere di adottare il menzionato decreto una volta spirato il termine, compromettendo la possibilità per le regioni di accedere alle risorse aggiuntive. La difesa erariale fa notare peraltro che il suddetto termine, come ogni termine procedimentale, è certamente «vincolante per tutte le Amministrazioni destinatarie, in virtù dei principi generali di legalità, buon andamento e imparzialità previsti dall’articolo 97 della Costituzione, che obbligano ogni pubblica amministrazione a concludere, entro i termini previsti dalla legge, i procedimenti di propria competenza».

2.2.– Quanto al secondo gruppo di questioni, il Presidente del Consiglio dei ministri procede preliminarmente a una ricostruzione della normativa in tema di assegnazione di contributi per la rigenerazione urbana, ricordando che il d.P.C.m. 21 gennaio 2021 (Assegnazione ai comuni di contributi per investimenti in progetti di rigenerazione urbana, volti alla riduzione di fenomeni di marginalizzazione e degrado sociale) – richiamato dall’impugnato comma 535, che individua i comuni beneficiari delle risorse aggiuntive – era stato adottato in attuazione dell’art. 1, commi 42 e 43, della legge 27 dicembre 2019, n. 160 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022).

Più precisamente, ai sensi del citato comma 42, per ciascuno degli anni dal 2021 al 2034, è prevista l’assegnazione ai comuni di contributi per effettuare investimenti in progetti di rigenerazione urbana, volti alla riduzione di fenomeni di marginalizzazione e degrado sociale, nonché al miglioramento della qualità del decoro urbano e del tessuto sociale e ambientale, nel limite complessivo di euro 150 milioni per l’anno 2021, euro 250 milioni per il 2022, euro 550 milioni per ciascuno degli anni 2023 e 2024, e di euro 700 milioni per ciascuno degli anni dal 2025 al 2034.

Ai sensi del comma 43, l’individuazione dei criteri e delle modalità di riparto delle risorse era rinviata a un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e il Ministro dell’interno, previa intesa in sede di Conferenza Stato-città ed autonomie locali; l’individuazione dei comuni beneficiari e degli importi ad essi spettanti era invece demandata a un decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze.

L’art. 2, comma 1, del d.P.C.m. 21 gennaio 2021 ha, quindi, stabilito che i contributi previsti dall’art. 1, comma 42, della legge n. 160 del 2019 possono essere richiesti: a) da comuni con popolazione superiore a 15 mila abitanti, non capoluogo di provincia; nonché b) da comuni capoluogo di provincia, oppure sede di città metropolitana.

Il successivo comma 2 ha stabilito, altresì, che ciascun comune può fare richiesta di un contributo per uno o più interventi nel limite massimo di: a) euro 5 milioni per i comuni con popolazione compresa fra 15.000 e 49.999 abitanti; b) euro 10 milioni per i comuni con popolazione compresa fra 50.000 e 100.000 abitanti; c) euro 20 milioni per i comuni con popolazione superiore o uguale a 100.001 abitanti.

L’art. 3, comma 1, del menzionato d.P.C.m. ha individuato la tipologia di interventi ammissibili al contributo: a) manutenzione per il riuso e rifunzionalizzazione di aree pubbliche e di strutture edilizie esistenti pubbliche per finalità di interesse pubblico, anche compresa la demolizione di opere abusive realizzate da privati in assenza o totale difformità dal permesso di costruire e la sistemazione delle pertinenti aree; b) miglioramento della qualità del decoro urbano e del tessuto sociale e ambientale, anche mediante interventi di ristrutturazione edilizia di immobili pubblici, con particolare riferimento allo sviluppo dei servizi sociali e culturali, educativi e didattici, ovvero alla promozione delle attività culturali e sportive; c) mobilità sostenibile.

Il medesimo art. 3, al comma 3, prevede inoltre, che ai fini dell’ammissibilità al contributo: a) le richieste devono indicare il codice unico di progetto (CUP) dell’opera valido e correttamente individuato in relazione all’opera per la quale viene richiesto il contributo; b) le richieste devono riferirsi ad opere pubbliche inserite nella programmazione annuale o triennale degli enti locali e che rientrano nello strumento urbanistico comunale comunque denominato approvato e vigente nell’ambito territoriale del comune; c) alla data della presentazione della richiesta i comuni devono aver trasmesso alla banca dati delle amministrazioni pubbliche (BDAP) i documenti contabili di cui all’art. 1, comma 1, lettere b) ed e), e all’art. 3 del decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 12 maggio 2016, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 122 del 26 maggio 2016, riferiti all’ultimo rendiconto della gestione approvato. Nel caso di comuni per i quali sono sospesi per legge i termini di approvazione del rendiconto della gestione di riferimento, le informazioni di cui al periodo precedente sono desunte dall’ultimo rendiconto della gestione trasmesso alla citata banca dati.

L’art. 5 del citato d.P.C.m., infine, rinvia al decreto interministeriale menzionato nell’art. 1, comma 43, della legge n. 160 del 2019 la determinazione in concreto dei contributi spettanti a ciascun beneficiario, precisando altresì che, in caso di insufficienza delle risorse stanziate, l’attribuzione è effettuata «tenendo conto della quota riferita alla progettazione esecutiva e alle opere», in favore dei comuni che «presentano un valore più elevato dell’indice di vulnerabilità sociale e materiale» (comma 2); e che l’attribuzione del contributo, sulla base della graduatoria redatta secondo le modalità indicate sub 1), avviene nel rispetto dei principi di riequilibrio territoriale previsti dall’art. 7-bis, comma 2, del decreto-legge 29 dicembre 2016, n. 243 (Interventi urgenti per la coesione sociale e territoriale, con particolare riferimento a situazioni critiche in alcune aree del Mezzogiorno), convertito, con modificazioni, nella legge 27 febbraio 2017, n. 18, e successive modifiche e integrazioni (comma 3).

Nel rispetto e in attuazione della normativa richiamata, è stato adottato il decreto interministeriale 30 dicembre 2021 (Contributi ai Comuni da destinare a investimenti in progetti di rigenerazione urbana anni 2021-2026), con il quale sono stati individuati in concreto i comuni beneficiari e l’ammontare dei contributi per i predetti anni.

