Sentenza n. 13 del 2022

SENTENZA N. 13

ANNO 2022

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: 

Presidente: Giancarlo CORAGGIO; 

Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 35-bis, comma 13, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25 (Attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato), come inserito dall’art. 6, comma 1, lettera g), del decreto-legge 17 febbraio 2017, n. 13 (Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale), convertito, con modificazioni, nella legge 13 aprile 2017, n. 46, promosso dalla Corte di cassazione, sezione terza civile, nel procedimento vertente tra M. A. M. e il Ministero dell’interno, con ordinanza del 23 giugno 2021, iscritta al n. 137 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 1° dicembre 2021 il Giudice relatore Giovanni Amoroso;

deliberato nella camera di consiglio del 2 dicembre 2021.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 23 giugno 2021, reg. ord. n. 137 del 2021, la Corte di cassazione, sezione terza civile, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 35-bis, comma 13, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25 (Attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato) – come inserito dall’art. 6, comma 1, lettera g), del decreto-legge 17 febbraio 2017, n. 13 (Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale), convertito, con modificazioni, nella legge 13 aprile 2017, n. 46 –, in riferimento agli artt. 3, 10, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 28 e 46, paragrafo 11, della direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale, agli artt. 46, 18 e 19, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, nonché agli artt. 6, 13 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (mentre l’ulteriore indicazione anche dell’art. 7 della Convenzione – Nulla poena sine lege – è chiaramente dovuta a un refuso grafico e quindi non va considerata).

La Corte rimettente riferisce, in punto di fatto e di rilevanza, che, nel giudizio di cassazione di un decreto che aveva rigettato la domanda di protezione internazionale di un richiedente asilo proposta in primo grado, il Collegio aveva rilevato, in limine litis, la mancanza della certificazione della data di rilascio della procura speciale al difensore. In tale situazione, ai sensi del sesto periodo della norma censurata – secondo cui «[l]a procura alle liti per la proposizione del ricorso per cassazione deve essere conferita, a pena di inammissibilità del ricorso, in data successiva alla comunicazione del decreto impugnato; a tal fine il difensore certifica la data del rilascio in suo favore della procura medesima» – per come interpretata nel diritto vivente (e, in particolare, dalla sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite civili, 1° giugno 2021, n. 15177), dovrebbe dichiarare l’inammissibilità del ricorso, in mancanza di una specifica certificazione della data da parte dell’avvocato.

La Corte rimettente assume, in primo luogo, un’incompatibilità della disposizione indubbiata con l’art. 3 Cost., in quanto la stessa sarebbe affetta da irragionevolezza e illogicità intrinseca. Invero, lo scopo della disposizione, da individuarsi nella garanzia che il richiedente sia ancora presente sul territorio dello Stato e quindi abbia un effettivo interesse a una decisione sul ricorso, avrebbe dovuto essere perseguito con una norma più adeguata, volta, ad esempio, ad attestare la presenza del ricorrente in Italia a ridosso dell’udienza nel procedimento di legittimità che talora è celebrata anche dopo qualche anno dalla proposizione del ricorso.

Nell’impostazione della Corte rimettente l’irragionevolezza intrinseca della previsione censurata in relazione allo scopo perseguito renderebbe privo di una valida ragione giustificativa il trattamento differenziato, rispetto all’ulteriore requisito imposto a pena di inammissibilità per la procura alle liti, tra cittadini italiani e richiedenti protezione internazionale nonché tra questi ultimi e gli altri stranieri. Tale trattamento differenziato – che ridonderebbe anche in una discriminazione ex art. 14 CEDU – potrebbe determinare una violazione del principio di eguaglianza. Secondo la costante giurisprudenza costituzionale (è citata la sentenza n. 186 del 2020), il riferimento letterale ai «cittadini» contenuto nell’art. 3 Cost. non osta all’applicazione di tale principio anche agli stranieri, specie ove vengano in rilievo diritti fondamentali, come il diritto d’asilo tutelato dall’art. 10, terzo comma, Cost. La norma censurata, come intesa dal diritto vivente, porrebbe dubbi di legittimità costituzionale in riferimento al principio di uguaglianza e al diritto di difesa laddove introduce un regime processuale peggiorativo solo per una determinata categoria di stranieri, anche a fronte di situazioni omogenee.

