Sentenza n. 195 del 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giuliano AMATO;

Giudici: Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 (Nuove norme sulla cittadinanza), promosso dal Tribunale ordinario di Trieste, sezione civile, nel procedimento vertente tra G. G. e il Ministero dell’interno, con ordinanza del 29 settembre 2021, iscritta al n. 214 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 2, prima serie speciale, dell’anno 2022.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udita nella camera di consiglio del 23 giugno 2022 la Giudice relatrice Emanuela Navarretta;

deliberato nella camera di consiglio del 23 giugno 2022.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza depositata il 29 settembre 2021 e iscritta al n. 214 del registro ordinanze 2021, il Tribunale ordinario di Trieste, sezione civile, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 111 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 (Nuove norme sulla cittadinanza), nella parte in cui non esclude dal novero delle cause ostative al riconoscimento del diritto di cittadinanza la morte del coniuge del richiedente, sopravvenuta in pendenza dei termini previsti dalla legge per la conclusione del relativo procedimento.

2.– In punto di fatto, il giudice a quo riferisce che G. G., cittadina ucraina residente in Italia dal 6 settembre 2007, si era sposata, in data 14 marzo 2009, con G. R., cittadino italiano, e che, successivamente al matrimonio, aveva mantenuto la residenza in Italia.

2.1.– Il Tribunale rimettente espone che, in data 9 giugno 2011, G. G. inoltrava alla Prefettura un’istanza, ai sensi dell’art. 5 della legge n. 91 del 1992, diretta al riconoscimento della cittadinanza italiana. Tuttavia, in data 22 aprile 2013, le veniva notificato un provvedimento con cui tale istanza era dichiarata improcedibile a causa del decesso del coniuge, verificatosi il 27 luglio 2012.

2.2.– Il giudice a quo riporta, di séguito, che G. G. ha agito in giudizio per l’accertamento del suo diritto al conseguimento della cittadinanza italiana, asserendo di aver risieduto in Italia per il prescritto periodo di almeno due anni dopo il matrimonio, così integrando il presupposto richiesto dall’art. 5 della legge n. 91 del 1992.

Nel giudizio si è costituito il Ministero dell’interno, evidenziando che il decesso del coniuge dell’istante, verificatosi nelle more del procedimento amministrativo, avrebbe dato luogo a una delle cause ostative, di cui all’art. 5 della citata legge, secondo cui, «ai fini dell’acquisto della cittadinanza, non deve essere intervenuto, al momento dell’adozione del decreto prefettizio, lo scioglimento del matrimonio». Di conseguenza, deduceva la legittimità dell’operato dell’amministrazione convenuta e si opponeva alla domanda della ricorrente, chiedendone il rigetto.

3.– Così riferite le premesse in fatto, il rimettente ritiene di dover sollevare questioni di legittimità costituzionale «dell’art. 5 della L. n. 91 del 1992 nella parte in cui non esclude, dal novero delle cause ostative al riconoscimento del diritto di cittadinanza, la morte sopravvenuta del coniuge del richiedente in pendenza dei termini previsti dalla legge per la conclusione del relativo procedimento».

4.– In punto di rilevanza, il Tribunale di Trieste sostiene che, «nel caso di specie, una pronuncia di incostituzionalità della norma nel senso sopra indicato consentirebbe alla ricorrente di eliminare l’ostacolo frapposto dal legislatore al riconoscimento del suo diritto» e che la risoluzione del dubbio di legittimità costituzionale è, pertanto, pregiudiziale alla definizione del giudizio principale.

Inoltre, reputa non percorribile una interpretazione costituzionalmente conforme della disposizione censurata, stante il suo tenore testuale.

5.– Quanto al giudizio sulla non manifesta infondatezza, il giudice a quo ravvisa, innanzitutto, una violazione dell’art. 3 Cost., «in relazione agli artt. 111 e 24 Cost.».

5.1.– In particolare, ritiene «pacifica» la qualifica della situazione giuridica soggettiva invocata dalla ricorrente come diritto soggettivo, che «richiede un preventivo accertamento della P.A. diretto a verificarne i presupposti prestabiliti dalla legge». Su tale premessa, ravvisa «un’irragionevole disparità di trattamento di detta posizione giuridica rispetto a quei diritti che possono essere fatti valere direttamente in via giurisdizionale». Per questi ultimi opererebbe il principio di retroattività degli effetti della pronuncia al momento della domanda. Viceversa, per il diritto in esame, l’assetto normativo imporrebbe di «considerare la situazione esistente al momento dell’adozione del provvedimento amministrativo, a nulla rilevando che i presupposti legislativi per il riconoscimento del diritto già sussistessero al momento della domanda».