Le disposizioni impugnate si inserirebbero in tale contesto normativo e sarebbero dunque volte ad assegnare ulteriori risorse per la rigenerazione urbana, da destinare a comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti o che – pur avendo una popolazione più numerosa – non siano stati inseriti nella graduatoria approvata con il menzionato decreto interministeriale 30 dicembre 2021.

Precisa altresì la difesa erariale che gli interventi finanziati, sotto il profilo oggettivo, sarebbero i medesimi già previsti dall’art. 1, comma 42, della legge n. 160 del 2019, posto che i criteri previsti dal comma 536 per la selezione degli interventi ammissibili al contributo, nonché dal comma 537 per la predisposizione della graduatoria dei beneficiari sarebbero esattamente quelli individuati dagli artt. 3 e 5 del menzionato d.P.C.m. 21 gennaio 2021.

Rispetto alla precedente disciplina, il quid novi sarebbe rappresentato unicamente dall’ampliamento della platea dei beneficiari, rispetto a quanto stabilito in origine dall’art. 2, comma 1, del richiamato d.P.C.m.

La censura dovrebbe ritenersi dunque «manifestamente infondat[a]», poiché la ripartizione dei contributi sarebbe effettuata sulla base dei criteri previsti – sotto il profilo soggettivo – dal comma 535, e – sotto il profilo oggettivo – dai commi 536 e 537 che confermano quelli già previsti dagli artt. 3 e 5 del d.P.C.m. 21 gennaio 2021, senza determinare alcuna lesione né dell’asserita competenza legislativa concorrente regionale in materia di governo del territorio, né degli artt. 118, 119 e 120 Cost. Le disposizioni impugnate, infatti, non rinvierebbero al decreto interministeriale la determinazione dei criteri di selezione degli interventi da finanziare, ma si limiterebbero a ripartire le risorse fra beneficiari già selezionati in base ai criteri soggettivi e oggettivi individuati a monte dal legislatore sulla scorta del d.P.C.m. 21 gennaio 2021.

Tale individuazione, secondo lo Stato, non potrebbe che essere effettuata dal «Governo centrale», nell’esercizio della propria competenza amministrativa, implicando la predisposizione di una graduatoria unica nazionale, per tutti i comuni beneficiari dei contributi, funzione che dovrebbe essere necessariamente esercitata in modo unitario su tutto il territorio nazionale. Afferma, dunque, la difesa erariale che l’esercizio di tale funzione – e delle correlate funzioni legislative – non potrebbe che essere «attratto» nell’ambito delle competenze dello Stato, in base ai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, di cui all’art. 118, primo comma, Cost., secondo il noto meccanismo della «attrazione in sussidiarietà».

Infine, il Presidente del Consiglio dei ministri ritiene che non si verterebbe affatto nell’ambito materiale di competenza legislativa concorrente «governo del territorio», bensì in «quello previsto dall’articolo 119, comma 5, della Costituzione, che riserva alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la destinazione di “risorse aggiuntive” e la realizzazione di “interventi speciali”, volti a promuovere lo sviluppo economico e la coesione sociale in favore di determinati Enti territoriali».

Tali interventi, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, sarebbero destinati al perseguimento degli obiettivi di «crescita inclusiva, coesione sociale e territoriale», pilastri fondamentali della programmazione e del contenuto dei piani nazionali di ripresa e resilienza nazionali, tant’è che gli investimenti per la «rigenerazione urbana» – la cui finalità sarebbe quella di ridurre l’emarginazione e il degrado sociale, nonché di migliorare la qualità del decoro urbano – sarebbero stati espressamente inseriti dal Governo nella Missione n. 5 del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). Sarebbe pertanto indubbio che gli interventi previsti dalle disposizioni impugnate rientrerebbero a pieno titolo nell’ambito degli strumenti previsti dall’art. 119, quinto comma, Cost., per promuovere lo sviluppo e la coesione sociale (è citata la sentenza n. 40 del 2022).

Le suddette risorse avrebbero dunque carattere aggiuntivo e sarebbero dirette a garantire non l’esercizio ordinario delle funzioni attribuite agli enti locali, ma interventi speciali, per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, ai sensi del quinto comma dell’art. 119 Cost.; sarebbero inoltre indirizzate non a una platea generalizzata di comuni, ma a determinati enti locali che, in possesso di requisiti soggettivi elencati dal più volte citato comma 535, siano inseriti in una graduatoria unica nazionale, predisposta tenendo conto – ai sensi del comma 537 – dell’indice di vulnerabilità sociale e materiale (IVSM), nonché del principio di riequilibrio territoriale individuato dall’art. 7-bis, comma 2, del d.l. n. 243 del 2016, come convertito.

2.3.– Quanto, infine, all’ultima questione promossa con il ricorso relativa all’art. 1, comma 721, della legge n. 234 del 2021, la difesa erariale premette che – complessivamente intesi – i commi da 720 a 726 dispongono il riordino della disciplina sul tirocinio, prevedendo, fra l’altro, l’abrogazione delle previgenti disposizioni di cui ai commi 34, 35 e 36 dell’art. 1 della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita).

Più precisamente, l’art. 1, comma 726, della legge n. 234 del 2021 dispone l’abrogazione del richiamato comma 34, ai sensi del quale «[e]ntro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Governo e le regioni concludono in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano un accordo per la definizione di linee-guida condivise in materia di tirocini formativi e di orientamento, sulla base dei seguenti criteri:

a) revisione della disciplina dei tirocini formativi, anche in relazione alla valorizzazione di altre forme contrattuali a contenuto formativo;

b) previsione di azioni e interventi volti a prevenire e contrastare un uso distorto dell’istituto, anche attraverso la puntuale individuazione delle modalità con cui il tirocinante presta la propria attività;

c) individuazione degli elementi qualificanti del tirocinio e degli effetti conseguenti alla loro assenza;

d) riconoscimento di una congrua indennità, anche in forma forfetaria, in relazione alla prestazione svolta».

