Sentenza n. 8 del 2023

 SENTENZA N. 8

ANNO 2023

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Silvana SCIARRA

Giudici: Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI,ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 2033 del codice civile promossi dal Tribunale ordinario di Lecce, sezione lavoro, con ordinanze del 21 gennaio e del 25 febbraio 2022, e dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, con ordinanza del 14 dicembre 2021, iscritte, rispettivamente, ai numeri 9, 29  e 21 del registro ordinanze 2022 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 8, 11 (rectius: 14: n.d.r.) e 14, prima serie speciale, dell’anno 2022.

Visti gli atti di costituzione dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), del Comune di Campi Bisenzio e di L. P., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udita nell’udienza pubblica del 29 novembre 2022 e nella camera di consiglio del 30 novembre 2022 la Giudice relatrice Emanuela Navarretta;

uditi nell’udienza pubblica del 29 novembre 2022 gli avvocati Vincenzo Stumpo per l’INPS, Federico De Meo per il Comune di Campi Bisenzio, Francesco D’Addario per L. P. e l’avvocato dello Stato Lorenzo D’Ascia per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 30 novembre 2022.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 21 gennaio 2022, iscritta al n. 9 del registro ordinanze 2022, il Tribunale ordinario di Lecce, sezione lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2033 del codice civile, «nella parte in cui non prevede l’irripetibilità dell’indebito previdenziale non pensionistico (indennità di disoccupazione, nel caso di specie) laddove le somme siano state percepite in buona fede e la condotta dell’ente erogatore abbia ingenerato [un] legittimo affidamento del percettore circa la spettanza della somma percepita».

Il rimettente riferisce che P. D.R. ha convenuto in giudizio l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) per sentir accertare l’insussistenza dell’obbligo di restituire euro 1.926,60 che l’ente previdenziale, con nota del 26 novembre 2013, aveva richiesto a titolo di maggiori somme indebitamente corrisposte sull’indennità di disoccupazione percepita tra ottobre 2004 e luglio 2005. A sostegno della propria pretesa, il ricorrente nel giudizio a quo ha eccepito la violazione dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), dell’art. 52 della legge 9 marzo 1989, n. 88 (Ristrutturazione dell’Istituto nazionale della previdenza sociale e dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro), nonché del principio di buona fede. A tal riguardo, ha evidenziato il lungo tempo trascorso tra la cessazione dell’erogazione e la prima richiesta di restituzione, la conoscenza da parte dell’INPS di tutti gli elementi per determinare l’indennità e la destinazione della somma a esigenze alimentari.

Il Tribunale di Lecce riporta che l’INPS si è costituito in giudizio e ha formulato alcune eccezioni preliminari, per poi invocare la costante giurisprudenza della Corte di cassazione, secondo cui è ammessa la ripetibilità delle somme versate in eccesso a titolo di indennità di disoccupazione, senza che la relativa pretesa possa essere esclusa dalla buona fede soggettiva dell’accipiens.

1.1.– In via preliminare, sotto il profilo della rilevanza, il Tribunale di Lecce sostiene che le eccezioni di decadenza e di prescrizione sollevate dall’INPS non sono fondate e che non è possibile decidere la lite sulla base delle altre norme evocate dal ricorrente. Inoltre, evidenzia che non è possibile procedere a una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2033 cod. civ.

Nel merito, il giudice a quo qualifica come diritto vivente il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, in virtù del quale la norma censurata sarebbe applicabile alle prestazioni indebitamente versate a titolo di indennità di disoccupazione.

Nondimeno, secondo il rimettente, l’art. 2033 cod. civ. si porrebbe in contrasto con l’art. 1 Prot. addiz. CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, e dunque violerebbe gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.

In particolare, il Tribunale di Lecce sottolinea come la giurisprudenza della Corte EDU estenda la protezione garantita dal citato art. 1 al legittimo affidamento riposto da una persona fisica nella spettanza di prestazioni previdenziali o retributive erogate da un ente pubblico. In simili ipotesi, ove l’ente erogatore abbia tenuto una condotta idonea a ledere in misura sproporzionata il citato interesse dell’accipiens, quest’ultimo avrebbe diritto a trattenere le somme ricevute.

Secondo il giudice a quo, nel caso di specie, sussisterebbero tutti gli indici con cui la giurisprudenza convenzionale concretizza la lesione di un affidamento legittimo: il reiterarsi delle erogazioni indebite; la richiesta di restituzione dopo un periodo di tempo prolungato (nel caso di specie erano trascorsi più di otto anni); la buona fede soggettiva dell’accipiens al momento della percezione delle somme non dovute; l’insussistenza di un mero errore materiale o di calcolo; la mancata previsione di una riserva di ripetizione all’atto del pagamento da parte dell’ente.

Su tali basi, il rimettente sollecita questa Corte all’adozione di una sentenza additiva, che dichiari l’illegittimità costituzionale dell’art. 2033 cod. civ. nei termini sopra enunciati.

1.2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 15 marzo 2022.

1.2.1.– In rito, ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza e, comunque, per implausibile motivazione sulla rilevanza.

L’Avvocatura dello Stato assume, infatti, che il Tribunale di Lecce si sia riservato di accertare in fatto la sussistenza degli elementi dimostrativi del legittimo affidamento dell’attore, solo all’esito dell’eventuale intervento additivo operato da questa Corte. In tal modo, l’ordinanza avrebbe finito con il «prescindere dalla verifica preventiva dell’esistenza di una fattispecie concreta che possa comportare la rilevanza della questione». Del resto, secondo l’Avvocatura, un’effettiva indagine relativa ai suddetti elementi avrebbe portato il rimettente a constatare il loro difetto, con la conseguenza che un’eventuale sentenza di accoglimento risulterebbe comunque priva di utilità nel giudizio a quo.

Sempre sotto il profilo della rilevanza, la difesa statale ha eccepito che il rimettente non avrebbe accertato «se e in quale misura il recupero delle somme da parte dell’Inps sia avvenuto e abbia determinato un sacrificio sproporzionato in capo al percettore, circostanza comunque neanche allegata dall’accipiens nel suo ricorso al Tribunale di Lecce».

1.2.2.– Nel merito, l’Avvocatura dello Stato eccepisce la non fondatezza delle questioni.

Secondo la difesa statale, la giurisprudenza della Corte EDU non opererebbe alcuna distinzione tra «interessi positivi derivanti da aspettative di diritto» e «interessi negativi derivanti dal mero affidamento in uno stato di apparenza determinato da un comportamento colpevole dell’Amministrazione», distinguo che avrebbe, viceversa, rilievo nel diritto nazionale. Nel caso di condotte dello Stato non conformi ai canoni di correttezza e buona fede oggettiva lesive di affidamenti, l’ordinamento italiano riconoscerebbe una tutela risarcitoria, ma non un «rimedio in integrum», salva la possibilità di opporre, secondo una valutazione caso per caso, l’inesigibilità della prestazione.

Tale apparato rimediale, a detta dell’Avvocatura, non violerebbe gli obblighi internazionali, ma attuerebbe un bilanciamento – tra la tutela del legittimo affidamento del percettore e l’interesse generale alla stretta applicazione delle norme poste a presidio della finanza pubblica – che rientrerebbe nel margine di apprezzamento spettante agli Stati aderenti alla CEDU. Nell’esercizio di tale discrezionalità, il legislatore italiano avrebbe previsto solo in casi del tutto eccezionali, non suscettibili di applicazione analogica, la irripetibilità delle somme erogate da enti pubblici.

1.3.– Con atto depositato il 3 marzo 2022, si è costituito in giudizio l’INPS, parte in quello a quo.

In rito, l’Istituto ha eccepito il difetto di rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate, adducendo l’insussistenza degli «indici sintomatici del legittimo affidamento» evocati dalla giurisprudenza della Corte EDU, a partire dalla mancata dimostrazione che non si sia trattato di un mero errore di calcolo o di un errore materiale.