In tal modo, il «procedimento amministrativo […] finirebbe con l’assurgere, surrettiziamente, a limite all’accertamento giurisdizionale del diritto, in palese contrasto con l’art. 24 Cost.».

5.2.– Inoltre, prosegue il rimettente, risulterebbe violato anche l’art. 97 Cost., in quanto «il riconoscimento della posizione giuridica dell’individuo» verrebbe pregiudicato «dalla durata del procedimento amministrativo», in contrasto con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, ivi disposto. Questo, viceversa, esigerebbe che la durata del procedimento amministrativo non vada «a discapito della domanda di accertamento del diritto, analogamente a quanto desumibile dai principi del giusto processo di cui all’art. 111 Cost.».

5.3.– Infine, secondo il giudice a quo, la norma si dimostrerebbe intrinsecamente irragionevole, e perciò ulteriormente lesiva dell’art. 3 Cost. L’irragionevolezza risiederebbe nella equiparazione fra il «decesso del coniuge del richiedente, intervenuto […] in seguito alla presentazione dell’istanza di cui al citato art. 5», e le «altre situazioni ivi contemplate (separazione, annullamento, cessazione degli effetti civili e altre cause di scioglimento del matrimonio)», riconducibili alla sfera di volontà e al dominio del richiedente. In tal modo, si finirebbe irragionevolmente per subordinare il riconoscimento del diritto a «una circostanza del tutto aleatoria», estranea alle ragioni «sottese al riconoscimento del diritto stesso» e avulsa dall’obiettivo di evitare matrimoni preordinati al solo acquisto della cittadinanza.

6.– Con atto depositato il 28 gennaio 2022, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo la non fondatezza delle questioni sollevate.

6.1.– Ad avviso dell’Avvocatura, l’acquisizione della cittadinanza per matrimonio, disciplinata dalla disposizione censurata, troverebbe il suo fondamento nella particolare tutela che il legislatore ha inteso riservare al nucleo familiare costituito dal vincolo matrimoniale fra un cittadino italiano e un cittadino straniero o apolide.

La norma censurata non sarebbe finalizzata «a tutelare un autonomo e personale interesse dello straniero a ottenere la cittadinanza per matrimonio avulso dalla sua condizione di coniuge da almeno due anni di un cittadino italiano, ma a offrire al cittadino straniero o apolide», in quanto sposato con un italiano, uno strumento di speciale rafforzamento della sua posizione, rispetto alla sua possibile permanenza sul territorio nazionale e «al suo diritto di entrare e uscire liberamente da tale territorio».

La disciplina censurata sarebbe coerente con tale ratio, in quanto vòlta ad assicurare ai componenti del nucleo familiare la speciale forma di stabilizzazione prevista dal censurato art. 5, sul presupposto che tale nucleo, al momento dell’emanazione del provvedimento, sussista.

In sostanza, l’Avvocatura ritiene che l’esistenza del nucleo familiare costituisca elemento costitutivo «del diritto o interesse legittimo alla naturalizzazione», secondo quanto previsto dall’art. 5 della legge n. 91 del 1992, il che comporterebbe – con il sopravvenuto venir meno di tale presupposto – non un rigetto dell’istanza, ma la definitiva interruzione della procedura di naturalizzazione.

Da ciò l’Avvocatura desume l’esito irragionevole che deriverebbe da un eventuale accoglimento delle questioni sollevate, in quanto si consentirebbe, soltanto nel caso del decesso del coniuge del cittadino italiano, il completamento della procedura di naturalizzazione, nonostante il venir meno del vincolo matrimoniale.

7.– Con atto depositato il 26 maggio 2022, il Presidente del Consiglio dei ministri ha presentato memoria, reiterando gli argomenti già svolti in sede di intervento.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza depositata il 29 settembre 2021 e iscritta al n. 214 del registro ordinanze 2021, il Tribunale ordinario di Trieste, sezione civile, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 111 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 (Nuove norme sulla cittadinanza), nella parte in cui non esclude dal novero delle cause ostative al riconoscimento del diritto di cittadinanza la morte del coniuge del richiedente, sopravvenuta in pendenza dei termini previsti dalla legge per la conclusione del relativo procedimento.