Le linee guida approvate in Conferenza permanente tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano il 24 gennaio 2013, e da ultimo aggiornate il 25 maggio 2017, prevedono, tra l’altro, che la durata massima, comprensiva di proroghe e rinnovi, dei tirocini extracurriculari non può essere superiore a dodici mesi, mentre la durata minima non può essere inferiore a due mesi, ad eccezione dei tirocini svolti presso soggetti ospitanti che operano stagionalmente, per i quali la durata massima è ridotta a un mese. Inoltre, i disabili, le persone svantaggiate, nonché i richiedenti asilo e i titolari di protezione internazionale possono attivare particolari tirocini di orientamento e formazione, ovvero di inserimento/reinserimento nel mondo del lavoro. Per i suddetti tirocini è prevista una durata maggiore, che può arrivare, nel caso delle persone disabili, fino a ventiquattro mesi, inoltre, è prevista la facoltà per le regioni di introdurre delle specifiche deroghe in ordine alla durata e ripetibilità del tirocinio, al fine di garantire e salvaguardare l’inclusione sociale dei destinatari.

Sostiene la difesa erariale che la normativa impugnata dispone una revisione della previgente disciplina, distinguendo i tirocini curriculari da quelli extracurriculari (comma 720) nonché introducendo specifici criteri per la definizione delle nuove linee guida, volti a contrastare gli abusi che potrebbero verificarsi nell’ambito dello svolgimento di tale tipologia di tirocini (comma 721). In questa prospettiva, il comma 723 avrebbe introdotto anche una fattispecie di reato per i casi in cui il tirocinio si sia svolto in modo fraudolento, nonché la possibilità per il tirocinante di richiedere l’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato con decorrenza dalla data della pronuncia giudiziale.

Gli ambiti materiali in cui sarebbe sussumibile la richiamata normativa sarebbero molteplici, secondo la difesa erariale, anzitutto coincidenti con le competenze legislative esclusive statali in materia di ordinamento civile e penale e norme generali sull’istruzione, di cui all’art. 117, secondo comma, lettere l) e n), Cost., ma anche con la competenza legislativa concorrente in materia di istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione dell’istruzione e della formazione professionale di cui al terzo comma dell’art. 117; nonché con la competenza legislativa residuale regionale in materia di formazione professionale, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost.

Trattandosi di un intreccio inestricabile di competenze, il già citato art. 1, comma 34, della legge n. 92 del 2012 demandava la disciplina dei tirocini formativi a un accordo tra Stato e regioni, da stipulare in sede di Conferenza permanente, sulla base di alcuni criteri generali già richiamati (sono citate le sentenze n. 251 del 2016 e n. 50 del 2005).

Deduce pertanto la difesa dello Stato che la disposizione impugnata, nel demandare a un accordo tra Stato e regioni la definizione delle nuove linee guida, non farebbe che confermare tale prassi collaborativa e i precedenti criteri elencati nell’abrogato comma 34 dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012, benché siano state inserite alcune «significative integrazioni» fra gli obiettivi generali, consistenti per l’appunto nella delimitazione soggettiva dei destinatari dei tirocini extracurriculari, circoscrivendoli ai soggetti con difficoltà di inclusione sociale. Tale innovazione non inciderebbe sul concreto contenuto formativo dei tirocini e pertanto non lederebbe la competenza legislativa residuale regionale in materia di formazione professionale, essendo esclusivamente volta a prevenire che il tirocinio extracurricolare sia utilizzato in modo fraudolento in sostituzione del lavoro dipendente, ragione per cui la disposizione impugnata sarebbe espressiva di principi fondamentali in materia di tutela e sicurezza del lavoro, rientrante nella competenza legislativa concorrente di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost. Dal che si dedurrebbe la non fondatezza della questione.

3.– Con memoria depositata il 17 gennaio 2023, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito la non fondatezza delle questioni di legittimità promosse dalla Regione Veneto, con argomentazioni pressoché sovrapponibili a quelle impiegate nell’atto di costituzione.

4.– Anche la Regione ha depositato in data 31 gennaio 2023 memoria integrativa in cui insiste per l’accoglimento del ricorso.

Considerato in diritto

1.– Con il ricorso indicato in epigrafe, la Regione Veneto ha promosso plurime questioni di legittimità costituzionale di varie disposizioni dell’art. 1 della legge n. 234 del 2021, in riferimento a molteplici parametri di competenza e sostanziali.

1.1.– Con riferimento al comma 269 dell’art. 1 della legge n. 234 del 2021 la Regione promuove tre questioni di legittimità costituzionale.

La prima questione si riferisce alla previsione dell’onere per le regioni di predisporre un Piano di fabbisogno triennale del personale sanitario al fine di poter aumentare la spesa per il personale del cinque per cento (ulteriore rispetto al dieci per cento già concesso dall’art. 11, comma 1, del d.l. n. 35 del 2019, come convertito). Tale disposizione sarebbe lesiva della competenza legislativa regionale concorrente in materia di tutela della salute e di quella residuale in materia di organizzazione del personale, ai sensi dell’art. 117, commi terzo e quarto, Cost. Sarebbero altresì violati gli artt. 3 e 97, secondo comma, Cost., poiché la medesima disposizione genererebbe una duplicazione degli strumenti di pianificazione (il Piano di fabbisogno triennale del personale sanitario regionale si sovrapporrebbe al tradizionale Piano triennale di fabbisogno del personale), risultando perciò in contrasto con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione.

Il comma 269 del medesimo art. 1 è impugnato altresì nella parte in cui non prevede termini perentori per l’adozione del decreto interministeriale recante la metodologia per la predisposizione del menzionato Piano per il fabbisogno regionale. Tale disposizione violerebbe gli artt. 32 e 117, terzo comma, Cost., poiché l’assenza di termine perentorio, qualora precludesse l’assunzione di nuovo personale, comprometterebbe l’erogazione delle prestazioni sanitarie, nonché la tutela della salute.

Il comma 269, infine, è impugnato là dove sottopone il Piano di fabbisogno triennale del personale sanitario alla valutazione e all’approvazione del Tavolo di verifica degli adempimenti di razionalizzazione della spesa sanitaria, nonché del Comitato paritetico di verifica dei livelli essenziali di assistenza (LEA). La Regione lamenta che l’intervento di tali organismi «a composizione mista statale e regionale» nella valutazione di efficacia del menzionato Piano, ingerendosi direttamente nei profili organizzatori del sistema sanitario regionale, invaderebbe la competenza legislativa residuale regionale in materia di organizzazione del personale, e lederebbe altresì la competenza legislativa regionale concorrente in materia di tutela della salute, violando i commi terzo e quarto dell’art. 117 Cost.