Nel merito, l’INPS ha contestato che sia ravvisabile un orientamento costante della giurisprudenza della Corte EDU in tema di irripetibilità delle prestazioni previdenziali non pensionistiche, indebitamente corrisposte a chi vanti un legittimo affidamento, e ha sostenuto che rientri nel margine di apprezzamento degli Stati disciplinare le ipotesi di (parziale o totale) irripetibilità delle erogazioni pubbliche. L’ordinamento italiano avrebbe legittimamente esercitato la propria discrezionalità, prevedendo solo in via eccezionale l’irripetibilità per specifiche categorie di erogazioni previdenziali, a latere del principio generale di ripetibilità delle prestazioni indebite, sancito dall’art. 2033 cod. civ.

L’INPS ha concluso, pertanto, nel senso della non fondatezza delle questioni sollevate.

1.4.– Con memoria integrativa depositata il 7 novembre 2022, l’Avvocatura dello Stato ha ribadito il mancato accertamento da parte del giudice a quo dei requisiti costitutivi del legittimo affidamento e ha sottolineato come il rimettente, diversamente da quanto emerge dalla giurisprudenza della Corte EDU, avrebbe omesso di dare rilevanza, ai fini della deroga all’art. 2033 cod. civ., alla «grave situazione personale (di salute ed economico-patrimoniale) dell’interessato».

Pertanto, la difesa statale ha ritenuto che non sarebbe configurabile «una fattispecie riconducibile alla casistica della Corte europea dei diritti dell’uomo evocata nell’ordinanza di rimessione» e che il rimettente non avrebbe verificato il carattere sproporzionato del sacrificio imposto.

Il medesimo argomento è stato, inoltre, riproposto anche sotto il profilo del merito.

Viene, infatti, evidenziato come, secondo la prospettiva accolta dalla Corte EDU, in mancanza di un accertamento sulla condizione personale dell’accipiens, non basterebbe il solo affidamento legittimo a «configurare, ex se, una situazione di sproporzione dell’interferenza dello Stato nel diritto di proprietà dell’interessato, tale da riconoscergli una tutela che si traduca nella conservazione del bene nella sua integralità».

Inoltre, viene sottolineato come, in virtù degli artt. 1175 e 1375 cod. civ., siano disponibili nell’ordinamento italiano correttivi che incidono sull’adempimento, idonei a garantire un adeguato bilanciamento fra i diversi interessi implicati, sino a consentire in casi estremi una possibile inesigibilità totale.

2.– Con ordinanza del 14 dicembre 2021, iscritta al n. 21 del reg. ord. 2022, la Corte di cassazione, sezione lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2033 cod. civ., «nella parte in cui, in caso di indebito retributivo erogato da un ente pubblico e di legittimo affidamento del dipendente pubblico percipiente nella definitività dell’attribuzione, consente un’ingerenza non proporzionata nel diritto dell’individuo al rispetto dei suoi beni».

2.1.– La Corte rimettente riferisce che L. P., già dirigente comunale del Comune di Campi Bisenzio, ha agito in giudizio dinanzi al Tribunale ordinario di Firenze per sentir dichiarare irripetibile la somma a lei corrisposta dal Comune negli anni 2001-2003 per retribuzione di posizione, pari a euro 49.203,03.

La domanda, rigettata in primo grado, era stata accolta dalla Corte d’appello di Firenze con sentenza del 25 febbraio 2015. A parere del giudice di secondo grado, la nullità della contrattazione decentrata che, in deroga alla contrattazione nazionale, aveva aumentato la retribuzione di posizione, erogata in favore della lavoratrice, sarebbe stata sanata dall’entrata in vigore del decreto-legge 6 marzo 2014, n. 16 (Disposizioni urgenti in materia di finanza locale, nonché misure volte a garantire la funzionalità dei servizi svolti nelle istituzioni scolastiche), convertito, con modificazioni, nella legge 2 maggio 2014, n. 68.

Avverso la citata sentenza d’appello, il Comune di Campi Bisenzio ha proposto ricorso per cassazione, articolato in sei motivi di censura, cui ha resistito L. P. con controricorso, contenente anche ricorso incidentale.

2.2.– Le motivazioni svolte dalla Corte di cassazione in merito alla rilevanza e alla non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate si dipanano a partire dalla fondatezza del primo motivo di ricorso principale e del quarto motivo di ricorso incidentale.

Innanzitutto, la Corte di cassazione condivide la doglianza del Comune ricorrente, con la quale viene contestata, in linea con una costante giurisprudenza di legittimità, l’applicabilità della sanatoria prevista dal d.l. n. 16 del 2014, come convertito, agli atti di costituzione e di utilizzo dei fondi adottati in epoca antecedente all’entrata in vigore del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni). Non potendo, dunque, operare la sanatoria dell’atto invalido, viene riconosciuto il diritto dell’amministrazione comunale a ripetere le somme versate in esecuzione del contratto integrativo parzialmente nullo.

Di seguito, proprio la fondatezza di tale prima censura del Comune giustifica, ad avviso della Corte rimettente, l’esame del quarto motivo del ricorso incidentale, con il quale L. P. aveva chiesto, ove fosse accertata la nullità del contratto, di negare il diritto alla ripetizione dell’indebito a tutela «dell’affidamento del lavoratore che, in buona fede, [avesse] ricevuto dal datore di lavoro pubblico retribuzioni non dovute».

La Corte di cassazione, da un lato, riconosce che al recupero delle prestazioni retributive indebite si applica l’art. 2033 cod. civ., ma, da un altro lato, ammette l’esigenza di tenere conto della sentenza della Corte EDU 11 febbraio 2021, Casarin contro Italia. Con tale pronuncia, la Corte EDU ha accertato la violazione dell’art. 1 Prot. addiz. CEDU, a fronte proprio di una fattispecie nella quale una dipendente pubblica aveva dovuto restituire al datore di lavoro, ex art. 2033 cod. civ., le retribuzioni indebite percepite a titolo di assegno ad personam.

La Corte rimettente ritiene, in particolare, che, nella controversia sottoposta al suo esame, «ricorr[a]no tutti gli indici valorizzati nella sentenza della Corte EDU dell’1l febbraio 2021, tanto in relazione all’esistenza di un legittimo affidamento – nel senso autonomo della Convenzione – quanto [in relazione] al venir meno del giusto equilibrio tra le esigenze dell’interesse pubblico generale e il diritto dell’individuo al rispetto dei suoi beni».

Di conseguenza, dopo aver ripercorso la giurisprudenza convenzionale in argomento, constatandone l’univocità, e dopo aver infruttuosamente tentato un’interpretazione convenzionalmente orientata dell’art. 2033 cod. civ., la Corte di cassazione ha motivato la non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate, adducendo l’esigenza che l’ordinamento nazionale si conformi alle previsioni dell’art. 1 Prot. addiz. CEDU, come interpretato dalla Corte EDU.

2.3.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 4 aprile 2022.

La difesa dello Stato ha eccepito in via preliminare l’inammissibilità delle questioni per difetto di motivazione sulla rilevanza.

Secondo l’Avvocatura dello Stato, l’ordinanza di rimessione non avrebbe verificato quale sia l’attuale posizione reddituale della lavoratrice ricorrente, né l’incidenza dell’obbligo restitutorio (eventualmente rateizzato) su detta posizione reddituale. Ciò non consentirebbe di verificare appieno «la sussistenza del requisito della rilevanza della questione sollevata, essendo possibile che la fattispecie non rientri nella casistica elaborata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, potendo superare il test di proporzionalità come elaborato da quest’ultima».

Nel merito, la difesa dello Stato ha eccepito la non fondatezza delle questioni sulla base di argomenti del tutto similari a quelli prospettati nella difesa relativa alle questioni sollevate con l’ordinanza di rimessione iscritta al n. 9 del reg. ord. 2022.

2.4.– Il Comune di Campi Bisenzio, parte del giudizio a quo, si è costituito in giudizio con atto depositato il 18 marzo 2022, sostenendo, con lo stesso tipo di argomentazione, tanto l’inammissibilità quanto la non fondatezza delle questioni.

