Sentenza n. 74 del 2022

 SENTENZA N. 74

ANNO 2022

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giuliano AMATO;

Giudici: Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 667, comma 4, e 678, comma 1-bis, del codice di procedura penale, promossi dal Tribunale di sorveglianza di Messina con due ordinanze del 5 marzo 2020, iscritte, rispettivamente, ai numeri 78 e 79 del registro ordinanze 2021 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 22 febbraio 2022 il Giudice relatore Francesco Viganò;

deliberato nella camera di consiglio del 22 febbraio 2022.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 5 marzo 2020 (r.o. n. 78 del 2021), pervenuta a questa Corte il 18 maggio 2021, il Tribunale di sorveglianza di Messina ha sollevato d’ufficio questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 667, comma 4, e 678, comma 1-bis, del codice di procedura penale, «in relazione al […] giudizio di riabilitazione ex artt. 178 e ss. c.p. e 683 c.p.p.», nella parte in cui stabilisce che quest’ultimo si svolga obbligatoriamente nelle forme del rito cosiddetto “de plano”, in riferimento agli artt. 24, 27, 111 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU).

1.1.– Il rimettente deve decidere sulla richiesta di riabilitazione presentata da M. C.

Tale richiesta – che sarebbe conforme alle condizioni stabilite dall’art. 179 del codice penale, e perciò ammissibile – dovrebbe essere trattata nella forma semplificata prevista dalle disposizioni censurate, atteso che, secondo il diritto vivente (è citata Corte di cassazione, sezione prima penale, ordinanza 16 aprile 2019, n. 19826), sarebbe irrituale l’immediata trattazione con procedimento a contraddittorio pieno. Del resto, quand’anche si ipotizzasse di disattendere l’indirizzo della giurisprudenza di legittimità, rimettendo la scelta del rito alla discrezionalità dell’organo procedente, «non verrebbero comunque soddisfatte le esigenze sostanziali e processuali sottese ai plurimi profili di incostituzionalità della disciplina impugnata».

Di qui l’asserita rilevanza delle questioni.

1.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo osserva anzitutto che il principio rieducativo di cui all’art. 27, terzo comma, Cost. non potrebbe che «abbracciare l’intera vicenda penale», compreso il procedimento di riabilitazione, il quale presuppone l’avvenuta esecuzione, o comunque l’estinzione, della pena principale e il ravvedimento del condannato, e «si proietta nel settennio successivo alla sua concessione in cui il soggetto riabilitato è chiamato ad astenersi dalla commissione di reati, pena la revoca del beneficio».

1.3.– In riferimento poi agli artt. 24, secondo comma, 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, il rimettente sottolinea la centralità, anche nei procedimenti di esecuzione e di sorveglianza, dei «fondamentali principi del giusto processo in ordine alle garanzie del diritto di difesa e del contraddittorio processuale, alla formazione della prova nell’immediatezza, oralità e concentrazione di tale contraddittorio ed alla pubblicità dell’udienza».

La necessità della partecipazione personale dell’interessato ai procedimenti che «comportano l’accertamento della sua personalità, del suo carattere o del suo stato mentale» e della celebrazione di un’udienza pubblica risulterebbero dalla consolidata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (sono citate le sentenze 8 febbraio 2000, Cooke contro Austria; 10 dicembre 2002, Waite contro Regno Unito; 6 luglio 2004, Dondarini contro San Marino; 25 aprile 2013, Zahirović contro Croazia).

Questa Corte avrebbe poi costantemente valorizzato la pubblicità del giudizio, quale principio connaturato a un ordinamento democratico fondato sulla sovranità popolare (sono richiamate le sentenze n. 12 del 1979 [recte: 1971], n. 50 del 1989, n. 69 del 1991, n. 373 del 1992 e n. 97 del 2015), delineando, con riferimento specifico ai procedimenti innanzi alla magistratura di sorveglianza, un «diritto potestativo» dell’interessato alla celebrazione dell’udienza pubblica (sono citate le sentenze n. 135 del 2014 e n. 97 del 2015).

Per contro, il procedimento a contraddittorio eventuale e differito delineato dai censurati artt. 667, comma 4, e 678, comma 1-bis, cod. proc. pen. – che comporta «l’esclusione “coatta” della necessità originaria della partecipazione delle parti processuali e del loro contraddittorio, della presenza personale dell’interessato, della formazione della prova nel contraddittorio e della pubblicità dell’udienza» – determinerebbe un vulnus ai parametri costituzionali menzionati.

In effetti, il giudizio di riabilitazione implicherebbe un «accertamento altamente discrezionale del raggiungimento o meno delle finalità rieducative, risocializzative e riparative della pena espiata o comunque estinta». In particolare, esso sarebbe caratterizzato, da un lato, da una «dimensione diagnostico-retrospettiva» finalizzata all’accertamento del requisito della buona condotta, intesa come condotta «rispettosa delle leggi non solo penali dello Stato laico, osservante dei doveri costituzionali del cittadino, dei principi di convivenza civile» ed espressiva di un «ravvedimento “operoso” attraverso comportamenti socialmente apprezzabili, in particolare, attraverso il risarcimento dei danni morali e materiali alle parti offese e l’adempimento delle altre obbligazioni civili nascenti dal reato, nei limiti delle proprie possibilità». Dall’altro lato, il giudizio in parola avrebbe altresì una «dimensione di tipo prognostico-preventivo», che implicherebbe in particolare una «incompatibilità tra il requisito della buona condotta e l’attuale pericolosità del riabilitando», quest’ultima parimenti destinata a essere accertata dal tribunale.