1.2.– Sono poi impugnati i commi da 534 a 537 dell’art. 1 della legge n. 234 del 2021, nella parte in cui prevedono che i contributi per la rigenerazione urbana erogati dallo Stato siano ripartiti tra i comuni con decreto interministeriale, senza coinvolgimento delle regioni. Tale mancato coinvolgimento violerebbe l’art. 117, terzo comma, Cost., poiché la competenza legislativa regionale concorrente nella materia «governo del territorio» non consentirebbe allo Stato interventi attuativi di dettaglio; sarebbe inoltre violato l’art. 118, primo comma, Cost., poiché gli interventi di dettaglio sarebbero consentiti allo Stato solo in caso di attrazione in sussidiarietà delle funzioni amministrative (e delle correlate funzioni legislative), ipotesi che – secondo la Regione – non ricorrerebbe nel caso di specie; sarebbe violato altresì l’art. 119, quinto comma, Cost., perché tali interventi di dettaglio sarebbero consentiti solo per la promozione delle specifiche finalità ivi stabilite, ipotesi che non ricorrerebbe nel caso di specie, trattandosi di interventi statali volti a finanziare «ordinarie competenze comunali»; sarebbe infine leso l’art. 120 Cost., poiché le disposizioni impugnate, interferendo con le competenze legislative regionali nella materia «governo del territorio», avrebbero dovuto prevedere il coinvolgimento delle regioni nella gestione dei fondi, la cui mancata partecipazione si tradurrebbe in una violazione del principio di leale collaborazione.

1.3.– Infine, è impugnato il comma 721 dell’art. 1 della legge n. 234 del 2021, là dove – nel demandare a un accordo tra Stato e regioni, concluso in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, la definizione di linee guida condivise in materia di tirocini extracurriculari – stabilisce che la revisione della disciplina debba avvenire «secondo criteri che ne circoscrivano l’applicazione in favore di soggetti con difficoltà di inclusione sociale» (lettera a). Tale disposizione, secondo la Regione ricorrente, violerebbe gli artt. 3, 117, quarto comma, e 120 Cost., poiché sarebbe invasa la competenza legislativa regionale residuale nella materia «formazione professionale», e, congiuntamente, sarebbero lesi i principi di ragionevolezza e di leale collaborazione nella misura in cui tale disposizione predetermina rigidamente i criteri per la definizione delle menzionate linee guida, così “blindando” i contenuti dell’accordo fra i diversi livelli di governo.

2.– In via preliminare occorre delimitare il thema decidendum.

Quanto al primo gruppo di questioni, benché la ricorrente impugni genericamente l’art. 1, comma 269, della legge n. 234 del 2021, dall’esame del ricorso e dalle motivazioni addotte si può agevolmente ricavare che le norme ritenute lesive delle prerogative regionali siano quelle riconducibili alla lettera c) del comma 269 dell’art. 1 della legge n. 234 del 2021, cui pertanto deve circoscriversi l’esame di questa Corte.

Con riguardo al secondo insieme di questioni, benché la Regione impugni genericamente i commi da 534 a 537 della medesima legge, dalla lettura complessiva del ricorso si evince che le censure si appuntano esclusivamente sulla mancata partecipazione delle regioni nella fase gestoria del fondo per la rigenerazione urbana; si lamenta infatti che, ai sensi del comma 537, il riparto delle risorse sia affidato a un decreto interministeriale, senza alcun coinvolgimento regionale. A questa sola disposizione, pertanto, deve circoscriversi l’esame di questa Corte.

Infine, anche per l’ultimo gruppo di questioni, si deve ritenere che – rispetto a quanto indicato dalla Regione – il ricorso si riferisce esclusivamente alla lettera a) del comma 721 dell’art. 1 della legge n. 234 del 2021, là dove, nel demandare a un accordo tra Stato e regioni la definizione di linee guida condivise in materia di tirocini extracurriculari, stabilisce che la revisione della disciplina debba avvenire «secondo criteri che ne circoscrivano l’applicazione in favore di soggetti con difficoltà di inclusione sociale».

Così delimitato il thema decidendum, si può procedere all’esame del merito.

3.– Come già rilevato (punto 1.1. del Considerato in diritto) l’impugnazione della lettera c) del comma 269 dell’art. 1 della legge n. 234 del 2021 si articola in tre diverse questioni di legittimità costituzionale.

3.1.– La prima questione attiene all’onere di redigere il Piano di fabbisogno triennale del personale sanitario al fine di accedere alle quote aggiuntive di fondo sanitario nazionale ed è promossa in riferimento ai commi terzo e quarto dell’art. 117 Cost., per violazione della competenza legislativa concorrente «tutela della salute» e di quella residuale «organizzazione del personale regionale»; la medesima disposizione è ritenuta altresì lesiva dei principi di ragionevolezza e di buon andamento della pubblica amministrazione, di cui agli artt. 3 e 97, secondo comma, Cost.

3.2.– La questione formulata in riferimento ai parametri di competenza legislativa di cui ai commi terzo e quarto dell’art. 117 Cost. riveste priorità logica e merita di essere scrutinata per prima (ex plurimis, sentenza n. 86 del 2022).

3.2.1.– Tale questione non è fondata.

Al fine di stabilire l’ambito materiale cui ricondurre la disposizione impugnata, questa Corte ha ribadito che «non assume rilievo la qualificazione che di esse dà il legislatore, ma occorre fare riferimento all’oggetto ed alla disciplina delle medesime, tenendo conto della loro ratio e tralasciando gli aspetti marginali e gli effetti riflessi, così da identificare correttamente e compiutamente anche l’interesse tutelato» (sentenza n. 136 del 2018; nello stesso senso, ex plurimis, da ultimo, sentenza n. 6 del 2023).

Questa Corte ha affermato, con indirizzo pressoché costante, che le disposizioni sulla programmazione del personale e sulla fissazione di limiti alle assunzioni non si prestano ad afferire a un solo ambito materiale, per il fatto di incidere su plurimi settori di competenza legislativa, sia esclusiva che concorrente (ex plurimis, sentenza n. 231 del 2017).

Nel caso di specie, l’intervento legislativo statale incide sull’organizzazione sanitaria e, pertanto, sulla materia «tutela della salute» (sentenza n. 9 del 2022), come si evince non solo dal titolo dell’art. 11 del d.l. n. 35 del 2019, come convertito, rubricato «Disposizioni in materia di personale e di nomine negli enti del Servizio sanitario nazionale», ma anche dal tenore complessivo del comma 1 del medesimo articolo, nel quale si inserisce la disposizione impugnata, da cui emerge che tale normativa è finalizzata a una «graduale revisione della disciplina delle assunzioni» del personale degli enti del Servizio sanitario nazionale delle regioni.