2.– L’art. 5 della legge n. 91 del 1992 dispone che «[i]l coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano può acquistare la cittadinanza italiana quando, dopo il matrimonio, risieda legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica, oppure dopo tre anni dalla data del matrimonio se residente all’estero, qualora, al momento dell’adozione del decreto di cui all’articolo 7, comma 1, non sia intervenuto lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e non sussista la separazione personale dei coniugi».

3.– Ad avviso del rimettente, la citata disposizione includerebbe, tra le cause ostative al conferimento della cittadinanza, lo scioglimento del matrimonio derivante dalla morte del coniuge del richiedente in pendenza del procedimento per l’attribuzione della cittadinanza.

Simile norma comporterebbe la lesione di plurimi parametri costituzionali.

3.1.– Innanzitutto, secondo quanto affermato nell’ordinanza, violerebbe l’art. 3 Cost., in relazione agli artt. 111 e 24 Cost.

A differenza di quanto accade nel caso dei diritti che possono essere fatti valere in via giurisdizionale, per i quali opera il principio di retroattività degli effetti della pronuncia al momento della domanda, nel caso di specie, una circostanza verificatasi nella pendenza del procedimento amministrativo impedirebbe il riconoscimento del diritto alla cittadinanza.

In tal modo, lo stesso procedimento «finirebbe con l’assurgere, surrettiziamente, a limite all’accertamento giurisdizionale del diritto, in palese contrasto con l’art. 24 Cost.» e con il principio «del giusto processo di cui all’art. 111 Cost.».

3.2.– Così operando, la norma censurata violerebbe – in base alla ricostruzione del rimettente – anche il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, disposto dall’art. 97 Cost., in quanto la «posizione giuridica dell’individuo» risulterebbe pregiudicata «dalla durata del procedimento amministrativo».

3.3.– Infine, il giudice a quo ritiene autonomamente violato l’art. 3 Cost. sotto il profilo della irragionevolezza intrinseca della norma, che include la morte del coniuge, nella pendenza del procedimento amministrativo, fra le cause ostative del riconoscimento della cittadinanza al coniuge superstite, considerandola alla stessa stregua delle altre fattispecie previste dall’art. 5, comma 1, della legge n. 91 del 1992.

Non sarebbe, infatti, giustificata l’equiparazione fra il «decesso del coniuge del richiedente, intervenuto […] in seguito alla presentazione dell’istanza di cui al citato art. 5», ipotesi «del tutto aleatoria» e indipendente dal comportamento dell’avente diritto alla cittadinanza, e le «altre situazioni ivi contemplate (separazione, annullamento, cessazione degli effetti civili e altre cause di scioglimento del matrimonio)», riconducibili alla sfera di volontà e al dominio del richiedente.

Individuata la ratio dell’art. 5, comma 1, della legge n. 91 del 1992 nell’esigenza di evitare matrimoni preordinati al solo acquisto della cittadinanza, il rimettente reputa irragionevole che essa ricomprenda anche il caso del decesso del coniuge, che è estraneo sia alla citata motivazione, sia, più in generale, alle ragioni «sottese al riconoscimento del diritto stesso».

4.– La questione di legittimità costituzionale incentrata sull’art. 3 Cost., sotto il profilo della intrinseca irragionevolezza, è fondata.

5.– In via preliminare, si rende necessario un breve inquadramento sistematico della norma censurata.

L’art. 5 della legge n. 91 del 1992 disciplina uno dei modi di acquisto di diritto della cittadinanza italiana.

Nella sua formulazione originaria, la disposizione aveva riprodotto l’art. 1 della precedente legge 21 aprile 1983, n. 123 (Disposizioni in materia di cittadinanza), stabilendo che «[i]l coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano acquista la cittadinanza italiana quando risieda da almeno sei mesi nel territorio della Repubblica, ovvero dopo tre anni dalla data del matrimonio, se non vi è stato scioglimento, annullamento o cessazione degli effetti civili e se non sussiste separazione legale».

Successivamente, l’art. 1, comma 11, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) ha novellato l’art. 5 sotto diversi profili.

Da un lato, è stato innalzato da sei mesi a due anni il termine a partire dal quale, ove l’istante abbia risieduto in Italia dopo il matrimonio, può essere richiesta la cittadinanza, mentre è rimasto invariato il periodo di tre anni previsto qualora la residenza sia all’estero. Al contempo, è stata aggiunta, al comma 2, la previsione secondo la quale, «in presenza di figli nati o adottati dai coniugi», entrambi i termini, sopra richiamati, vengono ridotti della metà.