Tali complessi accertamenti non potrebbero risolversi, secondo il rimettente, «in un giudizio notarile con rilascio cartaceo di un certificato burocratico di buona condotta», e richiederebbero piuttosto un procedimento a contraddittorio necessario con udienza pubblica, non ricorrendo alcuna delle ipotesi che potrebbero giustificarne una deroga (elevato grado di tecnicismo delle questioni trattate, non particolare complessità della regiudicanda, frequenza statistica delle decisioni di accoglimento, esigenze di economia processuale legate allo snellimento delle procedure e all’accelerazione dei tempi di definizione del giudizio).

Un procedimento semplificato come quello previsto dalla disciplina censurata in una materia così delicata finirebbe, piuttosto, per «cartolarizzare, deprocessualizzare e depersonalizzare il giudizio, sacrificando fondamentali garanzie, a tutela sia dell’individuo che della collettività, in omaggio ad un paradigma di efficientismo giudiziario che privilegia in chiave statistica la quantità a scapito della qualità delle decisioni giudiziarie». Rischi a fronte dei quali occorrerebbe «invertire [la] tendenza e riaffermare che il procedimento giurisdizionale con contraddittorio pieno, nella forma collegiale e con l’ausilio degli esperti, non è un intralcio alla celerità ed efficienza delle decisioni giudiziarie, non è un orpello inutile o una sovrabbondanza retorica, sibbene è il modello assiologicamente pregnante, il metodo genetico e funzionale della giurisdizione rieducativa, in quanto costitutivamente discorsiva, dialettica, multidisciplinare, individualizzata e personalizzata […], inverando l’idea e la realtà del procedimento di sorveglianza come luogo privilegiato e culmine giudiziario del trattamento rieducativo che vede la Persona e la Comunità al centro della prossemica processuale».

Più in particolare, la disciplina censurata sarebbe lesiva degli interessi «processualmente qualificati e costituzionalmente rilevanti» di tutti i soggetti coinvolti nel procedimento di sorveglianza e in particolare:

– del soggetto riabilitando, il quale si vedrebbe privato senza apprezzabili ragioni del diritto a partecipare personalmente al giudizio ab initio, di incidere sulla formazione delle prove, di vedere pubblicamente riconosciuto il proprio ravvedimento, e di chiedere ed ottenere, nella richiesta con cui promuove il procedimento, la celebrazione dell’udienza pubblica (nella quale vedersi riconoscere una «riabilitazione come apice in cui culmina [l]’intera vicenda penale e come frutto maturo del processo giurisdizionale con udienza pubblica nella coralità dell’Aeropago giudiziario»), essendo egli, invece, costretto a subire una “decisione cartolare”, che non potrebbe non condizionare il giudice in caso di opposizione;

– del difensore, che non potrebbe esercitare il proprio ufficio nell’immediatezza e nell’oralità del contraddittorio e vedrebbe il proprio ruolo ridimensionato anche rispetto all’assunzione dei mezzi di prova;

– del pubblico ministero, che non potrebbe contribuire ab initio alla formazione della prova, né partecipare all’udienza, né influire direttamente sul convincimento del giudice, esercitando il proprio fondamentale ruolo «sia come advocatus diaboli per scongiurare le “cattive” riabilitazioni, sia come amicus curiae per favorire le riabilitazioni “meritevoli”»;

– dell’organo giudicante, che non potrebbe disporre di «un quadro informativo completo e di un corredo probatorio comprensivo delle prove costituite e costituende, dell’esame personologico diretto del soggetto interessato e degli apporti conoscitivi di tutti gli attori processuali», con conseguente rischio che la riabilitazione venga concessa a condannati ancora gravemente pericolosi, ma a carico dei quali non risultino ulteriori procedimenti penali pendenti, e venga invece negata a soggetti autenticamente ravvedutisi i quali, ad esempio, non abbiano avuto l’opportunità di risarcire il danno alle persone offese;

– del «Popolo sovrano, nel cui nome è amministrata la giustizia», che non potrebbe esercitare alcun controllo in ordine alla trasparenza, obiettività, imparzialità e qualità delle decisioni giudiziarie in un procedimento altamente discrezionale, in cui sono coinvolti «fondamentali e indisponibili interessi costituzionalmente rilevanti della Persona e della Comunità».

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate non fondate.

I principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale e richiamati dal rimettente risulterebbero inconferenti rispetto al procedimento di riabilitazione, finalizzato ad assicurare il reinserimento sociale del condannato attraverso l’eliminazione degli ostacoli alla vita lavorativa e di relazione frapposti dalle pene accessorie e dagli effetti penali della condanna; circostanza che varrebbe a giustificare il diverso regime procedurale rispetto all’applicazione delle misure di prevenzione e di sicurezza, alla concessione dei provvedimenti di competenza del tribunale di sorveglianza di cui all’art. 678 cod. proc. pen., nonché all’applicazione di misure ablative quali la confisca.

