Sentenza n. 205 del 2022

SENTENZA N. 205

ANNO 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giuliano AMATO

Giudici: Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), nel testo antecedente alla modifica apportata dall’art. 2, comma 1, lettera a), della legge 27 febbraio 2015, n. 18 (Disciplina della responsabilità civile dei magistrati) e dell’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 18 del 2015, promosso dalla Corte di cassazione, sezione terza civile, nel procedimento vertente tra P.A. B. e la Presidenza del Consiglio dei ministri, con ordinanza del 3 novembre 2021, iscritta al n. 217 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell’anno 2022.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udita nella camera di consiglio del 6 luglio 2022 la Giudice relatrice Emanuela Navarretta;

deliberato nella camera di consiglio del 6 luglio 2022.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza iscritta al n. 217 del reg. ord. 2021, la Corte di cassazione, sezione terza civile, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), nel testo antecedente alla modifica apportata dall’art. 2, comma 1, lettera a), della legge 27 febbraio 2015, n. 18 (Disciplina della responsabilità civile dei magistrati), nella parte in cui limita la risarcibilità dei danni non patrimoniali a quelli derivanti da privazione della libertà personale; nonché dell’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 18 del 2015, nella parte in cui non dispone l’applicazione della suddetta modifica, introdotta all’art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988, ai giudizi ancora in corso e per fatti antecedenti alla sua entrata in vigore.

2.– In punto di fatto, il giudice rimettente riferisce di doversi pronunciare sulla richiesta, avanzata da P.A. B., di risarcimento dei danni non patrimoniali conseguenti al suo erroneo coinvolgimento in un procedimento penale avviato dalla Procura della Repubblica di Catanzaro, nel quale si ipotizzava un suo concorso esterno nel reato di associazione per delinquere di tipo mafioso.

2.1.– Nell’ordinanza di rimessione, il giudice a quo espone che il ricorrente era stato sottoposto a una perquisizione personale e domiciliare e che questa notizia aveva avuto una vasta eco giornalistica. Il ricorrente aveva domandato inutilmente di essere sentito dai pubblici ministeri inquirenti e, solo dopo due anni, la sua posizione era stata stralciata e rimessa alla Procura competente che, effettuato l’interrogatorio, aveva richiesto l’archiviazione, disposta dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale ordinario di Roma.

2.2.– La Corte di cassazione riferisce che il ricorrente aveva promosso un’azione per il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali e che il Tribunale ordinario di Salerno aveva emesso inizialmente un decreto di inammissibilità del ricorso, poi riformato in sede di reclamo dalla Corte d’appello di Salerno, che aveva rimesso gli atti al primo giudice per la prosecuzione del giudizio. Il Tribunale aveva quindi accolto parzialmente la domanda del ricorrente, escludendo il risarcimento dei danni non patrimoniali, in assenza di condotte lesive della libertà personale dell’attore.

Il ricorrente aveva, quindi, proposto appello, insistendo per la condanna al risarcimento dei danni non patrimoniali, mentre la Presidenza del Consiglio dei ministri aveva chiesto l’integrale rigetto della domanda risarcitoria, resistendo e proponendo appello incidentale.

La Corte d’appello di Salerno – riporta ancora il giudice a quo – aveva rigettato entrambi i gravami e aveva confermato la sentenza impugnata; pertanto, P.A. B. aveva proposto ricorso per cassazione.

2.3.– Il rimettente chiarisce che, intervenuto il giudicato interno sull’an debeatur, il ricorso ha riguardato soltanto la spettanza del risarcimento dei danni non patrimoniali.

2.3.1.– Più in particolare, il giudice a quo riferisce che, con il primo motivo di ricorso, è stata denunciata «violazione e/o falsa applicazione degli articoli 11 disp. prel. c.c.; della legge n. 18/2015, tutti con riferimento all’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c.».

Secondo il ricorrente, la legge n. 18 del 2015 non avrebbe carattere innovativo, avendo invece operato «una corretta “lettura” dei valori già presenti nell’ordinamento interno e sovranazionale […] eliminando ex tunc l’incompatibilità del sistema con il diritto dell’Unione Europea». Inoltre, sempre ad avviso del ricorrente, la Corte d’appello, nel ritenere operante la precedente disciplina, si sarebbe posta «in irriducibile contrasto […] con il diritto europeo» e avrebbe travisato il principio di irretroattività della legge civile, la cui applicabilità troverebbe un limite nei «rapporti non esauriti», qualora il fatto – come nel caso di specie – «resti identico nella sua disciplina».

2.3.2.– La Corte di cassazione riporta, di seguito, il secondo motivo di ricorso, con il quale sono state denunciate «la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 2059 c.c., 3 Cost. e 2 l. n. 117/1988, con riferimento all’art. 360, co. 1°, nn. 3 e 4 c.p.c.» ed è stata censurata «la sentenza impugnata nella parte in cui ha rigettato la richiesta di interpretazione costituzionalmente o convenzionalmente orientata».