Dopo aver ricordato il valore «sub-costituzionale» delle norme convenzionali e delle relative interpretazioni della Corte EDU, il Comune di Campi Bisenzio ha rilevato la non conformità ai principi costituzionali dell’interpretazione offerta dalla sentenza Casarin all’art. 1 Prot. addiz. CEDU. Simile ricostruzione si porrebbe in contrasto con il «principio fondamentale dell’ordinamento, per il quale (nei limiti della prescrizione) ogni indebito deve sempre essere ripetibile in favore di chi abbia effettuato il pagamento non dovuto». In particolare, l’applicazione della regola consacrata nell’art. 2033 cod. civ. agli indebiti spettanti a soggetti pubblici si collegherebbe ai «principi dettati in materia di finanza pubblica, buon andamento e gestione del pubblico denaro, di cui agli artt. 81, 97 e 119 Cost.» e tollererebbe deroghe solo in via eccezionale, sulla base di norme puntuali che attengono alla specifica materia dell’indebito pensionistico e assistenziale, grazie al rilievo costituzionale riconosciuto dall’art. 38 Cost. alle relative prestazioni.

Al contempo, la difesa comunale segnala che già attualmente l’art. 2033 cod. civ. sarebbe interpretato dal diritto vivente in maniera da tutelare la buona fede dell’accipiens e in modo da non incidere significativamente sulle esigenze di vita del debitore.

Infine, secondo il Comune, la vicenda oggetto del presente giudizio sarebbe diversa da quella che aveva portato alla sentenza Casarin della Corte EDU. Difetterebbero, infatti, la gran parte dei presupposti ivi indicati, quali condizioni per escludere il recupero delle somme indebitamente versate.

2.5.– Con atto depositato il 23 marzo 2022, si è costituita in giudizio anche L. P., parte del giudizio a quo, che ha aderito alle argomentazioni formulate dalla Corte rimettente e ha confidato nell’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale.

In data 20 ottobre 2022, L. P. ha, inoltre, depositato una memoria integrativa, con la quale ha inteso confutare le eccezioni d’inammissibilità e di non fondatezza sollevate dall’Avvocatura generale dello Stato e dal Comune di Campi Bisenzio, per poi concludere nuovamente in senso adesivo all’ordinanza di rimessione.

In via gradata, L. P. ha chiesto che questa Corte, ove ritenesse erronea la ricostruzione del quadro normativo offerta dal giudice remittente, adotti, «in luogo di una statuizione di inammissibilità, piuttosto una statuizione interpretativa di rigetto motivata sul punto con la applicabilità dell’art. 4 comma 3° D.L. n. 16/2014 alla contrattazione collettiva anteriore alla entrata in vigore del D. Legisl. n. 150/2009».

2.6.– Con memoria depositata il 7 novembre 2022, l’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’irrilevanza delle questioni, «non configurandosi una fattispecie riconducibile alla casistica della Corte europea dei diritti dell’uomo evocata nell’ordinanza di rimessione» sia sotto il profilo della sussistenza dell’affidamento (posto che la beneficiaria non potrebbe dirsi in buona fede, vista l’entità dell’incremento percepito) sia per il mancato accertamento del carattere sproporzionato del sacrificio imposto. Non sarebbero state, dunque, considerate le condizioni di salute e quelle economico-patrimoniali dell’accipiens, né sarebbe stata valutata l’incidenza dell’obbligo restitutorio sulla possibilità di soddisfare i propri bisogni primari, tanto più stante la probabile mancata richiesta di rateizzazione o di differimento del pagamento da parte della lavoratrice.

Nel merito, la difesa dello Stato ha ribadito quanto sostenuto nell’atto di intervento e ha utilizzato i medesimi argomenti spesi nella memoria depositata nel giudizio originato dall’ordinanza di rimessione iscritta al n. 9 del reg. ord. 2022.

3.– Con ordinanza del 25 febbraio 2022, iscritta al n. 29 del reg. ord. 2022, il Tribunale di Lecce, sezione lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2033 cod. civ., «nella parte in cui non prevede, per i dipendenti pubblici, l’irripetibilità degli indebiti retributivi laddove le somme siano state percepite in buona fede e la condotta dell’Amministrazione datrice di lavoro abbia ingenerato [un] legittimo affidamento del percettore circa la spettanza della somma percepita».

3.1.– Il rimettente riferisce che M. O. ha convenuto in giudizio l’Agenzia delle entrate, nella qualità di datrice di lavoro, nonché il Ministero dell’economia e delle finanze, per sentir accertare la non spettanza della somma di euro 17.492,17, che l’Agenzia, con nota del 27 agosto 2021, aveva richiesto a titolo di indebita fruizione di permessi concessi ai sensi della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate).

A sostegno della propria pretesa, il ricorrente nel giudizio a quo ha segnalato di aver sempre usufruito in buona fede dei permessi, avendo regolarmente presentato le relative istanze, corredate della documentazione richiesta, senza mai ricevere alcuna contestazione da parte dell’amministrazione.

Tali circostanze darebbero fondamento alla sua pretesa di considerare irripetibile l’indebito.

3.2.– Il giudice a quo sostiene che, in base a un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, ove si accerti che, in materia di pubblico impiego privatizzato, l’amministrazione abbia versato retribuzioni sine titulo, sarebbe ammessa la ripetizione dell’indebito in applicazione della disciplina generale di cui all’art. 2033 cod. civ. In particolare, la condictio indebiti non risulterebbe esclusa neppure in ipotesi di buona fede dell’accipiens, atteso che, secondo il citato art. 2033 cod. civ., la buona fede soggettiva rileverebbe solo ai fini della restituzione dei frutti e degli interessi.

Nondimeno, ad avviso del rimettente, la disciplina sopra richiamata si porrebbe in contrasto con l’art. 1 Prot. addiz. CEDU, così come interpretato dalla Corte EDU, e dunque violerebbe gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.

Il Tribunale di Lecce sottolinea come la giurisprudenza della Corte EDU estenda la protezione garantita dal citato art. 1 al legittimo affidamento nella spettanza di erogazioni effettuate, «in materia sia lavoristica sia previdenziale», da soggetti pubblici a favore di persone fisiche, le quali, a fronte di successive istanze restitutorie, avrebbero, se in buona fede, diritto a trattenere le somme ricevute.

Secondo il rimettente, nel caso di specie, sarebbero presenti tutti gli indici individuati dalla giurisprudenza convenzionale a fondamento del legittimo affidamento: l’accipiens avrebbe fruito dei benefici a seguito di domanda accolta dall’amministrazione; non vi sarebbe alcuna manifesta insussistenza del titolo; il ricorrente non avrebbe mai taciuto alcuna informazione all’ente datore di lavoro; il ricorrente avrebbe fruito dei benefici per un lungo periodo di tempo; non sarebbero ravvisabili errori di calcolo o errori materiali; l’amministrazione non avrebbe formulato clausole di riserva di ripetizione all’atto della concessione dei permessi.

Su tali basi, il Tribunale di Lecce sollecita l’adozione di una sentenza additiva, che dichiari l’illegittimità costituzionale dell’art. 2033 cod. civ. nei termini sopra enunciati.

3.3.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 25 aprile 2022.

La difesa dello Stato ha eccepito, in via preliminare, l’inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza. Secondo l’Avvocatura, il Tribunale di Lecce si sarebbe riservato di accertare, solo all’esito dell’intervento additivo di questa Corte, la sussistenza in fatto degli elementi dimostrativi del legittimo affidamento dell’attore, con conseguente irrimediabile irrilevanza delle questioni.

Del resto, secondo l’Avvocatura, un effettivo accertamento dei suddetti elementi avrebbe indotto il rimettente a dover constatare la loro insussistenza, ciò che paleserebbe l’inutilità e, dunque, l’irrilevanza di un’eventuale sentenza di accoglimento nel giudizio a quo.

Nel merito, la difesa dello Stato ha sostenuto la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale, sulla base di argomenti del tutto similari a quelli spesi nella difesa relativa alle questioni sollevate con le ordinanze di rimessione iscritte al n. 9 e n. 21 del reg. ord. 2022.

3.4.– Di seguito, in data 7 novembre 2022, il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato una memoria integrativa, nella quale ha eccepito l’irrilevanza delle questioni di legittimità costituzionale «non configurandosi una fattispecie riconducibile alla casistica della Corte europea dei diritti dell’uomo evocata nell’ordinanza di rimessione». In particolare, il giudice a quo non avrebbe accertato il carattere sproporzionato del sacrificio imposto, non avendo preso in considerazione la «grave situazione personale (di salute ed economico-patrimoniale) dell’interessato».