La decisione sulla richiesta di riabilitazione sarebbe semplicemente destinata ad accrescere la sfera di libertà dell’istante (ovvero a lasciarla immutata) in funzione del suo reinserimento sociale, sicché sarebbe pienamente giustificata la trattazione con il procedimento di cui agli artt. 667, comma 4, e 678, comma 1-bis cod. proc. pen. – tra l’altro in grado di assicurare la rapidità della decisione e di tutelare la riservatezza dei soggetti coinvolti – non venendo in rilievo esigenze tali da prevalere sull’obiettivo di celerità e semplificazione delle procedure.

La stessa Corte EDU avrebbe, d’altra parte, ritenuto inapplicabile l’art. 6, paragrafo 1, CEDU a procedimenti relativi a questioni riguardanti l’esecuzione delle pene.

3.– Con altra ordinanza del 5 marzo 2020 (r.o. n. 79 del 2021), pervenuta a questa Corte il 18 maggio 2021, il medesimo Tribunale di sorveglianza di Messina ha censurato, d’ufficio, il combinato disposto degli artt. 667, comma 4, e 678, comma 1-bis, cod. proc. pen., nella parte in cui stabilisce che la valutazione giudiziale dell’esito dell’affidamento in prova, anche in casi particolari, ai sensi dell’art. 47, comma 12, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) e dell’art. 94, comma 6, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), venga effettuata obbligatoriamente nelle forme del rito cosiddetto “de plano”, in riferimento agli artt. 3, 27, 111, 117 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU.

3.1.– In questo caso, il giudice a quo è investito della decisione sull’esito di un affidamento in prova cosiddetto “terapeutico”, disposto nei confronti di S. R. presso una comunità per tossicodipendenti.

3.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il rimettente richiama per relationem i «plurimi profili di incostituzionalità […] illustrati nella coeva e analoga ordinanza di rimessione», soggiungendo che, con specifico riferimento alla valutazione dell’esito dell’affidamento in prova, elementi ulteriori renderebbero costituzionalmente illegittima l’«esclusione “coatta” delle garanzie processuali della partecipazione personale ab initio del soggetto interessato e delle parti processuali al giudizio e della pienezza del contraddittorio».

In primo luogo, si sarebbe in questo caso in presenza di un giudizio de libertate, atteso che l’esito positivo dell’affidamento in prova avrebbe un’«efficacia simil-riabilitativa», estinguendo la pena principale e ogni altro effetto penale della condanna, ma, per converso, il suo esito negativo determinerebbe «immediati effetti carceratori, con ripercussioni traumatiche nella sfera giuridica e personale del condannato».

In secondo luogo, sarebbe manifestamente irragionevole e perciò contraria all’art. 3 Cost. la differenziazione della disciplina processuale della valutazione dell’esito dell’affidamento in prova rispetto a quella applicabile ad altre fattispecie nelle quali la partecipazione personale dell’interessato e il contraddittorio sono garantiti ab initio, come la decisione sulla revoca della stessa misura – assimilabile per ratio e contenuto alla prima – oppure la declaratoria di estinzione del reato ex art. 93 t.u. stupefacenti – provvedimento che avrebbe carattere «meramente ricognitivo».

Verrebbe infine in rilievo la complessità della valutazione personologica e terapeutica del soggetto tossicodipendente e della conseguente prognosi rieducativa e specialpreventiva, cui dovrebbe corrispondere un rito improntato all’«immediatezza, oralità e concentrazione di un pieno contraddittorio processuale». Ciò anche in ragione della complessità e discrezionalità della valutazione sull’affidamento in prova, che comporta – in caso di esito negativo – la necessità di determinare la pena residua da espiare; nonché la possibilità di sostituire l’affidamento in prova con altra misura alternativa alla detenzione, ai sensi dell’art. 51-ter ordin. penit.

4.– È intervenuto in giudizio anche in questo caso il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate manifestamente inammissibili per carenza di motivazione in punto di non manifesta infondatezza.

Il giudice a quo si sarebbe limitato a recepire per relationem le argomentazioni svolte nella coeva ordinanza r.o. n. 78 del 2021, ciò che comporterebbe, secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’inammissibilità delle questioni (ordinanza n. 139 del 2000).

Considerato in diritto

1.– Con due ordinanze entrambe datate 5 marzo 2020 (r.o. n. 78 e n. 79 del 2021), pervenute a questa Corte il 18 maggio 2021, il Tribunale di sorveglianza di Messina ha sollevato d’ufficio questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 667, comma 4, e 678, comma 1-bis, del codice di procedura penale, nella parte in cui stabilisce che il giudizio sulle richieste di riabilitazione e quello di valutazione dell’esito dell’affidamento in prova, anche in casi particolari, si svolgano obbligatoriamente nelle forme del rito cosiddetto “de plano”, in riferimento agli artt. 3, 24, 27, 111 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU).

In particolare, con l’ordinanza iscritta al n. 78 del r.o. 2021 il combinato disposto degli artt. 667, comma 4, e 678, comma 1-bis, cod. proc. pen. è censurato in relazione al giudizio sulle richieste di riabilitazione di cui agli artt. 178 e seguenti del codice penale e all’art. 683 cod. proc. pen.