Secondo il ricorrente, una lettura dell’art. 2 della legge n. 18 del 2015 conforme ai principi costituzionali indicati sarebbe stata un’«opzione ermeneutica obbligata». In ogni caso, anche a voler escludere tale soluzione, «la norma in questione avrebbe potuto essere disapplicata – sempre a parere del ricorrente – per palese contrasto con l’ordinamento comunitario», tenuto conto della «ineludibile necessità, per ciascun Stato-membro, di assicurare tutela effettiva ai cittadini danneggiati da attività illecita dei propri organi istituzionali, ai fini di una piena e reale tutela della persona e dei suoi diritti fondamentali».

2.3.3.– Infine, il giudice a quo espone il terzo motivo, con il quale il ricorrente ha dedotto la «violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2, 3, 32, 117 Cost.; dell’art. 2059 c.c.; degli artt. 2 e 3 L 117/88, tutti con riferimento all’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c.».

Secondo il ricorrente, la Corte d’appello avrebbe erroneamente negato efficacia preclusiva all’ordinanza resa in sede di reclamo dalla stessa Corte, che aveva ritenuto ammissibile l’azione, riguardante l’istanza risarcitoria in tutte le sue componenti, compresi i danni non patrimoniali. Inoltre, avrebbe immotivatamente ed erroneamente ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988, nella sua formulazione originaria, e dell’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 18 del 2015, per non aver previsto una norma transitoria che consentisse l’applicazione ai giudizi in corso della nuova disciplina.

3.– La Corte di cassazione, disattesi i primi due motivi di ricorso, nonché il primo profilo del terzo motivo, ritiene, viceversa, rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale indicate in epigrafe.

3.1.– In merito alla rilevanza dei dubbi di legittimità costituzionale relativi all’art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988, nella sua formulazione originaria, il giudice a quo precisa che solo la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma potrebbe determinare la cassazione della sentenza impugnata.

I fatti posti alla base della richiesta risarcitoria – precisa il rimettente – si sono verificati nella vigenza di tale testo normativo e, d’altro canto, non sarebbe stato dedotto che i danni non patrimoniali lamentati dal ricorrente si siano verificati in epoca successiva. Pertanto, a parere del giudice a quo, deve ritenersi applicabile, ratione temporis, il testo dell’art. 2 della legge n. 117 del 1988 non ancora novellato dalla legge n. 18 del 2015, posto che il sorgere del diritto al risarcimento del danno dipenderebbe dal «momento in cui si verificarono i fatti lesivi e i danni conseguenti».

3.2.– Sempre in punto di rilevanza, con riferimento ai due gruppi di questioni sollevate, il giudice a quo, per un verso, esclude che l’art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 2018 possa essere interpretato in senso conforme alla Costituzione e, per un altro verso, confuta che dall’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 18 del 2015 si possa inferire, in via ermeneutica, la retroattività della norma.

L’interpretazione adeguatrice della prima disposizione sarebbe, infatti, ostacolata dal «chiaro tenore letterale della legge», che impedirebbe di adeguarla «ai mutamenti economici e sociali intervenuti nel frattempo», ciò che sarebbe invece consentito rispetto a «una formula legislativa generica od ampia».

Quanto alla possibilità di inferire in via ermeneutica la retroattività della riforma, introdotta con l’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 18 del 2015, essa sarebbe inibita proprio dalla vigenza del principio di irretroattività, che richiederebbe una previsione espressa. D’altro canto, tale riforma – a detta del giudice a quo – non potrebbe ritenersi meramente ricognitiva di valori già presenti nell’ordinamento interno o in quello sovranazionale.

Da ultimo, secondo il rimettente, dall’ordinamento dell’Unione europea non sarebbe desumibile una disciplina che obblighi al risarcimento di qualsiasi danno derivante dall’attività giurisdizionale, sicché sarebbe escluso il possibile ricorso alla disapplicazione.

4.– In punto di non manifesta infondatezza, la Corte di cassazione ravvisa, sia nell’art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988, nella sua originaria formulazione, sia nell’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 18 del 2015, un vulnus agli artt. 2, 3 e 32 Cost.

4.1.– Con riguardo al primo gruppo di censure, il rimettente contesta che, «nell’ambito di un ordinamento giuridico che riconosce massima espansione ai diritti della persona e alla tutela dei suoi valori […,] il riconoscimento o l’esclusione del risarcimento per poste afferenti ad una medesima categoria di pregiudizio (quello non patrimoniale)» possano farsi dipendere «dal solo fatto che l’illecito che ha determinato il danno sia o non sia costituito da un provvedimento limitativo della libertà personale, con totale irrilevanza delle conseguenze, in concreto intervenute, di attività giudiziarie che nelle peculiarità della singola fattispecie possano essersi rivelate particolarmente invasive della sfera dell’individuo e lesive di valori di rango costituzionale».