Viene in rilievo indirettamente anche la competenza legislativa statale esclusiva in materia di fissazione dei livelli essenziali delle prestazioni sotto l’aspetto finanziario (ex plurimis, sentenza n. 62 del 2020), come risulta dal primo periodo dell’art. 11, comma 1, del richiamato d.l. n. 35 del 2019, come convertito, che prevede la possibilità di aumentare il valore della spesa del personale degli enti del Servizio sanitario nazionale delle regioni «nell’ambito del livello del finanziamento del fabbisogno sanitario nazionale standard cui concorre lo Stato e ferma restando la compatibilità finanziaria» come risulta dalla previsione del coinvolgimento del Comitato permanente per la verifica dell’erogazione dei LEA.

Le norme impugnate sono riconducibili altresì alla competenza legislativa statale in materia di principi fondamentali per il «coordinamento della finanza pubblica». Ciò traspare là dove il legislatore statale, nel consentire gli aumenti di spesa per il personale del dieci e dell’ulteriore cinque per cento, richiama l’esigenza di rispettare il valore complessivo della stessa voce di spesa del Servizio sanitario nazionale, determinata ai sensi dei precedenti periodi, e – soprattutto – laddove finalizza la sottoposizione del Piano di fabbisogno triennale del personale sanitario regionale alle valutazioni del Tavolo e del Comitato paritetico per la verifica dei LEA «anche» al fine di salvaguardare l’invarianza della spesa complessiva.

Si è, dunque, in presenza di un intreccio inestricabile di competenze, sia esclusive che concorrenti, nessuna delle quali assume carattere prevalente, fattispecie questa che esige – affinché l’intervento legislativo statale sia legittimo – l’impiego della leale collaborazione (ex plurimis, sentenza n. 35 del 2021).

Per costante giurisprudenza di questa Corte, la procedura di acquisizione dell’intesa nella Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano è considerata idonea a garantire la leale collaborazione, poiché consente lo svolgimento di genuine trattative e permette un reale coinvolgimento delle parti (in questo senso, ex plurimis, sentenza n. 261 del 2017).

In proposito, deve precisarsi che il 18 dicembre 2019 è stata acquisita l’intesa in sede di Conferenza permanente sul Patto per la salute 2019-2021. In tale sede le parti hanno convenuto sia di innalzare la percentuale di incremento della spesa di personale di cui al secondo periodo del comma 1 dell’art. 11 del d.l. n. 35 del 2019, come convertito, dal cinque al dieci per cento; sia di «valutare, per il periodo di vigenza del presente patto, la possibilità di un graduale aumento, sino al quindici per cento, della percentuale di incremento della spesa di cui al punto precedente qualora emergano oggettivi ulteriori fabbisogni di personale rispetto alle facoltà assunzionali consentite dal citato articolo 11, valutati congiuntamente dal Tavolo tecnico per la verifica degli adempimenti e dal Comitato LEA, fermo restando il rispetto dell’equilibrio economico e finanziario del servizio sanitario ragionale» (scheda 3 del Patto per la salute).

Come osservato dall’Avvocatura generale dello Stato, la normativa contenuta nella lettera c) del comma 269 recepisce quanto convenuto nella richiamata intesa, la cui finalità era proprio quella di fornire agli enti regionali uno strumento di programmazione per le risorse umane in ambito sanitario, che consentisse di assicurare standard qualitativi e quantitativi uniformi.

La disposizione impugnata, pertanto, benché incidente in plurimi ambiti materiali, in quanto preceduta da intesa, ha garantito il rispetto della leale collaborazione e il reale coinvolgimento delle regioni, elemento che consente di escludere la lesione delle richiamate competenze regionali nelle materie tutela della salute e organizzazione del personale regionale, di cui all’art. 117, commi terzo e quarto, Cost.

3.2.2.– Occorre a questo punto valutare – alla stregua del principio di stretta ragionevolezza – se la disposizione impugnata, nella parte in cui introduce un nuovo piano triennale, finalizzato a documentare l’oggettiva ulteriore esigenza di personale e, quindi, a ottenere l’ulteriore cinque per cento di finanziamento aggiuntivo, sia ragionevole e coerente rispetto alla sua funzione e alla sua ratio, «rammentando che “[i]l giudizio sulla sussistenza e sull’adeguatezza di tale collegamento […] è operato da questa Corte secondo la struttura tipica del sindacato svolto ai sensi dell’art. 3, primo comma, Cost., che muove dall’identificazione della ratio della norma di riferimento e passa poi alla verifica della coerenza con tale ratio del filtro selettivo introdotto” (sentenza n. 44 del 2020)» (sentenza n. 199 del 2022).

3.3.– Anche la questione promossa in riferimento agli artt. 3 e 97, secondo comma, Cost. non è fondata.

La finalità della disposizione impugnata viene identificata, da un lato, nella dimostrazione di «oggettivi ulteriori fabbisogni» di personale sanitario, dall’altro, nel garantire che l’aumento della spesa per il personale avvenga salvaguardando «l’invarianza della spesa complessiva».

Il principio di ragionevolezza non è dunque scalfito, poiché la nuova metodologia di calcolo del fabbisogno del personale – come osservato dalla difesa erariale – si applica al Piano che dovranno redigere le singole regioni per la programmazione del personale sanitario, da effettuarsi secondo criteri di calcolo condivisi.

La disposizione impugnata, pertanto, non determina alcuna sovrapposizione fra i piani triennali di fabbisogno del personale che ogni singola amministrazione o ASL deve comunque redigere (ai sensi dell’art. 6 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, recante «Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche», e successive modificazioni e integrazioni) e il “nuovo” Piano di fabbisogno triennale del personale sanitario, che deve essere redatto dalle regioni per poter accedere alle risorse aggiuntive del fondo sanitario nazionale.

3.4.– La Regione Veneto impugna poi la lettera c) del comma 269 là dove non prevede termini perentori per l’adozione del decreto interministeriale recante la metodologia di calcolo per la determinazione dei fabbisogni di personale degli enti del servizio sanitario regionale, poiché la mancata previsione di un termine – risolvendosi in un impedimento alla predisposizione del Piano secondo la predetta metodologia condivisa – è ritenuta in contrasto con gli artt. 32 e 117, terzo comma, Cost.