Con l’ordinanza iscritta al n. 79 del r.o. 2021, invece, tale combinato disposto è censurato in relazione alla valutazione sull’esito dell’affidamento in prova, anche in casi particolari, di cui rispettivamente all’art. 47, comma 12, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) e all’art. 94, comma 6, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza).

In sostanza, il giudice a quo ritiene che la previsione di un procedimento semplificato, a contraddittorio meramente “cartolare”, avanti al tribunale di sorveglianza nei giudizi di riabilitazione (ordinanza iscritta al n. 78 del r.o. 2021) e di valutazione sull’esito dell’affidamento in prova (ordinanza iscritta al n. 79 del r.o. 2021) vulneri il diritto di difesa delle parti, la funzione rieducativa della pena, i principi del giusto processo, nonché – per ciò che concerne la valutazione dell’esito dell’affidamento in prova – il principio di eguaglianza in relazione al diverso regime processuale previsto per giudizi assimilabili per ratio e per contenuto.

2.– Le due ordinanze sollevano questioni ampiamente sovrapponibili e i relativi giudizi meritano, pertanto, di essere riuniti ai fini della decisione.

3.– Le questioni sono ammissibili.

Non è fondata, in effetti, l’eccezione di manifesta inammissibilità formulata dall’Avvocatura generale dello Stato in relazione all’ordinanza iscritta al n. 79 del r.o. 2021, che sarebbe motivata soltanto per relationem rispetto alla coeva ordinanza iscritta al n. 78 del r.o. 2021.

In realtà, l’ordinanza iscritta al n. 79 del r.o. 2021 – la quale peraltro contiene una censura ex art. 3 Cost. che non è svolta nell’altra ordinanza – esibisce una, sia pur succinta, motivazione anche sulle restanti censure, che consente a questa Corte di coglierne con chiarezza il senso.

Né sono ravvisabili altre ragioni di inammissibilità, sussistendo – in particolare – la rilevanza delle questioni in entrambi i giudizi a quibus, alla luce degli orientamenti della giurisprudenza di legittimità, che ha qualificato come irrituale l’anticipazione al primo segmento del procedimento ex art. 667, comma 4, cod. proc. pen. del contraddittorio tra le parti in camera di consiglio (ex multis, Corte di cassazione, sezione prima penale, ordinanze 12 gennaio 2021, n. 31387, e 16 aprile 2019, n. 19826).

4.– Oggetto delle censure del rimettente è la norma risultante dal richiamo compiuto dall’art. 678, comma 1-bis, cod. proc. pen. all’art. 667, comma 4, del medesimo codice.

4.1.– La prima disposizione – inserita nell’art. 678 cod. proc. pen. dall’art. 1, comma 1, lettera c), del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2014, n. 10 – prevede l’applicazione del rito semplificato disegnato dall’art. 667, comma 4, cod. proc. pen. per una serie di procedimenti, tra i quali la decisione sulle richieste di riabilitazione e la valutazione dell’esito dell’affidamento in prova, che vengono in considerazione nei giudizi a quibus.

A sua volta, l’art. 667, comma 4, cod. proc. pen., prevede – in deroga alla disciplina generale del procedimento di esecuzione di cui all’art. 666 cod. proc. pen., articolato attorno a un’udienza in camera di consiglio con la partecipazione delle parti –un rito semplificato, mediante il quale il giudice «provvede in ogni caso senza formalità con ordinanza comunicata al pubblico ministero e notificata all’interessato», chiarendo che «[c]ontro l’ordinanza possono proporre opposizione davanti allo stesso giudice il pubblico ministero, l’interessato e il difensore» entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione o notificazione dell’ordinanza. Tale opposizione comporta la fissazione di una udienza in camera di consiglio con la partecipazione delle parti ai sensi dell’art. 666 cod. proc. pen.

4.2.– Nella Relazione illustrativa del disegno di legge di conversione del d.l. n. 146 del 2013 si afferma che le modifiche al procedimento di sorveglianza ivi introdotte «rielaborano alcune proposte già avanzate dalla Commissione mista per lo studio dei problemi della magistratura di sorveglianza, istituita su iniziativa del Ministero della giustizia e del Consiglio superiore della magistratura, e già in parte accolte dallo stesso Consiglio superiore con la “Risoluzione in ordine a soluzioni organizzative e diffusione di buone prassi in materia di magistratura di sorveglianza” adottata il 24 luglio 2013; e alle quali si intende dare ora “copertura” normativa».

Dichiaratamente ispirandosi alle proposte di tale Commissione, il legislatore del 2013 ha introdotto un modello di definizione de plano di una serie di procedimenti di competenza della magistratura di sorveglianza ritenuti di agevole definizione, tra i quali le richieste di riabilitazione e la valutazione sull’esito dell’affidamento in prova, facendo comunque salva – come proposto dalla Commissione medesima – la possibilità di instaurazione del contraddittorio orale in camera di consiglio su istanza di parte, in funzione di una riduzione complessiva dei tempi processuali.

4.3.– Come ha chiarito la giurisprudenza di legittimità, le ordinanze emesse de plano ai sensi dell’art. 667, comma 4, cod. proc. pen. non sono immediatamente esecutive, salvi i casi espressamente previsti dalla legge o comunque specificamente desumibili dal sistema normativo. Esse diventano invece esecutive allo scadere del termine di quindici giorni dalla comunicazione o notificazione per la proposizione dell’opposizione, ove essa non sia proposta (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 18 giugno 2015, n. 36754).