Un simile sacrificio di diritti inviolabili della persona non appare al rimettente giustificato da presunte ragioni di bilanciamento con i principi di indipendenza dei magistrati e di autonomia e pienezza della funzione giudiziaria, «a fronte di una normativa che riconosceva l’idoneità delle condotte individuate dall’art. 2 della l. n. 117/1988 a determinare danni sia patrimoniali che non patrimoniali» e nell’ambito di un contesto normativo che, già nel testo del 1988, «prevedeva la responsabilità diretta unicamente a carico dello Stato e solo quella indiretta, per di più con rivalsa limitata, per il magistrato autore degli atti e provvedimenti causativi del danno».

Peraltro, il giudice a quo chiarisce che, seppure la Corte costituzionale abbia in passato riconosciuto la non irragionevolezza di alcuni bilanciamenti, che hanno imposto un “tetto” risarcitorio (è citata la sentenza n. 235 del 2014), gli stessi argomenti non potrebbero essere spesi per giustificare la norma in questa sede sospettata di illegittimità costituzionale, non essendoci un rapporto «di vicendevole dipendenza fra il contenimento dei risarcimenti e quello dei premi», «apprezzabile con immediata evidenza».

4.2.– Quanto alle questioni sollevate con riferimento all’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 18 del 2015, la Corte di cassazione ritiene che l’assenza di una estensione della nuova formulazione dell’art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988 a fatti verificatisi anteriormente, ma ancora sub iudice, legittimerebbe la perdurante applicazione di un regime risarcitorio ormai superato sul piano normativo. Ciò rileverebbe «sotto i profili della disparità di trattamento e della violazione dei principi di effettività ed integralità del risarcimento correlato alla violazione di diritti primari della persona; e, in definitiva, della ragionevolezza di una disciplina, non altrimenti interpretabile, […] abrogata fin dal 2015 siccome ritenuta non più rispondente alla mutata sensibilità sociale».

5.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto di dichiarare le questioni non fondate.

L’Avvocatura rileva, in primo luogo, la necessità di restringere il thema decidendum al solo art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988, nella sua formulazione originaria, in quanto norma pacificamente applicabile all’epoca dei fatti.

Con riferimento alla non fondatezza delle questioni sollevate, l’Avvocatura precisa che «al tempo della sua emanazione la norma censurata era perfettamente allineata all’ordinamento in cui era inserita, per come interpretato da [questa] Corte» che, con le sentenze n. 87 del 1979 e n. 184 del 1986, aveva riconosciuto l’attinenza dell’art. 2059 del codice civile ai soli danni morali consistenti nell’ingiusto perturbamento dello stato d’animo del soggetto offeso.

In ogni caso, ritiene che la norma possa andare esente da censure anche a fronte della nuova interpretazione della nozione di danno non patrimoniale, esteso alla lesione di tutti i diritti inviolabili della persona.

A tal fine, rinvia agli argomenti che questa Corte avrebbe speso per escludere l’illegittimità costituzionale di norme che pongono limiti al danno risarcibile per la lesione del diritto inviolabile all’integrità della persona, quando derivino dalla necessità di contemperare le esigenze del danneggiato con altri diritti di rilievo costituzionale (viene richiamata, in proposito, la sentenza n. 164 del 2017). Più in particolare, sostiene che l’essenzialità della funzione giurisdizionale e la tutela dell’indipendenza e dell’autonomia dei magistrati (riconosciute e garantite dagli artt. 101 e 104 Cost.) giustificherebbero la limitazione posta dalla norma censurata al risarcimento dei danni non patrimoniali.

Infine, l’Avvocatura obietta che «l’apertura al risarcimento di danni non tipizzati all’epoca dei fatti dall’art. 2 della l. n. 117/1988 determinerebbe – di fatto – un ampliamento dell’area del danno risarcibile (con i suoi riflessi anche in punto di rivalsa) a fatti illeciti commessi anteriormente alla modifica legislativa». A parere della difesa del Presidente del Consiglio dei ministri, un tale risultato sarebbe lesivo degli artt. 3, 24 e 111 Cost., oltre che dell’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 6 Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), perché «produrrebbe l’effetto di attribuire retroattivamente rilievo – sul piano della responsabilità – a comportamenti che la legge non considerava illeciti al momento in cui furono compiuti […], ovvero, per quanto qui interessa, non produttivi di danni non patrimoniali risarcibili».