Nel merito, la difesa dello Stato ha ribadito quanto sostenuto nell’atto di intervento.

4.– Nell’udienza del 29 novembre 2022 le parti costituite e l’Avvocatura generale dello Stato hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni rassegnate nei rispettivi scritti difensivi.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 21 gennaio 2022, iscritta al n. 9 del reg. ord. 2022, il Tribunale ordinario di Lecce, sezione lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2033 cod. civ., «nella parte in cui non prevede l’irripetibilità dell’indebito previdenziale non pensionistico (indennità di disoccupazione, nel caso di specie) laddove le somme siano state percepite in buona fede e la condotta dell’ente erogatore abbia ingenerato [un] legittimo affidamento del percettore circa la spettanza della somma percepita».

Il rimettente riferisce che P. D.R. ha convenuto in giudizio l’INPS per sentir accertare l’irripetibilità della prestazione ricevuta a titolo di indennità di disoccupazione, in ragione del legittimo affidamento ingenerato dall’ente pubblico circa la spettanza della somma, che, oltretutto, sarebbe stata destinata al soddisfacimento di esigenze alimentari.

1.1.– Secondo il giudice a quo, al caso dell’indebito previdenziale non pensionistico, cui sarebbe ascrivibile l’indennità di disoccupazione, si applica l’art. 2033 cod. civ., che comporterebbe il rigetto della pretesa del ricorrente.

Nondimeno, a giudizio del rimettente, in presenza di un legittimo affidamento riposto da una persona fisica nella spettanza di una prestazione, quale l’indennità di disoccupazione, erogata da un soggetto pubblico, la pretesa restitutoria violerebbe gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in quanto si porrebbe in contrasto con l’art. 1 Prot. addiz. CEDU, come interpretato dalla Corte EDU.

Su tali basi, il rimettente sollecita questa Corte all’adozione di una sentenza additiva, che dichiari l’illegittimità costituzionale dell’art. 2033 cod. civ. nei termini enunciati in apertura.

1.2.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e si è costituito l’INPS, parte del processo a quo. Entrambi hanno eccepito sia l’inammissibilità delle questioni sia, nel merito, la loro non fondatezza.

2.– Con ordinanza del 14 dicembre 2021, iscritta al n. 21 del reg. ord. 2022, la Corte di cassazione, sezione lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2033 cod. civ., «nella parte in cui, in caso di indebito retributivo erogato da un ente pubblico e di legittimo affidamento del dipendente pubblico percipiente nella definitività dell’attribuzione, consente un’ingerenza non proporzionata nel diritto dell’individuo al rispetto dei suoi beni».

2.1.– La Corte rimettente riferisce che L. P. ha agito in giudizio dinanzi al Tribunale di Firenze per sentir dichiarare irripetibile la somma di euro 49.203,03, che le era stata corrisposta a titolo di retribuzione di posizione.

La Corte di cassazione ritiene che la pretesa restitutoria contrasti con quanto statuito dalla sentenza della Corte EDU Casarin proprio con riferimento all’indebito retributivo. Di conseguenza, il giudice a quo ravvisa una violazione dell’art. 1 Prot. addiz. CEDU, come interpretato dalla Corte EDU, e di riflesso un vulnus agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.

2.2.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e si è costituito il Comune di Campi Bisenzio, parte del processo a quo. Entrambi hanno eccepito l’inammissibilità delle questioni e comunque la loro non fondatezza.

Parimenti si è costituita in giudizio L. P., parte in quello a quo, che ha aderito alle argomentazioni formulate dalla Corte rimettente e ha insistito per l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale.

3.– Con ordinanza del 25 febbraio 2022, iscritta al n. 29 del reg. ord. 2022, il Tribunale di Lecce, sezione lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2033 cod. civ., «nella parte in cui non prevede, per i dipendenti pubblici, l’irripetibilità degli indebiti retributivi laddove le somme siano state percepite in buona fede e la condotta dell’Amministrazione datrice di lavoro abbia ingenerato [un] legittimo affidamento del percettore circa la spettanza della somma percepita».

3.1.– Il rimettente riferisce che M. O. ha convenuto in giudizio l’Agenzia delle entrate, nella qualità di datrice di lavoro, nonché il Ministero dell’economia e delle finanze, per sentir accertare la non spettanza della somma di euro 17.492,17, che l’Agenzia aveva richiesto a titolo di indebita fruizione di permessi concessi ai sensi della legge n. 104 del 1992.

Il giudice a quo, dopo aver qualificato tali prestazioni come retribuzioni sine titulo erogate da un soggetto pubblico, ritiene che, in presenza di un legittimo affidamento riposto da una persona fisica nella loro spettanza, la pretesa restitutoria vìoli gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., ponendosi in contrasto con quanto prescritto dall’art. 1 Prot. addiz. CEDU, come interpretato dalla Corte EDU.

Per tali ragioni, il Tribunale di Lecce sollecita l’adozione di una sentenza additiva, che dichiari l’illegittimità costituzionale dell’art. 2033 cod. civ. nei termini sopra richiamati.

3.2.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha eccepito tanto l’inammissibilità delle questioni quanto la loro non fondatezza.

4.– Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalle tre ordinanze di rimessione, in quanto sostanzialmente analoghe, si prestano a una trattazione congiunta mediante la riunione dei giudizi.

5.– Prima di procedere all’esame delle eccezioni di inammissibilità sollevate, occorre rilevare d’ufficio sia un vizio nel rito, che colpisce l’intera ordinanza di rimessione iscritta al n. 29 del reg. ord. 2022, sia un’ulteriore causa di inammissibilità che riguarda, nei restanti giudizi, la censura riferita all’art. 11 Cost.

5.1.– Sotto il primo profilo, il Tribunale di Lecce riferisce, con la citata ordinanza, che le somme richieste al lavoratore attengono all’indebita fruizione dei permessi previsti dalla legge n. 104 del 1992. In particolare, sostiene «che – nel pubblico impiego – la retribuzione dei permessi ex l. 104/92 non prevede il meccanismo di conguaglio con l’ente previdenziale (cfr. anche Cass. 20684/2016). Trattasi di somme a carico del datore di lavoro e come tali soggette all’art. 2033 cc in ipotesi di indebita percezione delle stesse».

Su tali presupposti, il rimettente qualifica la prestazione come retributiva e solleva questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2033 cod. civ., nella parte in cui considera ripetibili nei confronti dei dipendenti pubblici proprio gli indebiti retributivi, in presenza delle condizioni evidenziate dalla giurisprudenza della Corte EDU, nell’interpretazione da essa fornita dell’art. 1 Prot. addiz. CEDU.

Sennonché è ben vero che l’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992 stabilisce che «[i]l lavoratore dipendente, pubblico o privato, ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa, per assistere una persona con disabilità in situazione di gravità». Tuttavia, il successivo comma 4, nelle diverse formulazioni che si sono susseguite nel tempo, specifica che ai permessi previsti dai commi precedenti si applicano – quanto a trattamento economico, normativo e previdenziale – le disposizioni dettate in materia di tutela dei genitori lavoratori. In particolare, per effetto delle modifiche apportate al citato comma 4 dall’art. 3, comma 1, lettera b), numero 3), del decreto legislativo 30 giugno 2022, n. 105, recante «Attuazione della direttiva (UE) 2019/1158 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza e che abroga la direttiva 2010/18/UE del Consiglio», viene operato un rinvio agli artt. 43, 44 e 56 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53).

Tale disciplina, con i relativi rimandi e con la qualificazione come indennità delle remunerazioni attribuite per i permessi (art. 43 del d.lgs. n. 151 del 2001), palesa che le relative prestazioni, al pari di altre erogazioni disciplinate dal d.lgs. n. 151 del 2001, hanno natura previdenziale non pensionistica, e sono parametrate sì alla retribuzione, ma a questa non possono sic et simpliciter essere equiparate, data la loro funzione di assicurare un sostegno economico al lavoratore che versi in stato di bisogno per la condizione di disabilità grave, propria o di un suo familiare (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 19 aprile 2021, n. 10274). Né, del resto, tale funzione muta per i dipendenti pubblici, visto quanto dispone l’art. 2, comma 2, del citato d.lgs. n. 151 del 2001.