3.4.1.– La questione non è fondata.

La fissazione di un termine ordinatorio, anziché perentorio, non rappresenta, infatti, un impedimento per l’erogazione delle prestazioni essenziali da parte delle regioni ma, al contrario, la favorisce, posto che, qualora il termine fosse perentorio, la mancata acquisizione dell’intesa allo spirare del termine non renderebbe possibile l’adozione stessa del decreto.

È proprio la previsione di un termine ordinatorio da parte della disposizione impugnata che consente – anche nell’eventualità di superamento dei 180 giorni – la prosecuzione dell’iter di adozione del provvedimento amministrativo.

Tale ricostruzione, peraltro, è confortata dalla fattispecie all’esame, posto che l’intesa sulla metodologia di calcolo del fabbisogno del personale sanitario è stata raggiunta in data 21 dicembre 2022 (ossia dopo la scadenza del termine).

3.5.– La Regione impugna, infine, la stessa lettera c) del comma 269 laddove prevede che il Piano di fabbisogno triennale del personale sanitario regionale sia «valutat[o] e approvat[o]» dal Tavolo tecnico per la verifica degli adempimenti regionali e dal Comitato paritetico permanente per la verifica dei LEA, poiché tale condizione di efficacia è ritenuta lesiva delle competenze regionali concorrenti e residuali, rispettivamente nelle materie «tutela della salute» e «organizzazione del personale», di cui all’art. 117, commi terzo e quarto, Cost.

3.5.1.– La questione non è fondata, nei sensi e nei termini di seguito indicati.

Occorre anzitutto precisare che la già richiamata intesa sul Patto per la salute 2019-2021, raggiunta il 18 settembre 2019 in sede di Conferenza permanente, aveva sancito che il menzionato Piano venisse «valutato congiuntamente» dal Tavolo tecnico per la verifica degli adempimenti regionali e dal Comitato paritetico permanente per la verifica dei LEA.

Come questa Corte ha recentemente affermato, l’azione congiunta del citato Comitato paritetico e del Tavolo tecnico per la verifica degli adempimenti regionali è finalizzata ad analizzare l’andamento del piano di rientro dai disavanzi sanitari; peraltro, la peculiare composizione di tali organismi, «improntata a una compenetrazione tra la componente statale e quella regionale, garantisce di per sé il pieno coinvolgimento della Regione in merito all’analisi dell’andamento del proprio piano di rientro» (sentenza n. 168 del 2021).

Ciò considerato, la previsione secondo cui l’approvazione del Piano di fabbisogno triennale del personale sanitario regionale è rimessa al Tavolo tecnico e al Comitato paritetico determina una diretta ingerenza di tali organismi nei profili organizzatori del sistema sanitario regionale e si risolve in una compressione dell’autonomia organizzativa delle regioni, le quali, nell’adempiere all’onere di redigere il Piano del personale, secondo la metodologia di calcolo stabilita e applicata in modo uniforme in tutto il territorio nazionale, predispongono un documento che già garantisce (e consente di verificare) l’oggettività degli ulteriori fabbisogni di spesa per il personale.

La disposizione impugnata, in quanto diretta a salvaguardare precipuamente gli equilibri della finanza pubblica, deve considerarsi applicabile solo alle regioni sottoposte al Piano di rientro, le quali sono impegnate in rigidi programmi di contenimento della spesa e di garanzia dei LEA, posto che gli aumenti di spesa consentiti dalle disposizioni richiamate sono finanziati con risorse del Fondo sanitario nazionale.

Per le regioni non sottoposte al piano di rientro è invece sufficiente, alla luce delle considerazioni sopra riportate, la valutazione congiunta dei predetti organismi, sul modello di quanto concordato nell’intesa.

La presente questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 269, lettera c), promossa in riferimento ai commi terzo e quarto dell’art. 117 Cost., deve pertanto dichiararsi non fondata, nel senso e nei termini chiariti.

4.– Il secondo gruppo di questioni ha ad oggetto il comma 537 dell’art. 1 della legge n. 234 del 2021, nella parte in cui demanda la determinazione dell’ammontare del contributo per la rigenerazione urbana spettante a ciascun comune a un decreto del Ministro dell’interno, da adottarsi di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, senza alcuna forma di coinvolgimento delle regioni.

La disposizione è impugnata per plurimi motivi: in primo luogo, la ricorrente lamenta l’invasione della competenza legislativa concorrente nella materia «governo del territorio» di cui all’art. 117, terzo comma, Cost.; in secondo luogo, lamenta la lesione delle competenze amministrative riconosciutele dall’art. 118, primo comma, Cost. e del principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost., poiché l’eventuale chiamata in sussidiarietà sarebbe avvenuta in assenza di esigenze unitarie, e non avrebbe garantito la partecipazione regionale; infine, la disposizione è impugnata anche per violazione del quinto comma dell’art. 119 Cost., perché le risorse “aggiuntive” stanziate dallo Stato sono considerate dalla ricorrente funzionali a garantire «ordinarie competenze comunali» e non scopi diversi dal normale esercizio delle proprie funzioni.

4.1.– È necessaria anzitutto una precisazione sulle argomentazioni che l’Avvocatura generale dello Stato contrappone, nella sua memoria di costituzione, ai motivi posti dalla Regione Veneto a sostegno del ricorso.

La difesa erariale reputa che le disposizioni impugnate si limiterebbero ad attribuire al decreto interministeriale «il compito di ripartire le risorse finanziarie tra i beneficiari selezionati, sulla base dei criteri soggettivi e oggettivi individuati a monte dal legislatore». L’esigenza di predisporre una graduatoria unica nazionale per tutti i comuni beneficiari giustificherebbe l’attrazione in sussidiarietà della funzione amministrativa e della correlata funzione legislativa «sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza, di cui all’art. 118, comma 1, della Costituzione». Nella stessa memoria di costituzione, tuttavia, l’Avvocatura afferma anche che il titolo di competenza legislativa prevalente non sarebbe quello individuato dalla Regione Veneto, «governo del territorio», bensì «quello previsto dall’articolo 119, comma 5, della Costituzione che riserva alla competenza esclusiva dello Stato la destinazione di “risorse aggiuntive” e la realizzazione di “interventi speciali” volti a promuovere lo sviluppo economico e la coesione sociale in favore di determinati Enti territoriali».