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza iscritta al n. 217 del reg. ord. 2021, la Corte di cassazione, sezione terza civile, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988, nel testo antecedente alla modifica apportata dall’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 18 del 2015, nella parte in cui limita la risarcibilità dei danni non patrimoniali ai soli danni derivanti da privazione della libertà personale; nonché dell’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 18 del 2015, nella parte in cui non dispone l’applicazione della suddetta modifica, introdotta all’art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988, ai giudizi ancora in corso e per fatti antecedenti alla sua entrata in vigore.

1.1.– L’art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988, nel testo antecedente alla citata legge n. 18 del 2015, disponeva che «[c]hi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale».

In seguito, l’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 18 del 2015 ha, invece, previsto che, all’art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988, le parole «che derivino da privazione della libertà personale» siano «soppresse».

2.– In punto di fatto, il giudice rimettente riferisce di doversi pronunciare sulla richiesta di risarcimento dei danni non patrimoniali patiti da P.A. B., per essere stato erroneamente coinvolto in un procedimento penale avviato dalla Procura della Repubblica di Catanzaro, nel quale si ipotizzava un suo concorso esterno nel reato di associazione a delinquere di tipo mafioso.

3.– Sulla rilevanza delle questioni, il giudice a quo ritiene che ai fatti di causa debba applicarsi ratione temporis il testo originario dell’art. 2 della legge n. 117 del 1988, in quanto, non avendo la legge n. 18 del 2015 previsto una disciplina transitoria, che valga a derogare alla regola generale prevista dall’art. 11 delle preleggi, non potrebbe operare la norma riformata, né la stessa potrebbe reputarsi «meramente ricognitiva di valori già presenti nell’ordinamento interno e in quello sovranazionale».

4.– In punto di non manifesta infondatezza, la Corte di cassazione ravvisa, sia nell’art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988, nella sua originaria formulazione, sia nell’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 18 del 2015, un vulnus agli artt. 2, 3 e 32 Cost.

4.1.– In particolare, con riguardo alle questioni sollevate sulla prima norma, il giudice rimettente lamenta, rispetto a «diritti della persona», «di rango costituzionale», cui l’ordinamento giuridico «riconosce massima espansione», un sacrificio che non sarebbe ragionevolmente giustificato da esigenze di bilanciamento con i principi dell’indipendenza dei magistrati e dell’autonomia della funzione giudiziaria.

4.2.– Quanto alle questioni di legittimità costituzionale poste con riferimento all’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 18 del 2015, il giudice rimettente ritiene che l’inapplicabilità della nuova formulazione dell’art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988 a fatti verificatisi anteriormente, ma ancora sub iudice, determinerebbe una «disparità di trattamento e [una lesione] dei principi di effettività ed integralità del risarcimento correlato alla violazione di diritti primari della persona».

5.– Le questioni di legittimità costituzionale sollevate con riguardo all’art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988, nella sua formulazione antecedente alla modifica apportata dall’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 18 del 2015, sono fondate.

6.– In via preliminare, si rende necessario un breve inquadramento sistematico della norma censurata.

6.1.– L’art. 2 costituiva il fulcro della legge n. 117 del 1988, che aveva introdotto – all’esito del referendum abrogativo del 1987 – una disciplina sulla responsabilità civile del magistrato profondamente riformata rispetto alle precedenti regole dettate dagli artt. 55, 56 e 74 del codice di procedura civile. A sua volta, la citata legge n. 117 del 1988 (compreso l’art. 2) è stata oggetto di significative modifiche apportate dalla legge n. 18 del 2015, in conseguenza degli sviluppi della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (sentenze 13 giugno 2006, in causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo spa, e 30 settembre 2003, in causa C-224/01, Köbler).

6.2.– Nello specifico, l’art. 2 della legge n. 117 del 1988 disegnava i tratti della fattispecie illecita e il perimetro dei danni risarcibili.

6.2.1.– Sotto il primo profilo, l’art. 2 specificava l’elemento soggettivo dell’illecito, nonché le condotte, attive e omissive, idonee a rendere non iure l’esercizio della funzione giudiziaria, oltre che contra ius il danno cagionato, in quanto conseguente alla lesione di interessi giuridicamente rilevanti e meritevoli di tutela risarcitoria.

Tali condotte venivano identificate sia nel diniego di giustizia, sia nei comportamenti, atti o provvedimenti posti in essere con dolo o colpa grave nell’esercizio delle funzioni giudiziarie (art. 2, comma 1). In particolare, relativamente all’illecito gravemente colposo, l’art. 2, comma 3, tipizzava le condotte non iure, individuandole: (a) nella grave violazione di legge, determinata da negligenza inescusabile; (b) nell’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; (c) nella negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento; (d) nell’emissione di un provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione.

Viceversa, erano attratte nella sfera della condotta iure «l’attività di interpretazione di norme di diritto», nonché «quella di valutazione del fatto e delle prove», in virtù della cosiddetta clausola di salvaguardia, di cui all’art. 2, comma 2.