Da un altro lato, l’art. 5, comma 1, ha stabilito che «lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio» o «la separazione personale dei coniugi», che ostano al riconoscimento della cittadinanza, non devono sussistere al momento dell’adozione del decreto di conferimento, di cui all’art. 7, comma 1, della legge n. 91 del 1992. E tale decreto, in base a quanto dispone l’art. 9-ter della medesima legge – introdotto dall’art. 14, comma 1, lettera c), del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132 – può essere adottato entro un termine di «ventiquattro mesi prorogabile sino al massimo di trentasei mesi dalla data di presentazione della domanda».

Infine, sono previste cause ostative all’acquisto della cittadinanza, correlate alla condanna per taluni illeciti penali, dal successivo art. 6 della stessa legge n. 91 del 1992, che, al comma 1, lettera c), aggiunge anche un’ulteriore preclusione all’acquisto della cittadinanza, costituita dalla sussistenza di «comprovati motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica».

6.– La ratio della disciplina di cui all’art. 5 della legge n. 91 del 1992, e delle norme a esso correlate, è quella di offrire allo straniero o all’apolide un modo di acquisto della cittadinanza agevolato rispetto ai meccanismi concessori, sul presupposto della sua appartenenza a una comunità familiare, fondata sul vincolo matrimoniale con un cittadino italiano.

6.1.– In particolare, il prolungamento del termine relativo alla durata del rapporto matrimoniale, introdotto con la legge n. 94 del 2009, ha posto l’accento, oltre che sull’atto del matrimonio, sulla partecipazione a un nucleo familiare, protratta per un lasso di tempo, che, come si è visto, va da un minimo di un anno, nel caso in cui vi siano figli e la residenza in Italia, a tre anni, in assenza di figli e con la residenza all’estero.

Elementi costitutivi della situazione giuridica soggettiva diretta al conseguimento della cittadinanza sono, dunque, i requisiti, positivi e negativi, indicati dagli artt. 5 e 6 della legge n. 91 del 1992.

Nello specifico, se è vero che la mancanza dello scioglimento, dell’annullamento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio, nonché l’assenza della separazione personale dei coniugi sono riferite, dall’art. 5, comma 1, – come novellato nel 2009 –, «al momento dell’adozione del decreto di cui all’art. 7, comma 1», esse, a ben vedere, rilevano già al momento della presentazione dell’istanza, in quanto elementi costitutivi del diritto, il quale presuppone l’attualità del rapporto coniugale.

Non è dato, viceversa, ritenere – come sembra sostenere l’Avvocatura – che elemento costitutivo «del diritto o interesse legittimo alla naturalizzazione» sia l’esistenza del nucleo familiare al momento dell’adozione del decreto, poiché ciò equivarrebbe ad affermare che il soggetto che presenta l’istanza, in un momento necessariamente antecedente alla emanazione del provvedimento, possa invocare il riconoscimento di un diritto non ancora integrato in tutti i suoi presupposti costitutivi. Oltretutto, ne deriverebbe la possibilità di attribuire la cittadinanza al coniuge che, al momento della presentazione dell’istanza sia legalmente separato, qualora lo stesso, prima dell’emanazione del provvedimento, si sia riconciliato.

Di conseguenza, elementi costitutivi per il riconoscimento della cittadinanza, ai sensi dell’art. 5 della legge n. 91 del 1992, sono la sussistenza, al momento della presentazione dell’istanza, di un rapporto coniugale, protratto per il periodo di tempo richiesto dalla legge, in mancanza delle vicende che inficiano il matrimonio o il relativo rapporto. Se, poi, tali vicende sopraggiungono nella pendenza del procedimento amministrativo, esse vengono a configurarsi quali cause ostative al riconoscimento del diritto stesso.

6.2.– Tanto premesso, occorre individuare la ratio della peculiare previsione delle citate cause ostative, le quali, di fatto, finiscono per prolungare di un periodo variabile, che dipende dall’attività amministrativa e che può arrivare ad aggiungere sino a ulteriori tre anni (art. 9-ter della legge n. 91 del 1992), la durata del vincolo matrimoniale richiesta per conseguire la cittadinanza.