Ebbene, il rimettente non si confronta con l’assetto normativo, sopra richiamato, e prospetta le questioni di legittimità costituzionale con specifico riferimento agli indebiti retributivi dei pubblici dipendenti, sull’erroneo presupposto che la funzione delle somme versate a titolo di remunerazione dei permessi sia retributiva, mentre si tratta di prestazioni previdenziali non pensionistiche.

Ne consegue l’inammissibilità delle questioni sollevate per errore sul presupposto interpretativo che si riverbera sulla rilevanza (ex plurimis, sentenze n. 84 del 2022, n. 170 del 2021, n. 228 del 2020 e n. 224 del 2018).

5.2.– Ancora in via preliminare, devono essere dichiarate d’ufficio inammissibili le questioni di legittimità costituzionale promosse con le ordinanze di rimessione iscritte al n. 9 e n. 21 del reg. ord. 2022, in riferimento all’art. 11 Cost.

Secondo un orientamento costante di questa Corte, in presenza di censure che lamentino la violazione di disposizioni della CEDU, come interpretate dalla Corte EDU, il paramento costituzionale di cui all’art. 11 Cost. è inconferente, «non essendo individuabile, con riferimento alle specifiche norme convenzionali CEDU, alcuna limitazione della sovranità nazionale (sentenze n. 210 del 2013, n. 80 del 2011, n. 349 e n. 348 del 2007)» (sentenza n. 80 del 2019; analogamente sentenza n. 121 del 2020).

6.– Passando ora a esaminare le eccezioni di rito sollevate dall’Avvocatura dello Stato e dalle parti costituite in giudizio, esse non sono fondate.

6.1.– Nel giudizio instaurato dal Tribunale di Lecce (reg. ord. n. 9 del 2022), l’Avvocatura generale dello Stato eccepisce l’inammissibilità per irrilevanza e in ogni caso per implausibile motivazione sulla rilevanza.

In particolare, secondo la difesa statale, il Tribunale avrebbe dapprima attestato l’esistenza di un legittimo affidamento in capo all’accipiens, per poi riservarsi, all’esito della pronuncia di questa Corte, di verificare le circostanze allegate dall’attore. In ogni caso, a detta dell’Avvocatura, gli elementi costitutivi dell’affidamento legittimo sarebbero insussistenti, il che renderebbe implausibile la motivazione sulla rilevanza.

In termini analoghi, anche l’INPS eccepisce che il rimettente non avrebbe accertato tutti i presupposti richiesti dalla Corte EDU per rinvenire un affidamento legittimo, richiamandosi, in particolare, al «difetto di un errore di calcolo (se non addirittura materiale)».

Le eccezioni non sono fondate.

Per tutti i presupposti ritenuti necessari a integrare il legittimo affidamento, sulla base delle condizioni richieste dalla Corte EDU, il Tribunale di Lecce ribadisce insistentemente che si tratta di elementi provati nel giudizio. Né omette di argomentare, sulla base della documentazione in atti, che l’erogazione in eccesso non possa ritenersi il mero frutto di un errore di calcolo o di un errore materiale.

Del resto, risulta per tabulas che, là dove il rimettente afferma che «[t]rattasi di elementi tutti riscontrati in atti e che – in caso di accoglimento del presente incidente di costituzionalità – dovrebbero essere valutati», la precisazione si riferisce, per l’appunto, non all’accertamento in merito alla sussistenza dei presupposti, bensì alla valutazione degli effetti giuridici che se ne dovrebbero trarre all’esito del giudizio di legittimità costituzionale.

6.2.– Sempre in merito alla rilevanza, l’Avvocatura generale dello Stato solleva ulteriori eccezioni di rito che sono formulate, in termini del tutto similari, con riferimento sia all’ordinanza di rimessione iscritta al n. 9 del reg. ord. 2022 sia a quella iscritta al n. 21 del medesimo anno.

Rispetto alla prima ordinanza, la difesa statale eccepisce che il rimettente non avrebbe accertato «se e in quale misura il recupero delle somme da parte dell’Inps sia avvenuto e abbia determinato un sacrificio sproporzionato in capo al percettore». Tale circostanza, desumibile dalle condizioni di salute e da quelle economico-patrimoniali dell’accipiens, mentre risulterebbe determinante nella sentenza Casarin, non sarebbe stata, viceversa, neppure allegata nel giudizio a quo.

In termini analoghi, in riferimento alla seconda ordinanza, sempre la difesa statale eccepisce che il giudice rimettente non avrebbe effettuato gli accertamenti idonei a comprovare il carattere sproporzionato del sacrificio per l’accipiens: nello specifico, non vi sarebbe stata alcuna attestazione circa la posizione reddituale e patrimoniale attuale della lavoratrice ricorrente né circa l’incidenza dell’obbligo restitutorio (eventualmente rateizzato) su detta condizione socio-economica.

Anche tali eccezioni non sono fondate.

Nell’ordinanza di rimessione iscritta al n. 9 del reg. ord. 2022 il rimettente basa la sua argomentazione sull’interpretazione dell’art. 1 Prot. addiz. CEDU offerta dalla Corte EDU (nelle sentenze Casarin, nonché 12 dicembre 2019, Romeva contro Macedonia del Nord; 26 aprile 2018, Cakarević contro Croazia e 15 settembre 2009, Moskal contro Polonia), ritenendo implicito nei presupposti che le citate pronunce pongono a fondamento dell’affidamento legittimo l’«ingerenza […] sproporzionata» nella sfera di chi abbia dovuto «sostenere l’onere dell’errore commesso dall’amministrazione». Al contempo, il giudice a quo non manca di sottolineare la specificità del settore della sicurezza sociale, lasciando intendere che l’obbligo restitutorio incida sulla condizione del percettore di una indennità di disoccupazione.

Tali motivazioni superano il vaglio meramente esterno di non implausibilità, che, per costante giurisprudenza di questa Corte, costituisce l’oggetto della sua valutazione in ordine sia alla ricostruzione degli elementi di fatto, fornita dal giudice rimettente, sia all’interpretazione delle norme di diritto, applicabili al giudizio a quo (ex plurimis, sentenze n. 88 e n. 79 del 2022, n. 259 del 2021).

Quanto, poi, all’argomentazione fornita, sempre in merito al carattere sproporzionato del sacrificio richiesto all’accipiens, nell’ordinanza iscritta al n. 21 del reg. ord. 2022, essa, a ben vedere, si dimostra senz’altro plausibile, posto che il rimettente dedica a tale profilo una specifica e puntuale motivazione, in cui illustra attentamente la condizione personale e patrimoniale del percettore.

6.3.– Da ultimo, il Comune di Campi Bisenzio eccepisce rispetto all’ordinanza iscritta al n. 21 del reg. ord. 2022, a titolo sia di inammissibilità sia di non fondatezza, la non conformità ai principi costituzionali dell’interpretazione offerta dalla sentenza Casarin all’art. 1 Prot. addiz. CEDU.

Anche questa eccezione non è fondata.

Il giudice rimettente argomenta nel senso che la giurisprudenza della Corte EDU si preoccupa di bilanciare i contrapposti interessi dell’ente pubblico e del privato accipiens e ritiene che analogo bilanciamento debba essere introdotto nell’ordinamento interno. In tal modo, implicitamente esclude quanto, viceversa, assume il Comune di Campi Bisenzio, vale a dire che il punto di equilibrio individuato dalla Corte EDU sia lesivo di principi costituzionali.

Non si ravvisa, pertanto, un difetto di motivazione e semmai è sotto il profilo del merito che l’eccezione può rilevare.

7.– Nel merito, le questioni non sono fondate.

8.– In via preliminare, occorre ripercorrere la giurisprudenza della Corte EDU che, nell’ambito della ripetizione di indebiti retributivi e previdenziali erogati da soggetti pubblici, ha dato corpo all’interpretazione dell’art. 1 Prot. addiz. CEDU, invocato dalle ordinanze in esame quale parametro interposto, vòlto a specificare la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.