In sostanza, l’illecito da esercizio della funzione giudiziaria presentava – e presenta tuttora, pur con le significative modifiche introdotte nel 2015 – caratteri di specialità, posti a presidio dell’indipendenza e dell’autonomia della funzione giudiziaria (sentenze n. 49 del 2022, n. 164 del 2017, n. 468 del 1990 e n. 18 del 1989).

A ciò si aggiungeva – sempre nel testo originario del 1988 – la previsione di una condizione di ammissibilità della domanda risarcitoria, regolata all’art. 5, che la successiva legge n. 18 del 2015 ha poi rimosso.

Infine, il quadro della disciplina sulla responsabilità civile del magistrato si completava con la previsione (confermata nel 2015) della possibilità di rivolgere l’azione in via diretta unicamente contro lo Stato.

Quanto all’azione di rivalsa nei confronti del magistrato (resa nel 2015 espressamente obbligatoria), essa era consentita solo una volta intervenuto il giudicato di condanna al risarcimento del danno e con i limiti di importo indicati dal successivo art. 8, vale a dire – salvo il caso dell’illecito doloso – non oltre un terzo dell’annualità dello stipendio, al netto degli oneri fiscali, e, in caso di rivalsa esercitata tramite trattenute sullo stipendio, con rate mensili non superiori a un quinto dello stipendio netto (tali limiti, con la legge n. 18 del 2015, sono stati rispettivamente elevati alla metà dello stipendio annuale netto e a rate non superiori a un terzo dello stipendio mensile netto).

6.2.2.– Venendo, ora, al profilo dei danni risarcibili – oggetto specifico delle odierne censure – il perimetro tracciato dal legislatore risultava ispirato a una duplice scelta.

Per un verso, veniva garantito il risarcimento dei medesimi danni suscettibili di essere liquidati, in quel momento storico, sulla base delle norme generali: il danno patrimoniale; il danno biologico, inquadrato all’epoca nell’art. 2043 cod. civ., quale tertium genus ascrivibile al danno ingiusto (sentenza n. 184 del 1986) o – secondo una diversa prospettiva – quale danno lato sensu patrimoniale, categorie entrambe menzionate dall’art. 2; e, infine, il danno non patrimoniale da reato, riconducibile alle «norme ordinarie», che si riespandevano, ai sensi dell’art. 13, in presenza di un illecito penale.

Per un altro verso, il legislatore del 1988 – a seguito di un vivace confronto parlamentare e in una fase storica in cui già ferveva il dibattito su possibili prospettive di ampliamento della risarcibilità dei danni non patrimoniali, specie a tutela dei diritti della persona – ammetteva la piena protezione risarcitoria, estesa a tali danni, nella sola ipotesi di privazione della libertà personale.

Veniva, dunque, selezionato e protetto il diritto inviolabile di cui all’art. 13 Cost., implicato a fronte di coercizioni fisiche, ovvero di forme di «privazione o restrizione», aventi a oggetto il corpo della persona (sentenze n. 127 e n. 22 del 2022, n. 275 del 2017, n. 222 del 2004 e n. 238 del 1996), non astrattamente previste dalla legge e irrogate senza «un regolare giudizio […] a tal fine instaurato» (sentenza n. 11 del 1956).

6.3.– Di seguito, dopo circa tre lustri da quella prima apertura al risarcimento dei danni non patrimoniali da lesione di uno dei diritti inviolabili della persona, la regola generale di cui all’art. 2059 cod. civ. è stata sottoposta a un radicale cambiamento ermeneutico.

Con cinque pronunce, di identico tenore, la Corte di cassazione (terza sezione civile, sentenze 31 maggio 2003, n. 8828 e n. 8827 e 12 maggio 2003, n. 7283, n. 7282 e n. 7281), dopo oltre un ventennio di riflessioni dottrinali incentrate sulla necessità di estendere, a tutela della persona, la risarcibilità dei danni non patrimoniali, ha optato per un’interpretazione adeguatrice alla Costituzione dell’art. 2059 cod. civ.

In particolare, la lesione dei diritti inviolabili della persona, di cui all’art. 2 Cost., è stata ascritta ai «casi previsti dalla legge», che ai sensi dell’art. 2059 cod. civ. consentono il risarcimento dei danni non patrimoniali. Più precisamente, sia la previsione, nell’art. 2 Cost., della “garanzia” dei diritti inviolabili della persona, sia il senso stesso dell’inviolabilità, proiettata nei rapporti orizzontali, sono stati ritenuti idonei a recepire implicitamente il rinvio di cui all’art. 2059 cod. civ. Ai diritti inviolabili della persona non può negarsi la tutela civile offerta dal risarcimento dei danni non patrimoniali che, non differenziando i danneggiati in base alla loro capacità di produrre reddito, assicura una protezione basilare, riconoscibile a tutti e idonea a svolgere una funzione solidaristico-satisfattiva, talora integrata – in presenza di una particolare gravità soggettiva dell’illecito e relativamente alla componente del danno morale – anche da una funzione individual-deterrente.