Una prima giustificazione di tale previsione potrebbe ravvisarsi – come sostiene l’Avvocatura – nella scelta di far gravare sull’istante il rischio del venir meno dei presupposti costitutivi del diritto nella pendenza del procedimento, al fine di garantire l’attualità della appartenenza al nucleo familiare dello straniero (o dell’apolide), al momento dell’attribuzione della cittadinanza.

In alternativa, dovrebbe ipotizzarsi che la ratio sia quella prospettata dal Tribunale rimettente, in base alla quale la norma avrebbe il compito di prevenire usi strumentali del matrimonio, contratto al solo scopo di conseguire la cittadinanza.

7.– Ebbene, nessuna delle due rationes sopra prospettate consente di superare il vaglio di ragionevolezza rispetto alla norma che ricomprende fra gli elementi ostativi al conferimento della cittadinanza il decesso del coniuge dell’istante, verificatosi in pendenza del procedimento per il riconoscimento del diritto.

7.1.– Innanzitutto, se è vero che la disciplina di cui all’art. 5 della legge n. 91 del 1992 intende agevolare l’integrazione nella comunità statale di chi abbia fatto parte per un periodo di tempo di un nucleo familiare fondato sul vincolo matrimoniale con un cittadino italiano, pretendere in aggiunta l’attualità di tale appartenenza, al momento dell’adozione del decreto, facendo gravare sull’istante anche il rischio della morte del coniuge – nella pendenza del procedimento – equivale a porre a carico di chi ha già maturato i presupposti costitutivi del diritto al riconoscimento della cittadinanza un’alea che gli è totalmente estranea, che sfugge alla sua sfera di controllo e che non attiene alle ragioni costitutive del diritto alla cittadinanza. Lo straniero (o l’apolide) rimasto vedovo ha vissuto nella comunità familiare, costituita in virtù del vincolo matrimoniale con il cittadino italiano, non solo per tutto il tempo richiesto dalla legge per presentare l’istanza di cittadinanza, ma anche per tutto il tempo successivo, sino a che l’evento naturale della morte ha reso impossibile la prosecuzione di tale rapporto.

Non è, dunque, ragionevole negare il riconoscimento della cittadinanza a chi ha presentato, nella qualità di coniuge, la relativa istanza, già supportata dai presupposti costitutivi del diritto, per effetto di un evento naturale sottratto al suo dominio, del tutto estraneo alla sua condotta e che spezza fisiologicamente il legame giuridico; tant’è che l’ordinamento riconosce la più ampia protezione al coniuge superstite, in ambito non solo successorio, ma anche previdenziale e assistenziale.

La morte, pur se scioglie il vincolo matrimoniale, non fa venir meno, tuttavia, la pienezza delle tutele, privatistiche e pubblicistiche, fondate sull’aver fatto parte di una comunità familiare, basata sulla solidarietà coniugale, e dunque non può inibire la spettanza di un diritto sostenuto dai relativi presupposti costitutivi.

In definitiva, è irragionevole negare all’istante, che ha presentato la domanda di cittadinanza e ha maturato i relativi presupposti, il riconoscimento della stessa, in ragione di un evento – qual è la morte del coniuge – del tutto indipendente sia dalla sfera di controllo dello stesso istante, sia dalla ratio dell’attribuzione della cittadinanza.

E ciò è tanto più irragionevole in quanto potrebbe sussistere finanche un nucleo familiare attuale costituito dal coniuge, rimasto vedovo, con gli eventuali figli nati o adottati dai coniugi.

7.2.– Quanto all’altra ipotetica ratio, riferita a una possibile volontà legislativa di prevenire usi strumentali del matrimonio, finalizzato al mero scopo di conseguire la cittadinanza, si tratta di una prospettiva che rende parimenti irragionevole l’inclusione, fra le cause ostative al riconoscimento del diritto, del decesso verificatosi in pendenza del procedimento.

Va premesso, a riguardo, che manca – nella disciplina relativa alla cittadinanza – una disposizione specifica inerente ai matrimoni fittizi, ossia ai matrimoni contratti in frode alla legge, cui si riferiscono gli artt. 29, comma 9, e 30, comma 1-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero). Tali disposizioni prevedono, rispettivamente, che venga respinta la richiesta di ricongiungimento familiare «se è accertato che il matrimonio [ha] avuto luogo allo scopo esclusivo di consentire all’interessato di entrare o soggiornare nel territorio dello Stato» e che «[i]l permesso di soggiorno nei casi di cui al comma 1, lettera b), è immediatamente revocato qualora sia accertato che al matrimonio non è seguita l’effettiva convivenza salvo che dal matrimonio sia nata prole. La richiesta di rilascio o di rinnovo del permesso di soggiorno dello straniero, di cui al comma 1, lettera a), è rigettata e il permesso di soggiorno è revocato se è accertato che il matrimonio [ha] avuto luogo allo scopo esclusivo di permettere all’interessato di soggiornare nel territorio dello Stato».