Secondo la citata disposizione convenzionale, «[o]gni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni» e la Corte EDU, valorizzando proprio la nozione di bene, ha ascritto a tale paradigma la tutela dell’affidamento legittimo («legitimate expectation»), situazione soggettiva dai contorni più netti di una semplice speranza o aspettativa di mero fatto («hope»).

In particolare, in una pluralità di casi – tra cui le già citate sentenze Casarin, Romeva, Cakarević e Moskal – concernenti indebiti retributivi e previdenziali erogati da soggetti pubblici, la Corte EDU ha specificato i presupposti che consentono di identificare un affidamento legittimo in capo al percettore della prestazione, che sia persona fisica, e ha individuato le condizioni che tramutano la condictio indebiti in un’interferenza sproporzionata nei confronti di tale affidamento.

La Corte EDU ha individuato quali elementi costitutivi dell’affidamento legittimo: l’erogazione di una prestazione a seguito di una domanda presentata dal beneficiario che agisca in buona fede o su spontanea iniziativa delle autorità; la provenienza dell’attribuzione da parte di un ente pubblico, sulla base di una decisione adottata all’esito di un procedimento, fondato su una disposizione di legge, regolamentare o contrattuale, la cui applicazione sia percepita dal beneficiario come fonte della prestazione, individuabile anche nel suo importo; la mancanza di una attribuzione manifestamente priva di titolo o basata su semplici errori materiali; un’erogazione effettuata in relazione a una attività lavorativa ordinaria e non a una prestazione isolata o occasionale, per un periodo sufficientemente lungo da far nascere la ragionevole convinzione circa il carattere stabile e definitivo della medesima; la mancata previsione di una clausola di riserva di ripetizione.

L’identificazione di una situazione di legitimate expectation non importa, nondimeno, per ciò solo l’intangibilità della prestazione percepita dal privato.

La Corte EDU riconosce l’interesse generale sotteso all’azione di ripetizione dell’indebito e, in genere, riscontra la legalità dell’intervento, che solo raramente si è dimostrata carente (sentenza 12 ottobre 2020, Anželika Šimaitienė contro Lituania, paragrafo 115).

Le censure della Corte EDU si appuntano, invece, sulla proporzionalità dell’interferenza, in quanto sede del bilanciamento di interessi fra le esigenze sottese al recupero delle prestazioni indebitamente erogate e la tutela dell’affidamento incolpevole.

Nel compiere tale valutazione, la Corte EDU riconosce agli Stati contraenti un margine di apprezzamento ristretto, onde evitare che gravi sulla persona fisica un onere eccessivo e individuale, avuto riguardo al particolare contesto in cui si inquadra la vicenda (così Grande camera, sentenza 5 settembre 2017, Fábián contro Ungheria, paragrafo 65, e seconda sezione, sentenza 10 febbraio 2015, Bélàné Nagy contro Ungheria, paragrafo 166). In particolare, fra le circostanze che influiscono sul carattere sproporzionato dell’interferenza si rinvengono le specifiche modalità di restituzione imposte al titolare dell’affidamento (ad esempio, nella sentenza Cakarević, l’addebito di interessi legali in capo all’accipiens, a dispetto dell’errore compiuto dall’amministrazione, paragrafi 86 e 87; o, nella sentenza Casarin, la rateizzazione non rapportata alle condizioni di vita dell’obbligato, paragrafo 72); più in generale, rilevano l’omessa o l’inadeguata considerazione della fragilità economico-sociale o di salute dell’obbligato nell’esercizio della pretesa restitutoria (così nelle sentenze Casarin, paragrafi 72 e 73; Romeva, paragrafo 75; Cakarević, paragrafi da 87 a 89, e Moskal, paragrafi 74 e 75); e, infine, ha una sicura incidenza la mancata previsione di una responsabilità in capo all’ente cui sia addebitabile l’errore (sentenze Casarin, paragrafo 71, e Cakarević, paragrafo 80).

In definitiva, la giurisprudenza della Corte EDU offre una ricostruzione dell’art. 1 Prot. addiz. CEDU vòlta a stigmatizzare interferenze sproporzionate rispetto all’affidamento legittimo ingenerato dall’erogazione indebita da parte di soggetti pubblici di prestazioni di natura previdenziale, pensionistica e non, nonché retributiva.

9.– A fronte dell’interpretazione prospettata dalla Corte EDU in merito all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, l’ordinamento nazionale delinea un quadro di tutele che, se adeguatamente valorizzato, supera ogni dubbio di possibile contrasto fra l’art. 2033 cod. civ. e l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al citato parametro convenzionale interposto.

In particolare, rispetto alle tipologie di prestazioni indebite contemplate dalla giurisprudenza convenzionale, l’ordinamento italiano appronta un complesso apparato di rimedi, che opera a differenti livelli.

10.– Rispetto a specifiche tipologie di prestazioni indebite, ricomprese fra quelle esaminate dalla giurisprudenza della Corte EDU, ma invero differenti rispetto a quelle oggetto del presente giudizio, il sistema normativo interno esclude tout court la ripetizione dell’indebito, offrendo una tutela particolarmente incisiva, che, per completezza, è opportuno brevemente richiamare.

10.1.– Si tratta, innanzitutto, di prestazioni previdenziali, pensionistiche e assicurative, per le quali il legislatore italiano dispone l’irripetibilità, con la sola eccezione dell’ipotesi in cui l’accipiens fosse consapevole di percepire un indebito e, dunque, fosse in uno stato soggettivo di dolo (art. 52, comma 2, della legge 9 marzo 1989, n. 88, recante «Ristrutturazione dell’Istituto nazionale della previdenza sociale e dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro», come modificato dall’art. 13 della legge 30 dicembre 1991, n. 412, recante «Disposizioni in materia di finanza pubblica», entro i limiti applicativi dettati dalla sentenza di questa Corte n. 39 del 1993; nonché art. 55, comma 5, della stessa legge n. 88 del 1989, che estende la disciplina alle prestazioni non dovute erogate dall’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro – INAIL – in caso di infortuni sul lavoro e malattie professionali).

Analoga disciplina si desume, poi, da un complesso di previsioni concernenti prestazioni economiche di natura assistenziale (art. 37, comma 8, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, recante «Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo»; art. 3-ter del decreto-legge 23 dicembre 1976, n. 850, recante «Norme relative al trattamento assistenziale dei ciechi civili e dei sordomuti», convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 1977, n. 29; art. 3, comma 10, del decreto-legge 30 maggio 1988, n. 173, recante «Misure urgenti in materia di finanza pubblica per l’anno 1988», convertito, con modificazioni, nella legge 26 luglio 1988, n. 291), rispetto alle quali la giurisprudenza di legittimità, richiamando l’ordinanza n. 264 del 2004 di questa Corte, ha riconosciuto la sussistenza di «un principio di settore, [in virtù del quale] la regolamentazione della ripetizione dell’indebito è tendenzialmente sottratta a quella generale del codice civile» (Corte di cassazione, sezione sesta civile – lavoro, ordinanza 30 giugno 2020, n. 13223; si vedano anche Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 9 novembre 2018, n. 28771 e 3 febbraio 2004, n. 1978).

Nei casi sopra richiamati, non è richiesta alcuna prova dell’affidamento, sicché quest’ultimo, più che rilevare quale interesse protetto, si configura – unitamente al rilievo costituzionale riconosciuto, ai sensi dell’art. 38 Cost., al tipo di prestazioni erogate – quale ratio ispiratrice di fondo della disciplina, che si connota in termini di previsione eccezionale, frutto di una valutazione che questa Corte ha più volte ritenuto rimessa alla discrezionalità del legislatore (sentenze n. 148 del 2017 e n. 431 del 1993).

10.2.– Parimenti, si annovera tra le tutele specifiche e particolarmente incisive, che escludono la ripetizione dell’indebito, la previsione di cui all’art. 2126 cod. civ., riferita a una prestazione di natura retributiva. Il fondamento di tale speciale disciplina si rinviene, questa volta, nella causa dell’attribuzione, costituita da una attività lavorativa che è stata, di fatto, concretamente prestata, pur se si dimostra giuridicamente non dovuta. La peculiare protezione di simile causa attributiva, che si pone in termini sinallagmatici rispetto alla retribuzione indebita, giustifica, pertanto, sia la pretesa a conseguire il corrispettivo sia, qualora questo sia stato già erogato, l’irripetibilità del medesimo, a dispetto della nullità o dell’annullamento (totale o parziale) del contratto di lavoro e persino in presenza di una illiceità dell’oggetto o della causa, ove siano state violate norme poste a tutela del lavoratore.