Il citato diritto vivente ha poi conseguito l’avallo di questa Corte che, a fronte della tutela assicurata in via ermeneutica agli «interessi di rango costituzionale inerenti alla persona» (sentenza n. 233 del 2003), ha giudicato come non fondata «nei sensi di cui in motivazione» la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2059 cod. civ., sollevata in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost. E, nella motivazione, questa Corte ha riconosciuto alle sentenze della Cassazione (e specificamente alle pronunce n. 8828 e n. 8827 del 2003) «l’indubbio pregio di [aver] ricond[otto] a razionalità e coerenza il tormentato capitolo della tutela risarcitoria del danno alla persona», in virtù di «un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ., tesa a ricomprendere nell’astratta previsione della norma ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona», incluso «il danno biologico».

Successivamente, l’intervento nel 2008 di ulteriori sentenze, di contenuto identico, della Corte di cassazione (sezioni unite civili, sentenze 11 novembre 2008, n. 26975, n. 26974, n. 26973 e n. 26972) ha consolidato il revirement, nel solco – per quanto interessa nel presente giudizio – della necessaria dimostrazione della lesione di un diritto inviolabile della persona al fine di poter conseguire il danno non patrimoniale, sulla base del coordinamento tra art. 2059 cod. civ. e art. 2 Cost. Al contempo, allo stesso presupposto costituito dalla lesione di un diritto inviolabile della persona è stata associata la non risarcibilità di offese bagatellari, in quanto non idonee a coinvolgere in concreto la categoria di cui all’art. 2 Cost. Del resto, deve ritenersi immanente alla necessaria coesistenza pluralistica di libertà e diritti l’esigenza di non assecondare mere reazioni idiosincratiche, richiedendo «a ogni persona inserita nel complesso contesto sociale» il rispetto di un minimo di tolleranza (così la citata sentenza della Cassazione n. 26972 del 2008, ripresa da questa Corte nella sentenza n. 235 del 2014).

7.– L’evoluzione ermeneutica dell’art. 2059 cod. civ., pur se ha visto richiamare l’art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988, quale esempio di «ampliamento dei casi di espresso riconoscimento del risarcimento del danno non patrimoniale anche al di fuori dell’ipotesi di reato, in relazione alla compromissione di valori personali (art. 2 della legge 13/4/1988 n. 117 […])» (Corte di cassazione, sentenze n. 8828 e n. 8827 del 2003 e, in senso analogo, la sentenza di questa Corte n. 233 del 2003), di fatto ha finito per rendere ancora più evidente il contrasto fra la scelta selettiva operata dall’art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988 e l’esigenza di una piena tutela risarcitoria di tutti i diritti inviolabili della persona.

D’altro canto, il carattere precursore di una maggiore apertura alla risarcibilità dei danni non patrimoniali, proprio della citata disciplina, non basta a suffragare l’ipotesi di una applicazione sopravvenuta, alla responsabilità civile del magistrato, dell’art. 2059 cod. civ., raccordato con l’art. 2 Cost., nei termini di una interpretazione costituzionalmente orientata.

Si frappongono a una tale ricostruzione sia il dato testuale della disposizione censurata, frutto della consapevole e meditata decisione del legislatore del 1988 di recepire il rinvio dell’art. 2059 cod. civ., limitando la tutela al solo caso della privazione della libertà personale, sia la stessa scelta operata dal legislatore del 2015, che è intervenuto per eliminare il citato richiamo, onde consentire il riespandersi della norma generale. Non a caso, la pur limitata giurisprudenza che si è espressa in materia (Corte d’appello di Palermo, sezione terza civile, sentenza 25 gennaio 2022; Tribunale ordinario di Trento, sezione civile, sentenza 20 maggio 2020; Tribunale ordinario di Messina, sezione prima civile, sentenza 30 maggio 2017) ha negato il risarcimento dei danni non patrimoniali da lesione di diritti diversi dalla libertà personale, nell’applicazione della disciplina della responsabilità del magistrato antecedente alla riforma del 2015. Inoltre, la stessa Corte di cassazione ha evidenziato il carattere non retroattivo, e di riflesso innovativo, della legge n. 18 del 2015 (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 3 maggio 2019, n. 11747 e sezione terza civile, sentenza 15 dicembre 2015, n. 25216, cui si aggiunge l’ordinanza in epigrafe).