Orbene, in mancanza di un’analoga disciplina che regoli espressamente, nella materia dell’attribuzione della cittadinanza, le conseguenze della dimostrazione di un matrimonio fittizio, potrebbe ritenersi che il legislatore abbia voluto assicurarsi che, almeno sino all’adozione del decreto di conferimento della cittadinanza, non sussistano patologie dell’atto o cause di scioglimento del vincolo o di cessazione degli effetti civili o di sospensione degli stessi, che potrebbero essere indirettamente indici di un matrimonio fittizio o di una reazione ad esso da parte dell’altro coniuge.

Sennonché, anche a voler ravvisare nell’obiettivo di fronteggiare il citato fenomeno la ratio dello spostamento, al momento dell’adozione del decreto di cui all’art. 7, comma 1, della legge n. 91 del 1992, del vaglio sulla attualità della relazione familiare, resta, in ogni caso, confermata l’assoluta estraneità, rispetto a simile motivazione, della fattispecie del decesso del coniuge, sopraggiunto in pendenza del procedimento amministrativo.

L’uso strumentale dell’istituto matrimoniale per poter conseguire la cittadinanza, ossia un negozio in frode alla legge, caratterizzato da una predeterminazione di eventi – il contrarre matrimonio senza dar seguito agli effetti giuridici dell’atto, con il solo scopo di conseguire la cittadinanza – risulta, infatti, del tutto alieno rispetto all’evento naturale della morte, che non consente di far presumere la sussistenza di un matrimonio fittizio.

8.– Deve, dunque, concludersi che la norma che ascrive il decesso del coniuge, nella pendenza del procedimento per l’attribuzione della cittadinanza, tra i fattori ostativi al suo riconoscimento – in quanto causa di scioglimento del matrimonio – è irragionevole rispetto a qualsivoglia giustificazione riferibile all’art. 5, comma 1, della legge n. 91 del 1992.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il principio di ragionevolezza è, infatti, leso «quando si accerti l’esistenza di una irrazionalità intra legem, intesa come “contraddittorietà intrinseca tra la complessiva finalità perseguita dal legislatore e la disposizione espressa dalla norma censurata” (sentenza n. 416 del 2000)» (sentenza n. 6 del 2019; nello stesso senso, di recente, sentenza n. 125 del 2022). In tal caso, il giudizio di ragionevolezza consiste «in un “apprezzamento di conformità tra la regola introdotta e la ‘causa’ normativa che la deve assistere” (sentenze n. 89 del 1996 e n. 245 del 2007)” (sentenza n. 86 del 2017)» (sentenza n. 6 del 2019).

Tale conformità non sussiste nella norma censurata che, pertanto, vìola l’art. 3 Cost. sotto il profilo dell’intrinseca irragionevolezza.

9.– L’art. 5, comma 1, della legge n. 91 del 1992 deve essere allora dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non esclude, dal novero delle cause ostative al riconoscimento del diritto di cittadinanza, la morte del coniuge del richiedente, sopravvenuta in pendenza dei termini previsti per la conclusione del procedimento di cui al successivo art. 7, comma 1. In altri termini, la norma è illegittima in quanto riferisce al momento dell’adozione del decreto, di cui all’art. 7, comma 1, anziché al momento della presentazione dell’istanza, l’accertamento del mancato scioglimento del matrimonio per morte del coniuge.

Rimangono assorbite le ulteriori questioni di legittimità costituzionale sollevate dall’ordinanza in epigrafe.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 (Nuove norme sulla cittadinanza), nella parte in cui non esclude, dal novero delle cause ostative al riconoscimento del diritto di cittadinanza, la morte del coniuge del richiedente, sopravvenuta in pendenza dei termini previsti per la conclusione del procedimento di cui al successivo art. 7, comma 1.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2022.

F.to:

Giuliano AMATO, Presidente

Emanuela NAVARRETTA, Redattrice

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 26 luglio 2022.