Tale conclusione è stata recentemente ribadita con specifico riguardo all’ordinanza emessa ex art. 667, comma 4, cod. proc. pen. in sede di valutazione dell’esito dell’affidamento in prova (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 23 ottobre 2020-2 febbraio 2021, n. 4025).

4.4.– Una volta che sia stata presentata opposizione avverso l’ordinanza emessa de plano dal giudice competente, quest’ultimo dovrà fissare udienza in camera di consiglio, essendo il relativo procedimento integralmente disciplinato dall’art. 666 cod. proc. pen. Con la conseguenza che – come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità – il giudice dell’esecuzione avrà il dovere, a pena di nullità generale e assoluta, di fissare l’udienza in camera di consiglio e di procedere con la necessaria partecipazione del difensore e del pubblico ministero, provvedendo, altresì, all’audizione dell’interessato che ne abbia fatto richiesta, a norma dell’art. 666, commi 3 e 4, cod. proc. pen. (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 6 marzo 2015, n. 12572, in relazione a un incidente di esecuzione parimenti disciplinato dall’art. 667, comma 4, cod. proc. pen.; in senso conforme, in relazione alla decisione su di una richiesta di riabilitazione, sezione settima penale, ordinanza 9 novembre 2018-16 settembre 2019, n. 38160).

La giurisprudenza di legittimità ha affermato, altresì, che l’opposizione «non ha natura di mezzo di impugnazione, bensì di istanza diretta al medesimo giudice allo scopo di ottenere una decisione in contraddittorio» (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 14 febbraio 2017, n. 30638, che per tale ragione ha giudicato manifestamente infondata un’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede l’incompatibilità a partecipare al giudizio di opposizione ex art. 667, comma 4, cod. proc. pen. del medesimo giudice che abbia emesso il provvedimento opposto; negli stessi termini, sezione prima penale, sentenza 1° ottobre 2019-27 febbraio 2020, n. 7910).

5.– Le censure del rimettente non sono fondate.

5.1.– Giova premettere all’esame delle singole doglianze che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, nella configurazione degli istituti processuali il legislatore gode di ampia discrezionalità, censurabile soltanto nei limiti della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte operate (ex plurimis, sentenze n. 213 del 2021, n. 95 del 2020, n. 79 e n. 58 del 2020, n. 155 e n. 139 del 2019, n. 225 del 2018 e n. 241 del 2017). Ciò vale anche rispetto a discipline processuali che, come quella ora all’esame, abbiano una funzione acceleratoria dei tempi processuali (si veda, mutatis mutandis, sentenza n. 260 del 2020, punto 10.2. del Considerato in diritto: in «uno sfondo fattuale caratterizzato da risorse umane e organizzative necessariamente limitate», si «impone una cautela speciale nell’esercizio del controllo, in base all’art. 111, secondo comma, Cost., della legittimità costituzionale delle scelte processuali compiute dal legislatore, al quale compete individuare le soluzioni più idonee a coniugare l’obiettivo di un processo in grado di raggiungere il suo scopo naturale […], nel pieno rispetto delle garanzie della difesa, con l’esigenza pur essenziale di raggiungere tale obiettivo in un lasso di tempo non eccessivo»).

La funzione acceleratoria dei tempi processuali è, d’altronde, direttamente ispirata a un principio – quello della ragionevole durata dei processi – sancito all’unisono dall’art. 111, secondo comma, Cost. e dall’art. 6, paragrafo 1, CEDU, ma messo a dura prova dalla realtà di un sistema giudiziario penale sovraccarico, che spesso non è in grado di fornire risposte di giustizia in tempi adeguati, finendo così per pregiudicare la stessa effettività – per gli imputati e i condannati, per le vittime e per l’intera collettività – di tutte le restanti garanzie del “giusto processo” e del diritto di difesa.

Il giudizio di sorveglianza è, oggi, notoriamente afflitto da endemici ritardi nella gestione dei carichi processuali: dall’inizio della vicenda esecutiva – ove si registrano pressoché ovunque lunghissimi tempi di smaltimento delle istanze di misure alternative successive alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena ex art. 656, comma 5, cod. proc. pen., con conseguente mantenimento di persone condannate in via definitiva in uno stato di “limbo” giuridico destinato, a volte, a durare anni prima che l’esecuzione della pena abbia in concreto inizio, all’interno o all’esterno del carcere –; sino alle battute finali dell’esecuzione penale, nel cui ambito si collocano i provvedimenti relativi alla riabilitazione e alla valutazione dell’esito dell’affidamento in prova, oggetto delle questioni ora all’esame di questa Corte.

A fronte di questa situazione, discipline che mirino ad assicurare nel giudizio di sorveglianza una sollecita definizione dei contenziosi, lungi dal rispondere a una logica di «efficientismo giudiziario che privilegia in chiave statistica la quantità a scapito della qualità delle decisioni giudiziarie», come sostiene il giudice a quo, costituiscono attuazione di un preciso dovere costituzionale. La ragionevole durata è un connotato identitario della giustizia del processo.