8.– Esclusa, dunque, una possibile soluzione ermeneutica dei dubbi di legittimità costituzionale sollevati in merito all’art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988, l’irragionevolezza che, in contrasto con l’art. 3 Cost., il rimettente lamenta rispetto agli artt. 2 e 32 Cost., si ravvisa nella scelta del legislatore di negare la piena tutela risarcitoria, estesa ai danni non patrimoniali, ai diritti inviolabili della persona diversi dalla libertà personale, che la Costituzione «riconosce e garantisce» all’art. 2 Cost. e ai quali si ascrive certamente anche il diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost.

La selezione di un unico diritto inviolabile della persona (la libertà di cui all’art. 13 Cost.), cui garantire, a fronte di un illecito civile, piena ed effettiva tutela risarcitoria, appalesa oggi, con il maturare della consapevolezza circa la rilevanza e le funzioni del risarcimento dei danni non patrimoniali a tutela dei diritti inviolabili della persona, i tratti della irragionevolezza e, dunque, della contrarietà all’art. 3 Cost.

8.1.– In particolare, non è dato rinvenire alcuna giustificazione che possa sottrarre la valutazione effettuata dal legislatore al giudizio di irragionevolezza.

8.1.1.– In primo luogo, la selezione di un solo diritto inviolabile della persona da proteggere con il risarcimento dei danni non patrimoniali, anche fuori dai casi di reato, non è giustificata dalla specificità dell’illecito civile da esercizio della funzione giudiziaria.

L’esigenza di preservare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura rileva nella definizione del confine fra lecito e illecito e nella dialettica tra azione civile diretta nei confronti dello Stato e azione di rivalsa nei riguardi del magistrato. Sono questi i profili della disciplina vòlti a realizzare il «delicato bilanciamento» tra i principi di cui agli artt. 101 e 103 Cost. e gli interessi di chi risulta «ingiustamente danneggiato» (sentenza n. 164 del 2017, che richiama affermazioni già svolte nella sentenza n. 2 del 1968). Viceversa, una volta delimitato il campo dell’illecito, a beneficio della serenità e dell’autonomia del giudice nello svolgimento delle sue funzioni (sentenze n. 49 del 2022, n. 164 del 2017, n. 18 del 1989, n. 26 del 1987 e n. 2 del 1968), non si ravvisano ragioni idonee a giustificare una compressione di quella tutela essenziale dei diritti inviolabili della persona, che è data dal risarcimento dei danni non patrimoniali.

E l’irragionevolezza diviene ancora più evidente, ove si consideri che l’autonomia del magistrato è preservata anche dal carattere indiretto della responsabilità, nonché dai limiti posti all’azione di rivalsa.

In un simile contesto, la compressione della tutela civile dei diritti inviolabili della persona si traduce in una irragionevole limitazione della responsabilità civile dello Stato e del magistrato.

8.1.2.– In secondo luogo, se è vero che la libertà personale, di cui all’art. 13 Cost., può ritenersi esposta a subire pregiudizi particolarmente gravi per effetto dell’illecito del magistrato, simile circostanza rileva su un piano meramente di fatto, del tutto inidoneo a giustificare l’esclusione dalla tutela degli altri diritti inviolabili della persona, parimenti suscettibili di subire danni in conseguenza di una acclarata responsabilità del magistrato. Al contempo, pur potendosi ben configurare, in concreto, diversi livelli di gravità dell’illecito, nondimeno è certamente da escludere una astratta differenziazione, rispetto a un rimedio civile che offre una tutela basilare, dei diritti inviolabili della persona, evocatrice, in tale ambito, di una insostenibile gerarchia interna a tale categoria di diritti.

8.2.– Infine, non è dato neppure invocare – come si legge nella difesa dell’Avvocatura generale dello Stato – la necessità di preservare un presunto affidamento nella pregressa normativa, sul presupposto che una pronuncia di illegittimità costituzionale andrebbe a rendere illecito ciò che tale non era sulla base della precedente disciplina.

Un simile assunto non può essere, infatti, condiviso.

Il raggio dell’illecito civile da esercizio della funzione giudiziaria abbracciava sin dal 1988 – tramite il riferimento al danno ingiusto – la lesione di qualsivoglia interesse giuridicamente rilevante, paradigma ovviamente comprensivo dei diritti inviolabili della persona. Ed è rispetto al sintagma del danno ingiusto, e specificamente rispetto all’evento lesivo, che si valutano tanto il nesso di causalità di fatto (o causalità materiale), quanto gli elementi soggettivi dell’illecito.

Di conseguenza, affermare la possibile liquidazione dei danni non patrimoniali da lesione dei diritti inviolabili della persona non equivale a un ampliamento del raggio dell’illecito, ma implica soltanto un’estensione dei danni risarcibili. Ed è noto che, nell’illecito aquiliano, i danni risarcibili sono sottratti alla sfera di controllo del danneggiante e sono unicamente circoscritti dall’elemento oggettivo costituito dal nesso di causalità giuridica.