In proposito, questa Corte ha chiarito che l’art. 119, quinto comma, Cost. non disciplina le competenze legislative dello Stato, ma prevede che quest’ultimo possa istituire fondi cosiddetti “verticali” – «lo Stato destina risorse aggiuntive» – nel rispetto di tre condizioni: a) devono avere il carattere di risorse aggiuntive o di interventi speciali; b) devono avere finalità tipologicamente individuate dalla previsione costituzionale, ossia promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, rimuovere gli squilibri economici e sociali, favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni; c) devono essere destinati a enti territoriali determinati (sentenze n. 40 del 2022 e n. 187 del 2021).

4.2.– Tanto premesso, occorre identificare l’ambito materiale a cui ricondurre la disposizione impugnata, considerata la priorità logica che, nei giudizi in via principale, riveste lo scrutinio di legittimità riferito al riparto di competenze (sentenza n. 70 del 2022).

La giurisprudenza di questa Corte ha ricondotto gli interventi in ambito di urbanistica, di riqualificazione e rigenerazione urbana – quali quelli impugnati – alla materia di legislazione concorrente «governo del territorio» (ex multis, sentenze n. 24 del 2022, n. 202, n. 124, n. 115 del 2021, nonché n. 70 del 2020).

Quanto alle competenze amministrative in ambito urbanistico, questa Corte ha chiarito, con la sentenza n. 179 del 2019, che «la funzione di pianificazione comunale rientra in quel nucleo di funzioni amministrative intimamente connesso al riconoscimento del principio dell’autonomia comunale», e ha altresì precisato che «essa non implica una riserva intangibile di funzioni, né esclude che il legislatore competente possa modulare gli spazi dell’autonomia municipale a fronte di esigenze generali che giustifichino ragionevolmente la limitazione di funzioni già assegnate agli enti locali».

Conclusivamente, all’interno del delicato rapporto tra l’autonomia comunale e quella regionale, la suddetta competenza legislativa regionale non può mai essere esercitata in modo che ne risulti vanificata l’autonomia dei comuni (sentenze n. 202 del 2021 e n. 179 del 2019).

Tale “condivisione” di competenze amministrative con il livello comunale trova conforto in diversi precedenti giurisprudenziali (ex multis, sentenze n. 74 e n. 56 del 2019) su casi analoghi, in cui – a fronte di attrazione in sussidiarietà da parte dello Stato di funzioni amministrative (e correlate funzioni legislative) in ambiti di competenza legislativa concorrente regionale, in cui si esplicano altresì rilevanti competenze amministrative comunali – è stata ritenuta necessaria l’acquisizione dell’intesa in sede di Conferenza unificata, che coinvolge sia le regioni che gli enti locali, ai sensi dell’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281 (Definizione ed ampliamento delle attribuzioni della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano ed unificazione, per le materie ed i compiti di interesse comune delle regioni, delle province e dei comuni, con la Conferenza Stato - città ed autonomie locali).

Dalla riconducibilità delle disposizioni impugnate alla materia «governo del territorio» di legislazione concorrente consegue che le norme dettate dallo Stato possano trovare legittimazione se stabiliscono princìpi fondamentali, secondo quanto previsto dall’art. 117, terzo comma, Cost., ovvero se dettate per effetto della «chiamata in sussidiarietà», purché vengano garantite idonee procedure collaborative (sentenza n. 6 del 2023).

4.3.– Con riferimento alla fattispecie in esame, deve rilevarsi che la disposizione impugnata non configura né una tipologia di finanziamento riconducibile al quinto comma dell’art. 119 Cost., né un intervento di principio nella materia «governo del territorio», quanto piuttosto un tipico caso di chiamata in sussidiarietà.

Le risorse assegnate dalla disposizione impugnata, infatti, rappresentano l’implementazione del programma di rigenerazione urbana intrapreso dal legislatore statale con l’art. 1, commi 42 e 43, della legge n. 160 del 2019, volto alla riduzione di fenomeni di marginalizzazione e degrado sociale di tutti i comuni italiani, nonché al miglioramento della qualità del decoro urbano e del tessuto sociale e ambientale. Questo programma poi recepito tra le linee di investimento finanziate con il PNRR, ai sensi dell’art. 20, comma 1, lettera a), del decreto-legge 6 novembre 2021, n. 152, recante «Disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per la prevenzione delle infiltrazioni mafiose», convertito, con modificazioni, nella legge 29 dicembre 2021, n. 233 – precisamente, Missione 5 (Inclusione e coesione), Componente 2 (Infrastrutture sociali, famiglie, comunità e Terzo settore) che, per gli interventi di rigenerazione urbana, mira a ridurre i divari di cittadinanza e i divari generazionali, mediante interventi in progetti di rigenerazione urbana volti a ridurre situazioni di emarginazione e degrado sociale (M5C2 Investimento 2.1) e Piani urbani integrati (M5C2 Investimento 2.2). La finalità di tali interventi rivela dunque l’esigenza di una gestione unitaria.

Nell’attuare la prima tranche di investimenti, relativa al triennio 2021-2023, l’art. 1, comma 43, della legge n. 160 del 2019 ha demandato: a) a un d.P.C.m., da adottarsi entro il 30 settembre 2020 per il triennio di riferimento (quindi per gli anni 2021, 2022, 2023), l’individuazione dei «criteri e [del]le modalità di ammissibilità delle istanze e di assegnazione dei contributi […] incluse le modalità […] di monitoraggio», previa intesa in Conferenza Stato-città ed autonomie locali, poi effettivamente sancita in data 26 novembre 2020, che ha consentito l’emanazione del d.P.C.m. 21 gennaio 2021 sui criteri di riparto, condiviso con le comunità locali; b) a due decreti del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, le modalità di trasmissione delle istanze per la concessione dei contributi, nonché l’effettiva assegnazione delle risorse.

Lo Stato, con la legge n. 234 del 2021, assegna, esclusivamente per il 2022, per le medesime finalità stabilite dalla legge n. 160 del 2019, risorse aggiuntive pari a euro 300 milioni ai comuni con popolazione inferiore a 15 mila abitanti, o, comunque, rimasti esclusi dal precedente riparto.