Onde il tema del presente giudizio di costituzionalità è se, nel perseguire il doveroso obiettivo di accelerare la definizione dei procedimenti relativi alle istanze di riabilitazione e alla valutazione dell’esito dell’affidamento in prova, il legislatore abbia compiuto un bilanciamento costituzionalmente sostenibile – tutto interno alla logica degli artt. 24 e 111 Cost. – tra tale obiettivo e la salvaguardia delle altre componenti del giusto processo e dello stesso diritto di difesa; ovvero abbia, all’opposto, sacrificato in misura irragionevole quelle altre componenti, come ritenuto dal giudice a quo.

5.2.– Cuore delle doglianze del rimettente è, per l’appunto, l’allegata violazione del diritto di difesa, di cui all’art. 24, secondo comma, Cost. e dei principi del giusto processo, così come risultanti dall’art. 111 Cost. e dall’art. 6 CEDU, richiamato dal rimettente per mezzo dell’art. 117 Cost.

Le disposizioni censurate obbligherebbero, infatti, il giudice a decidere con un’ordinanza pronunciata de plano, e dunque in assenza del contraddittorio tra le parti, che è invece normalmente assicurato – nei procedimenti avanti alla magistratura di sorveglianza – dall’udienza camerale a partecipazione necessaria del difensore e del pubblico ministero disciplinata dall’art. 666 cod. proc. pen. L’assenza di contraddittorio sarebbe, secondo il giudice a quo, specialmente pregiudizievole rispetto al diritto di difesa del condannato, nonché rispetto al complesso degli interessi, anche pubblicistici, sottesi alla tutela del giusto processo. Ciò in relazione alla delicatezza degli accertamenti oggetto delle presenti questioni, concernenti la richiesta di riabilitazione del condannato e la valutazione sull’esito dell’affidamento in prova: accertamenti, entrambi, strettamente connessi alla funzione rieducativa della pena e alla tutela della collettività contro l’eventuale residua pericolosità del condannato.

Più in particolare, l’obbligo per il giudice di decidere in queste ipotesi senza beneficiare del confronto diretto con le parti nell’udienza ex art. 666 cod. proc. pen. pregiudicherebbe, assieme, gli interessi:

– del condannato, il quale si vedrebbe privato della possibilità di partecipare sin dall’inizio al procedimento, facendo richiesta di essere sentito personalmente ai sensi dell’art. 666, comma 4, cod. proc. pen., nonché della possibilità di chiedere che la propria istanza sia decisa nell’ambito di un’udienza pubblica, risultando così vulnerata la possibilità del condannato stesso di incidere sulla formazione della prova e di vedere pubblicamente riconosciuto il proprio recupero sociale;

– del difensore, il quale parimenti non potrebbe esercitare la propria funzione nell’immediatezza del contraddittorio, e non sarebbe imposto in condizione di incidere sulla formazione della prova;

– del pubblico ministero, il quale nella prima fase del giudizio non potrebbe in alcun modo partecipare alla formazione della decisione giudiziale;

– del giudice, il quale non potrebbe giovarsi dell’apporto conoscitivo offerto dal contraddittorio orale, con conseguente rischio di valutazioni erronee, suscettibili di recare grave danno agli interessi del condannato o a quelli della collettività;

– e, infine, dell’intera collettività (il «Popolo sovrano, nel cui nome è amministrata la giustizia»), cui verrebbe sottratta la possibilità di controllo sull’operato della magistratura, garantita dall’udienza pubblica.

5.2.1.– Ritiene questa Corte che nessuno di tali argomenti sia in grado di dimostrare l’irragionevolezza del bilanciamento effettuato dal legislatore, nei termini poc’anzi precisati.

Con riguardo anzitutto agli asseriti pregiudizi arrecati dalla disciplina censurata agli interessi delle parti (l’imputato e il suo difensore, da un lato, e il pubblico ministero, dall’altro), non c’è dubbio che tale disciplina imponga al giudice di pronunciarsi in prima battuta in assenza di contraddittorio, sulla base della sola richiesta del condannato (nel caso della riabilitazione), ovvero della documentazione trasmessa dall’Ufficio per l’esecuzione penale esterna (UEPE) (nel caso della valutazione sull’esito dell’affidamento in prova), oltre che dell’ulteriore documentazione eventualmente acquisita d’ufficio. Ed è vero, altresì, che né il condannato, né il pubblico ministero sono in grado di interloquire su tale documentazione prima della decisione de plano del giudice.

Tuttavia, la costante giurisprudenza di questa Corte considera compatibili con gli artt. 24, secondo comma, e 111 Cost. i procedimenti a contraddittorio eventuale e differito, nei quali una prima fase senza formalità è seguita da una successiva fase a contraddittorio pieno, attivata dalla parte che intenda insorgere rispetto al decisum, e nella quale avviene il pieno recupero delle garanzie difensive e del contraddittorio (sentenza n. 279 del 2019 e ordinanza n. 255 del 2009 – entrambe relative al procedimento di cui all’art. 667, comma 4, cod. proc, pen. in questa sede censurato –, nonché, in relazione a diversi procedimenti a contraddittorio eventuale e differito, sentenza n. 245 del 2020; ordinanze n. 291 del 2005, n. 352 del 2003 e n. 8 del 2003).