9.– L’art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988, nel testo antecedente alla modifica apportata dall’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 18 del 2015, è, dunque, costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui limita il risarcimento dei danni non patrimoniali alla sola lesione della libertà personale, escludendo dalla medesima tutela gli altri diritti inviolabili della persona garantiti dall’art. 2 Cost. (compreso il diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost.).

In definitiva, la norma è costituzionalmente illegittima nella parte in cui non prevede il risarcimento dei danni non patrimoniali da lesione di diritti inviolabili della persona anche diversi dalla libertà personale.

10.– Passando ora a considerare il secondo gruppo di censure, sollevate sempre in riferimento agli artt. 2, 3 e 32 Cost., ma relativamente all’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 18 del 2015, esse sono non fondate alla luce della declaratoria di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988, nel testo antecedente alla riforma.

Con le citate questioni si lamenta, infatti, la mancata applicazione retroattiva, ai processi in corso per fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 18 del 2015, della modifica apportata dalla medesima legge all’art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988. Sennonché, la norma di cui si prospetta l’applicazione retroattiva ha un contenuto che finisce per combaciare, salvo per l’appunto il profilo temporale, con quello della norma che, all’esito del giudizio di legittimità costituzionalità sull’art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988, nel testo antecedente alla riforma, risulta applicabile ai fatti antecedenti al 2015.

Vero è che la disciplina novellata sembrerebbe avere un respiro più ampio della mera risarcibilità dei danni non patrimoniali da lesione dei diritti inviolabili della persona, cui conduce la declaratoria di parziale illegittimità costituzionale della pregressa disciplina. Infatti, con la rimozione nel 2015 del riferimento alla privazione della libertà personale, è stata correlata la risarcibilità dei danni patrimoniali e non patrimoniali al paradigma del danno ingiusto, il che potrebbe indurre a ritenere che si possano liquidare i danni non patrimoniali in conseguenza della lesione di qualsivoglia interesse giuridicamente rilevante.

Tuttavia, così interpretata, la disposizione paleserebbe un senso del tutto divergente rispetto all’intentio legis desumibile dai lavori preparatori. Ivi, infatti, si giustificava l’abrogazione del richiamo alla libertà personale, facendo riferimento agli «ormai costanti orientamenti della giurisprudenza (v. tra le altre, Cass. SS. UU., sent. 26972/2008 e la recente Corte cost., sent. 235/2014)» che riconoscono i danni non patrimoniali conseguenti alla lesione di «interessi costituzionalmente protetti» e, più precisamente, – come chiarito proprio nella sentenza della Corte di cassazione che viene citata, la n. 26972 del 2008 – conseguenti alla lesione di diritti inviolabili della persona. Del resto, l’intentio legis era proprio quella di garantire, nel caso dell’illecito derivante da esercizio della funzione giudiziaria, la medesima tutela risarcitoria prevista per gli altri illeciti. Sulla base di tali premesse, e in linea con la pur sporadica giurisprudenza che si è confrontata con il problema ermeneutico posto dalla nuova formulazione dell’art. 2 della legge n. 117 del 1988 (in particolare, è esplicita in proposito la citata sentenza della Corte d’appello di Palermo del 25 gennaio 2022), si può, dunque, ritenere che la rimozione, attuata nel 2015, del limite costituito dalla lesione della libertà personale, abbia avuto il senso di eliminare un ostacolo testuale alla piena riespansione dell’art. 2059 cod. civ., nel suo coordinamento con l’art. 2 Cost.

In definitiva, sia la corrispondenza fra la disciplina che deriva dalla declaratoria di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988, antecedente alla riforma del 2015, e la norma che si desume dalla modifica introdotta nel 2015, sia la considerazione che, in ogni caso, il secondo gruppo di censure mirava alla retroattività della nuova regola, ma solo a difesa dei diritti di cui agli artt. 2 e 32 Cost., che oramai risultano protetti dall’intervento di questa Corte, determinano il venir meno del vulnus lamentato e, dunque, la sicura non fondatezza delle questioni poste con riferimento all’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 18 del 2015.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), nel testo antecedente alla modifica apportata dall’art. 2, comma 1, lettera a), della legge 27 febbraio 2015, n. 18 (Disciplina della responsabilità civile dei magistrati), nella parte in cui non prevede il risarcimento dei danni non patrimoniali da lesione dei diritti inviolabili della persona anche diversi dalla libertà personale;

2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 18 del 2015, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione, dalla Corte di cassazione, sezione terza civile, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 luglio 2022.

F.to:

Giuliano AMATO, Presidente

Emanuela NAVARRETTA, Redattrice

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 15 settembre 2022.