4.4.– Così ricostruito il contesto normativo di riferimento, la questione di legittimità costituzionale del comma 537, promossa in riferimento agli artt. 117, terzo comma, e 120 Cost., è fondata.

Questa Corte, con indirizzo pressoché costante, ha ribadito che gli interventi statali di “attrazione in sussidiarietà” per ritenersi legittimi devono esercitarsi nel rispetto della leale collaborazione; devono infatti essere garantiti momenti partecipativi per gli enti territoriali “espropriati” delle proprie prerogative costituzionali, a fronte dell’esigenza di assicurare un esercizio unitario delle funzioni (ex multis, sentenze n. 6 del 2023, n. 179, n. 123 e n. 40 del 2022, n. 104 del 2021).

Nella fattispecie in esame, lo Stato ha attratto, con chiamata in sussidiarietà, le competenze amministrative di dettaglio, unitamente alle rispettive competenze legislative regionali, nella materia «governo del territorio» e, nel fare ciò, ha recepito i contenuti di un d.P.C.m. precedente, adottato previa intesa in sede di Conferenza Stato-città ed autonomie locali (come stabilito a suo tempo dalla norma legislativa che lo prevedeva), senza garantire il coinvolgimento delle regioni.

Il mancato coinvolgimento delle regioni si è registrato non solo a monte dell’adozione del d.P.C.m., ma anche a valle della sua attuazione. La disposizione impugnata non ha previsto alcuna procedura atta a garantire la reale partecipazione degli enti territoriali nella fase gestoria del fondo, ossia prima dell’adozione del più volte citato decreto interministeriale, il quale, evidentemente, nell’individuare i comuni beneficiari delle risorse, implica una valutazione sulla pertinenza e sulla rilevanza delle opere da finanziare.

Tale elemento determina una lesione delle prerogative costituzionali assegnate alle regioni dall’art. 117, terzo comma, Cost., in materia «governo del territorio», e del principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost.

Da ciò consegue l’illegittimità costituzionale del comma 537 dell’art. 1 della legge n. 234 del 2021, nella parte in cui non prevede che il decreto interministeriale di riparto delle risorse sia adottato previa intesa in sede di Conferenza unificata.

Restano assorbite le ulteriori censure promosse nei confronti della medesima disposizione.

5.– L’ultima questione promossa dalla Regione Veneto riguarda l’art. 1, comma 721, lettera a), della legge n. 234 del 2021, il quale – nel demandare a un accordo, concluso in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, tra Stato e regioni «la definizione di linee-guida condivise» in materia di tirocini extracurriculari – stabilisce che la revisione della disciplina debba avvenire «secondo criteri che ne circoscrivano l’applicazione in favore di soggetti con difficoltà di inclusione sociale».

La disposizione è impugnata in riferimento agli artt. 3, 117, quarto comma, e 120 Cost., assumendo che sarebbe invasiva della competenza legislativa regionale residuale nella materia «formazione professionale», e, congiuntamente, lesiva dei principi di ragionevolezza e di leale collaborazione, in quanto predetermina rigidamente i criteri per la definizione delle linee guida, così “blindando” i contenuti dell’accordo fra i diversi livelli di governo.

5.1.– Anche in questo caso occorre muovere dallo scrutinio di legittimità costituzionale riferito al riparto di competenze, per la priorità logica che lo stesso riveste nei giudizi in via principale.

5.2.– La questione promossa in riferimento all’art. 117, quarto comma, Cost. è fondata.

5.2.1.– In tema di tirocini extracurricolari, questa Corte ha affermato che, dopo la riforma costituzionale del 2001, la competenza legislativa esclusiva delle regioni in materia di istruzione e formazione professionale «“riguarda la istruzione e la formazione professionale pubbliche che possono essere impartite sia negli istituti scolastici a ciò destinati, sia mediante strutture proprie che le singole Regioni possano approntare in relazione alle peculiarità delle realtà locali, sia in organismi privati con i quali vengano stipulati accordi” (sentenza n. 50 del 2005). Viceversa, la disciplina della formazione interna – ossia quella formazione che i datori di lavoro offrono in ambito aziendale ai propri dipendenti – di per sé non rientra nella menzionata materia, né in altre di competenza regionale; essa, essendo intimamente connessa con il sinallagma contrattuale, attiene all’ordinamento civile, sicché spetta allo Stato stabilire la relativa normativa (sentenza n. 24 del 2007)» (sentenza n. 287 del 2012).

Nella sentenza appena richiamata, questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una disposizione statale che limitava la promozione dei tirocini extracurricolari unicamente a favore di neo-diplomati o neo-laureati entro e non oltre dodici mesi dal conseguimento del relativo titolo di studio poiché, intervenendo «in via diretta in una materia che non ha nulla a che vedere con la formazione aziendale», determinava «un’indebita invasione dello Stato in una materia di competenza residuale delle Regioni».

Nel caso in esame, la disposizione statale impugnata circoscrive l’applicazione dei tirocini curriculari a soggetti con difficoltà di inclusione sociale, escludendo la possibilità per le regioni di introdurre, in sede di accordo, ogni diversa scelta formativa.

Tale limitazione determina anche in questo caso, analogamente a quanto affermato nel richiamato precedente, «un’indebita invasione» (sentenza n. 287 del 2012) della competenza legislativa regionale residuale in materia di «formazione professionale».

La disposizione impugnata, pertanto, deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 117, quarto comma, Cost.

Restano assorbiti gli ulteriori profili di censura.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 537, della legge 30 dicembre 2021, n. 234 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2022 e bilancio pluriennale per il triennio 2022-2024), nella parte in cui non prevede che il decreto interministeriale di determinazione dell’ammontare del contributo attribuito a ciascun comune sia adottato previa intesa in sede di Conferenza unificata;

2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 721, lettera a), della legge n. 234 del 2021;

3) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 269, lettera c), della legge n. 234 del 2021, promossa, in riferimento all’art. 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, dalla Regione Veneto con il ricorso indicato in epigrafe;

4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 269, lettera c), della legge n. 234 del 2021, promosse, in riferimento agli artt. 3, 32, 97, secondo comma, e 117, commi terzo e quarto, Cost., dalla Regione Veneto con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 febbraio 2023.

F.to:

Silvana SCIARRA, Presidente

Angelo BUSCEMA, Redattore

Valeria EMMA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 14 aprile 2023.