L’art. 2126 cod. civ. costituisce, dunque, un presidio contro pretese restitutorie avanzate dal datore di lavoro, compresa la pubblica amministrazione (Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanze 5 novembre 2021, n. 32263 e 31 agosto 2018, n. 21523), ma a condizione che l’indebito retributivo corrisponda a una specifica prestazione, effettivamente eseguita (Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza 23 novembre 2021, n. 36358). Per converso, la norma non trova applicazione qualora la prestazione si configuri quale mero aumento della retribuzione di posizione di un incarico dirigenziale e, dunque, non si ponga in una relazione sinallagmatica con una specifica prestazione lavorativa aggiuntiva, sì da comportare – dal punto di vista qualitativo, quantitativo e temporale – «il trasmodare dell’incarico originariamente attribuito in una prestazione radicalmente diversa» (Cass. ordinanza n. 36358 del 2021).

11.– Al di fuori del raggio di disposizioni speciali che, nel campo delle prestazioni retributive, previdenziali e assistenziali, prevedono, nell’ordinamento italiano, l’irripetibilità dell’attribuzione erogata, opera, viceversa, la disciplina generale dell’indebito oggettivo, di cui all’art. 2033 cod. civ., secondo la quale: «[c]hi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato. Ha inoltre diritto ai frutti e agli interessi dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure, se questi era in buona fede, dal giorno della domanda».

L’ampiezza della norma, cui si ascrivono anche prestazioni indebite ricomprese fra quelle esaminate dalla Corte EDU, ha suscitato, dunque, i dubbi di legittimità costituzionale.

Sia l’ordinanza di rimessione iscritta al n. 9 del reg. ord. 2022 sia quella iscritta al n. 21 reg. ord. del medesimo anno ravvisano, infatti, il già evocato vulnus all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, come interpretato dalla giurisprudenza convenzionale, nell’applicazione della disposizione generale sull’indebito oggettivo a prestazioni previdenziali non pensionistiche e a prestazioni retributive, chiaramente non ascrivibili all’art. 2126 cod. civ.

Sennonché, a fronte dell’obbligo restitutorio, da un lato, lo stesso art. 2033 cod. civ. – come già emerge dalla sua formulazione testuale – prevede che, in ipotesi di buona fede soggettiva dell’accipiens, i frutti e gli interessi vanno corrisposti solo a partire dalla domanda di restituzione, il che allontana una delle possibili ragioni di sproporzione dell’interferenza ravvisate dalla giurisprudenza della Corte EDU (in particolare, nella sentenza Cakarević, paragrafo 86).

Da un altro lato, e soprattutto, si rinviene nell’ordinamento italiano una clausola generale, suscettibile di valorizzare la specificità degli elementi posti in risalto dalla giurisprudenza della Corte EDU a fondamento dell’affidamento legittimo, così come si ravvisa un apparato di tutele sufficiente a superare ogni dubbio di possibile contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost.

12.– Il perno della disciplina risiede, in particolare, nella clausola di buona fede oggettiva o correttezza, che, per un verso, plasma, attraverso l’art. 1175 cod. civ., l’attuazione del rapporto obbligatorio e, dunque, condiziona – dando rilievo agli interessi in gioco e alle circostanze concrete – l’esecuzione dell’obbligazione restitutoria, che ha fonte nell’art. 2033 cod. civ. Per un altro verso, e ab imis, la buona fede oggettiva dà fondamento, tramite l’art. 1337 cod. civ., alla stessa possibilità di identificare un affidamento legittimo, suscettibile di rinvenire una tutela, sia quale interesse che, ex fide bona, in base al citato art. 1175 cod. civ., condiziona l’attuazione del rapporto obbligatorio, sia quale situazione soggettiva potenzialmente meritevole di protezione risarcitoria, proprio attraverso la disciplina dell’illecito precontrattuale.

12.1.– Rispetto a tali coordinate generali, è doveroso, in primo luogo, indagare le condizioni che consentono di dare rilevanza, nelle fattispecie in esame, a un affidamento legittimo.

Il diritto vivente ha da tempo estrapolato dall’art. 1337 cod. civ., riferito alla tutela dell’affidamento rispetto alla conclusione di un contratto o rispetto al perfezionamento di un contratto non invalido né affetto da un vizio cosiddetto incompleto, un possibile modello generale di tutela dell’affidamento legittimo. Nondimeno questo – a seconda delle tipologie di conflitti – opera sulla base di processi di specificazione e di concretizzazione giurisprudenziale. Dalla citata norma, che valorizza tanto la relazione fra i soggetti implicati quanto le circostanze concrete, la giurisprudenza ha, di volta in volta, ricavato, nell’ambito di particolari contesti, i presupposti che consentono di ravvisare affidamenti meritevoli di tutela: ad esempio, quello alla legittimità e alla correttezza di un provvedimento emanato da una pubblica amministrazione (ex multis, Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenze 15 gennaio 2021, n. 615 e 13 maggio 2019, n. 12635), così come l’affidamento riferito alla esattezza e alla correttezza di informazioni fornite da soggetti che spendono una particolare professionalità (ex multis, Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 9 dicembre 2019, n. 32026 e sezione terza civile, sentenza 28 febbraio 2012, n. 3003).

Ebbene, i casi esaminati dalla giurisprudenza della Corte EDU danno, a ben vedere, risalto a un’ulteriore tipologia di affidamento legittimo, che riguarda la spettanza di una prestazione indebita: un tipo di affidamento per ravvisare il quale le sentenze della Corte EDU valorizzano per l’appunto sia la relazione fra i soggetti implicati sia le circostanze concrete che caratterizzano l’attribuzione indebita.

Deve allora ritenersi che proprio l’attitudine della buona fede oggettiva a recepire processi di concretizzazione giurisprudenziale consenta di ravvisare nell’art. 1337 cod. civ. la cornice giuridica capace di valorizzare, a livello nazionale, presupposti che, in effetti, corrispondono a quelli individuati dalla Corte EDU per fondare il riconoscimento di un affidamento legittimo circa la spettanza di una prestazione indebita erogata.

In sostanza, gli elementi che possono rilevare ex fide bona ai fini dell’individuazione di un affidamento legittimo riposto in una prestazione indebita erogata da un soggetto pubblico trovano, a ben vedere, riscontro in quelli di cui si avvale la Corte EDU per individuare una legitimate expectation.

Infatti, l’opera di specificazione effettuata dalla Corte EDU dà rilievo, innanzitutto, alla relazione fra le parti, e questo è tipico anche dell’art. 1337 cod. civ. In particolare, non vi è dubbio che, per ingenerare un legittimo affidamento in una prestazione indebita, non basti l’apparenza di un titolo posto a fondamento dell’attribuzione – titolo che deve comunque radicarsi in una disposizione di legge o di regolamento o in un contratto –, ma conta in primis il tipo di relazione fra solvens e accipiens. Ed è palese che un soggetto pubblico facilmente ingenera, nell’accipiens-persona fisica, una fiducia circa la spettanza dell’erogazione effettuata, non solo in ragione della sua competenza professionale, ma anche per il suo perseguire interessi generali. In ogni caso, neppure quanto detto sopra è sufficiente a delineare un affidamento, poiché ex fide bona rilevano sempre le circostanze concrete. Similmente la giurisprudenza della Corte EDU valorizza: il tipo di prestazioni erogate (retributive o previdenziali), il carattere ordinario dell’attribuzione nonché il suo perdurare nel tempo, sì da ingenerare la ragionevole convinzione sul suo essere dovuta. Al contempo, l’affidamento legittimo presuppone sempre anche la buona fede soggettiva dell’accipiens, che, a sua volta, non può che evincersi da indici oggettivi. In questa stessa prospettiva, la Corte EDU dà rilievo: alla spontaneità dell’attribuzione o alla richiesta della stessa effettuata in buona fede, alla mancanza di un pagamento manifestamente privo di titolo o fondato su un mero errore di calcolo o su un errore materiale, nonché alla omessa previsione di una clausola di riserva di ripetizione.