Il procedimento regolato dalle disposizioni censurate è, per l’appunto, caratterizzato dal “recupero” di tali garanzie nella fase eventuale di opposizione al provvedimento pronunciato senza formalità dal giudice, introdotta dalla parte che vi abbia interesse; fase di opposizione che si svolge con le modalità ordinariamente previste per il procedimento di sorveglianza, a loro volta modellate su quelle dell’incidente di esecuzione di cui all’art. 666 cod. proc. pen., le quali prevedono – tra l’altro – la partecipazione necessaria all’udienza camerale del difensore e del pubblico ministero, la facoltà per l’interessato di chiedere di essere sentito, la possibilità per il giudice di acquisire – anche su istanza di parte – ogni documento o informazione ritenuti necessari, di assumere prove in udienza nel contraddittorio tra le parti, nonché – per effetto della sentenza n. 97 del 2015 di questa Corte – la facoltà per il condannato di chiedere che l’udienza venga celebrata in forma pubblica.

D’altra parte, l’anticipazione di una provvisoria decisione ad opera del giudice in assenza di contraddittorio – già suggerita nella relazione della Commissione mista poc’anzi menzionata (supra, punto 4.2.) e poi accolta con qualche modifica dal d.l. n. 146 del 2013, come convertito – ha, nell’ottica del legislatore, semplicemente lo scopo di consentire una rapida definizione di procedimenti in cui non sono necessari, di regola, accertamenti complessi.

Laddove il giudice definisca già in questa prima fase il procedimento in senso favorevole al condannato, la modalità semplificata prevista dalle disposizioni censurate assicurerà in definitiva una tutela più tempestiva degli interessi del condannato stesso, il quale – tanto in materia di riabilitazione, quanto rispetto alla valutazione dell’esito positivo dell’affidamento in prova – potrà così veder riconosciuto in tempi più rapidi l’esito positivo del proprio percorso rieducativo, con conseguente venir meno delle limitazioni alla propria sfera giuridica discendenti dalla precedente condanna.

L’eventuale provvedimento negativo del giudice nella fase de plano, d’altra parte, non determina di per sé alcuna conseguenza pregiudizievole per il condannato, dal momento che la giurisprudenza di legittimità considera tale provvedimento non eseguibile sino alla scadenza infruttuosa del termine per l’opposizione, ovvero sino alla sua conferma nell’udienza ex art. 666 cod. proc. pen. conseguente all’opposizione stessa (supra, punto 4.3.). Il che appare di particolare rilievo rispetto ai provvedimenti di esito negativo dell’affidamento in prova, nei quali il tribunale di sorveglianza deve rideterminare il quantum di pena ancora da espiare, tenuto conto della durata delle limitazioni patite dal condannato e della sua condotta durante il periodo trascorso in affidamento (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 27 febbraio 2002, n. 10530; nonché, recentemente, sezione prima penale, sentenza 23 ottobre 2019-13 gennaio 2020, n. 934).

Dal punto di vista, poi, del pubblico ministero, la possibilità di un “recupero” successivo del contraddittorio e la non eseguibilità immediata del provvedimento assunto de plano escludono qualsiasi pregiudizio agli interessi pubblici di cui egli è portatore, a fronte della possibilità di interloquire sulle prove e sulle valutazioni del giudice garantita dalla facoltà di presentare opposizione contro il provvedimento del giudice favorevole al condannato.

5.2.2.– Né pare a questa Corte, contrariamente a quanto argomentato nell’ordinanza di rimessione, che il procedimento semplificato previsto dalle disposizioni censurate non consenta un’adeguata valutazione, da parte del giudice, delle istanze di riabilitazione, ovvero dell’esito dell’affidamento in prova.

Il tribunale infatti – in riferimento alla richiesta di riabilitazione – ha sempre la possibilità di acquisire ex officio la documentazione che ritenga necessaria ai sensi dell’art. 683, comma 2, cod. proc. pen.; e – con riguardo alla valutazione sull’esito dell’affidamento in prova – dispone di tutto il materiale informativo fornitogli dall’UEPE a conclusione del percorso compiuto dall’interessato.

D’altra parte, il rimedio alla specifica doglianza del giudice a quo, secondo cui il tribunale non potrebbe valutare l’avvenuto recupero sociale del condannato senza avere un contatto diretto con quest’ultimo, non potrebbe di per sé essere assicurato dalla regola della necessaria celebrazione dell’udienza in camera di consiglio ai sensi dell’art. 666 cod. proc. pen., nei termini auspicati dallo stesso rimettente, giacché anche nell’ambito di tale procedimento la partecipazione del condannato è rimessa alla sua volontà, ex art. 666, comma 4, cod. proc. pen.

5.2.3.– Quanto, infine, al pregiudizio agli interessi del «Popolo sovrano» che discenderebbe dalla disciplina censurata, a far da sfondo alla doglianza del rimettente sembra essere l’idea secondo cui la pubblicità delle udienze rappresenterebbe un requisito coessenziale allo stesso paradigma costituzionale dell’amministrazione della giustizia penale.

Se così fosse, tuttavia, lo stesso procedimento ordinario ex art. 666 cod. proc. pen. – che tornerebbe a divenire, secondo gli auspici del rimettente, la modalità ordinaria di trattazione delle richieste di riabilitazione e della valutazione dell’esito della messa alla prova – risulterebbe esso stesso costituzionalmente illegittimo, perché svolto normalmente in camera di consiglio, a meno che l’interessato non abbia fatto richiesta di trattazione nella forma dell’udienza pubblica in forza della sentenza n. 97 del 2015 di questa Corte.

In realtà, come questa Corte ha più volte affermato, la pubblicità delle udienze è sì «connaturata ad un ordinamento democratico fondato sulla sovranità popolare», ma non ha valore assoluto, potendo il legislatore introdurre deroghe al principio di pubblicità in presenza di particolari ragioni giustificative, purché obiettive e razionali (sentenze n. 263 del 2017 e ivi ulteriori riferimenti, nonché – da ultimo – sentenza n. 73 del 2022). E, rispetto a un procedimento come quello di cui all’art. 666 cod. proc. pen., il punto di equilibrio già raggiunto da questa Corte, con la menzionata sentenza n. 97 del 2015, è appunto rappresentato dalla possibilità per l’interessato di chiedere egli stesso lo svolgimento del procedimento nelle forme dell’udienza pubblica, nulla ostando – altrimenti – a che esso possa svolgersi con le forme semplificate proprie di tutti i procedimenti camerali, contemplati peraltro in numerose ipotesi dal codice di procedura penale, anche ai fini della definizione del giudizio di cognizione.

Tale possibilità è conservata anche dalla disciplina in questa sede censurata, ben potendo l’interessato proporre opposizione al provvedimento assunto de plano dal giudice, con contestuale richiesta che il procedimento sia trattato nelle forme dell’udienza pubblica ai sensi dell’art. 666, comma 3, cod. proc. pen., come modificato proprio dalla sentenza n. 97 del 2015. Ciò che è di per sé sufficiente a garantire la conformità della disciplina ai parametri costituzionali e convenzionali in materia di giusto processo.

5.3.– Secondo il giudice a quo, il rito semplificato previsto dalle disposizioni censurate non risulterebbe in linea con il principio della funzione rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost., non assicurando il ponderato apprezzamento del giudice sull’effettivo raggiungimento di tale obiettivo nel caso concreto.

La censura, peraltro succintamente argomentata, appare in verità meramente ancillare rispetto a quelle relative all’allegata violazione del diritto di difesa e dei principi del giusto processo, risolvendosi nella doglianza – già ritenuta non fondata (supra, punto 5.2.2.) – secondo cui il difetto di contraddittorio nella prima fase del procedimento non consentirebbe al giudice una piena e accurata valutazione della personalità del condannato e dei suoi effettivi progressi verso l’obiettivo della riabilitazione sociale.

Di qui la non fondatezza anche di tale censura.

5.4.– Infine, nell’ordinanza iscritta al n. 79 del r.o. 2021 il giudice a quo lamenta la violazione dell’art. 3 Cost. in relazione all’irragionevolezza della differente disciplina processuale della valutazione dell’esito dell’affidamento in prova rispetto a quella applicabile, in particolare, in materia di revoca dello stesso affidamento, ovvero di estinzione del reato all’esito della sospensione dell’esecuzione della pena nei confronti del tossicodipendente ex art. 93 t.u. stupefacenti.

Nemmeno tale censura è fondata.

Il legislatore ha infatti riservato il rito semplificato in parola a procedimenti ritenuti di limitata complessità e, come sottolineato in dottrina, caratterizzati da un’elevata percentuale di decisioni favorevoli all’interessato, come quelli che vengono in considerazione nelle questioni ora sottoposte a questa Corte. Una volta escluso che tali procedimenti comprimano irragionevolmente le garanzie del diritto di difesa, del contraddittorio e in generale del giusto processo, non può considerarsi imposta dall’art. 3 Cost. l’adozione di un unico modello di disciplina per tutti i procedimenti di sorveglianza, ben potendo il legislatore regolarli diversamente in ragione di una molteplicità di fattori, la cui valutazione e il cui reciproco bilanciamento rientrano nella sua esclusiva discrezionalità, censurabile soltanto laddove la differenza di trattamento risulti priva di ogni plausibile ragione giustificativa in relazione alla sostanziale identità della materia regolata.

Il che certamente non accade rispetto ai tertia comparationis invocati dal rimettente. Da un lato, i procedimenti relativi alla revoca di un affidamento in prova al servizio sociale in corso sono suscettibili di determinare l’interruzione di un percorso ancora in atto in relazione a specifiche inosservanze degli obblighi imposti al condannato, mentre la valutazione sull’esito dell’affidamento in prova ha luogo quando tale percorso è ormai concluso senza che siano intervenute violazioni tanto significative da giustificare la revoca dell’affidamento stesso, e appare dunque ragionevole una prognosi di valutazione favorevole della misura. Dall’altro, l’estinzione del reato commesso dal tossicodipendente ex art. 93 t.u. stupefacenti non presuppone – a differenza di quanto accade nella valutazione dell’esito dell’affidamento in prova – l’avvenuta esecuzione di alcuna misura a contenuto sanzionatorio, bensì comporta la sospensione tout court dell’esecuzione di pene, peraltro anche di severità più elevata di quelle suscettibili di essere eseguite con la modalità dell’affidamento in prova al servizio sociale.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 667, comma 4, e 678, comma 1-bis, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 27, 111 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), dal Tribunale di sorveglianza di Messina con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 2022.

F.to:

Giuliano AMATO, Presidente

Francesco VIGANÒ, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 24 marzo 2022.