In definitiva, si deve ritenere che la consonanza fra gli elementi evidenziati dalla giurisprudenza della Corte EDU e la tipologia di criteri cui può dare rilevanza la buona fede oggettiva a fondamento di un affidamento legittimo, ove riferito al contesto della spettanza di una prestazione indebita, confermi che l’interesse protetto dalla CEDU, come ricostruito dalla Corte EDU, può trovare riconoscimento, nel nostro ordinamento, dentro la cornice generale della buona fede oggettiva.

12.2.– Così individuati i presupposti costitutivi di un affidamento legittimo nella spettanza di una prestazione indebita, si tratta ora di chiarire quale apparato rimediale appronti l’ordinamento nazionale a sua difesa e se sia idoneo a evitare il contrasto con l’art. 1 Prot. addiz. CEDU e, di riflesso, una violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.

12.2.1.– Un primo fondamentale ruolo spetta alla categoria della inesigibilità, che si radica nella clausola generale di cui all’art. 1175 cod. civ., la quale – come già anticipato (punto 12) – impone ad ambo le parti del rapporto obbligatorio di comportarsi secondo correttezza o buona fede oggettiva. Tale canone di comportamento, inter alia, vincola il creditore a esercitare la sua pretesa in maniera da tenere in debita considerazione, in rapporto alle circostanze concrete, la sfera di interessi che fa riferimento al debitore.

Di qui, la rilevanza che possono assumere, nell’attuazione del rapporto obbligatorio avente a oggetto la ripetizione dell’indebito, tanto lo stesso affidamento legittimo ingenerato nel percipiente, quanto le condizioni in cui versa quest’ultimo.

Il primo accorgimento, imposto ex fide bona dalla sussistenza in capo all’accipiens di un affidamento legittimo circa la spettanza dell’attribuzione ricevuta, risiede nel dovere da parte del creditore di rateizzare la somma richiesta in restituzione, tenendo conto delle condizioni economico-patrimoniali in cui versa l’obbligato, che, ex abrupto, si trova a dover restituire ciò che riteneva di aver legittimamente ricevuto. La pretesa si dimostra dunque inesigibile fintantoché non sia richiesta con modalità che il giudice reputi conformi a buona fede oggettiva (ex multis, Consiglio di Stato, sezione seconda, sentenza 10 dicembre 2020, n. 7889; parere 31 dicembre 2018, n. 3010; adunanza plenaria, sentenza 26 ottobre 1993, n. 11).

Il rilievo che possono assumere le circostanze concrete e, in particolare, la considerazione delle condizioni personali del debitore hanno poi indotto gli interpreti a valorizzare anche forme ulteriori di inesigibilità, sia temporanea sia parziale, della prestazione. L’inesigibilità, in tal modo, attenua la rigidità dell’obbligazione restitutoria che, in quanto obbligazione pecuniaria, non vede operare – per comune insegnamento – la causa estintiva costituita dall’impossibilità della prestazione. In particolare, l’inesigibilità non colpisce la fonte dell’obbligazione, ma funge da causa esimente del debitore, quando l’esercizio della pretesa creditoria, entrando in conflitto con un interesse di valore preminente, si traduce in un abuso del diritto.

Le conseguenze dell’inesigibilità possono essere, dunque, varie.

Particolari situazioni personali del debitore possono immediatamente palesare un impatto lesivo della prestazione restitutoria sulle condizioni di vita dello stesso, sì da giustificare una inesigibilità temporanea. Più in particolare, il bilanciamento degli interessi implicati potrebbe far risultare giustificata la temporanea inesigibilità della prestazione, con la conseguenza che il ritardo nell’adempimento non potrebbe legittimare una pretesa risarcitoria da parte del creditore.

Talora poi le condizioni personali del debitore, ove correlate a diritti inviolabili, potrebbero far ritenere al giudice definitivamente giustificato anche un adempimento parziale, che solo in casi limite potrebbe approssimarsi alla totalità dell’importo dovuto. In tale prospettiva è doveroso richiamare alcune pronunce del Consiglio di Stato, le quali richiedono espressamente «di evitare […] che le modalità di ripetizione siano tali da compromettere le esigenze primarie dell’esistenza» (Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 30 gennaio 1990, n. 57; danno applicazione a quanto sopra richiamato sezione sesta, sentenze 27 ottobre 2014, n. 5315; 12 dicembre 2002, n. 6787 e 28 maggio 2001, n. 2899).

In definitiva, la clausola della buona fede oggettiva consente, sul presupposto dell’affidamento ingenerato nell’accipiens, di adeguare, innanzitutto, tramite la rateizzazione, il quomodo dell’adempimento della prestazione restitutoria, tenendo conto delle condizioni economiche e patrimoniali dell’obbligato. Inoltre, in presenza di particolari condizioni personali dell’accipiens e dell’eventuale coinvolgimento di diritti inviolabili, la buona fede oggettiva può condurre, a seconda della gravità delle ipotesi, a ravvisare una inesigibilità temporanea o finanche parziale.

La circostanza per cui l’inesigibilità non determina l’estinzione dell’obbligazione non deve, d’altro canto, indurre a ritenere che il rimedio non consenta di superare il vaglio della non sproporzione dell’interferenza, secondo quanto evidenziato dalla giurisprudenza della Corte EDU.

Infatti, le richiamate sentenze di quest’ultima ravvisano violazioni dell’art. 1 Prot. addiz. CEDU in presenza di pretese restitutorie che disattendono una doverosa considerazione dell’affidamento legittimo dell’obbligato e delle sue condizioni economiche, patrimoniali e personali, ma non per questo impongono di generalizzare un diritto alla irripetibilità della prestazione.

12.2.2.– Da ultimo, allontana definitivamente il dubbio fatto proprio dai giudici rimettenti che l’apparato rimediale nazionale sia inidoneo a impedire il carattere sproporzionato dell’interferenza nell’affidamento legittimo, la constatazione che, nell’ordinamento italiano, una volta individuati i tratti di tale affidamento, è dato riconoscere, nell’ipotesi di una sua lesione, una possibile tutela risarcitoria proprio dentro le coordinate della responsabilità precontrattuale, sempre che ricorrano gli ulteriori presupposti applicativi del medesimo illecito.

Questa ulteriore prospettiva rimediale supera, dunque, un’altra delle ragioni che vengono addotte per contestare la sproporzione dell’interferenza dalla giurisprudenza della Corte EDU, la quale – nelle già citate sentenze Casarin, paragrafo 71, e Cakarević, paragrafo 86; come pure nella sentenza 20 maggio 2010, Lelas contro Croazia, paragrafo 77 – lamenta, per l’appunto, la mancata previsione di una responsabilità in capo allo Stato o all’ente pubblico, cui si deve la commissione dell’errore nell’erogazione della prestazione.

13.– Alla luce del descritto quadro di rimedi offerto dall’ordinamento nazionale, la norma che costituisce la fonte generale dell’indebito oggettivo, vale a dire l’art. 2033 cod. civ., non presenta i prospettati profili di illegittimità costituzionale, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., rispetto al parametro interposto di cui all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi

1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2033 del codice civile, sollevate, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dal Tribunale ordinario di Lecce, sezione lavoro, con l’ordinanza iscritta al n. 29 del registro ordinanze 2022;

2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2033 cod. civ. sollevate, in relazione all’art. 11 Cost., dal Tribunale ordinario di Lecce, sezione lavoro, con l’ordinanza iscritta al n. 9 del registro ordinanze 2022, e dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza iscritta al n. 21 del registro ordinanze 2022;

3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2033 cod. civ., sollevate, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, dal Tribunale ordinario di Lecce, sezione lavoro, con l’ordinanza iscritta al n. 9 del reg. ord. 2022, e dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza iscritta al n. 21 del registro ordinanze 2022.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 novembre 2022.

F.to:

Silvana SCIARRA, Presidente

Emanuela NAVARRETTA, Redattrice

Valeria EMMA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 27 gennaio 2023.