La norma appare, inoltre, alla Corte rimettente frutto di un mancato coordinamento con la disposizione in tema di sospensione degli effetti del decreto di rigetto della domanda di protezione internazionale che se, in origine, si estendeva automaticamente all’intero giudizio, sino al passaggio in giudicato, oggi si arresta, ai sensi del comma 13, terzo periodo, del predetto art. 35-bis del d.lgs. n. 25 del 2008, quando, con decreto, anche non definitivo, il ricorso è rigettato in primo grado. In tale contesto normativo, infatti, l’imposizione al richiedente asilo di una presenza effettiva nel territorio dello Stato ai fini del conferimento della procura speciale alle liti dopo l’emanazione del provvedimento da impugnare si tradurrebbe in un sostanziale impedimento alla proposizione dell’unico rimedio esistente, ossia il ricorso per cassazione. Potrebbe essere così violato il diritto fondamentale del ricorrente a una tutela giurisdizionale effettiva, contemplato tanto dagli artt. 24 e 111 Cost., quanto, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., dall’art. 47 CDFUE e dagli artt. 6 e 13 CEDU.

Rileva ancora il giudice a quo che la disposizione censurata, nel porre un requisito ulteriore a pena di inammissibilità per i soli ricorsi per cassazione proposti dai richiedenti protezione internazionale, potrebbe porsi in contrasto, inoltre, con l’art. 46, paragrafo 11, della direttiva 2013/32/UE, che, ai fini della rinuncia alla domanda proposta dallo straniero, richiede una esplicita normativa che non è stata introdotta nel nostro ordinamento, e, più in generale, con l’art. 47 CDFUE, in virtù del quale, secondo una consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, l’autonomia processuale degli Stati membri trova un limite nel rispetto dei criteri di equivalenza e di effettività della tutela.

Nella prospettazione della Corte rimettente l’art. 35-bis, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008, laddove introduce l’ulteriore requisito formale della certificazione della data della procura rilasciata per i soli ricorsi per cassazione in materia di protezione internazionale, sarebbe suscettibile di violare il predetto canone di equivalenza in quanto il legislatore non ha contemplato tale requisito in altri procedimenti, da ritenersi omogenei in base ai principi espressi nella giurisprudenza europea, attributivi di status in favore di cittadini stranieri, quali, ad esempio, quello di riconoscimento dello status di apolide e quello volto all’ottenimento della protezione umanitaria (quest’ultimo in base alla normativa applicabile ratione temporis).

Sarebbe peraltro sproporzionata la sanzione dell’inammissibilità che la norma censurata prevede rispetto all’inosservanza di un mero requisito formale, in un procedimento che, in quanto già “mutilato” di un riesame nel merito attraverso rimedi quali l’appello o il reclamo camerale, finirebbe per ledere un diritto fondamentale tutelato espressamente dall’art. 10, terzo comma, Cost.

Né alcuna rilevanza, ad avviso della Corte rimettente, potrebbe assumere, per giustificare una disposizione come quella espressa dal comma 13 dell’art. 35-bis del d.lgs. n. 25 del 2008, un preteso «malcostume» di alcuni avvocati nel senso di proporre impugnazioni sempre e comunque, anche se manifestamente infondate, al solo fine di ottenere la liquidazione dei compensi, conseguente alla frequente ammissione dei ricorrenti al patrocinio a spese dello Stato, in quanto eventuali condotte contrarie agli obblighi di lealtà e probità e deontologici posti a carico del difensore, se accertate, potrebbero e dovrebbero essere sanzionate sul piano disciplinare dai Consigli degli ordini.

2.– Con atto del 12 ottobre 2021, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo dichiararsi le questioni inammissibili e, in ogni caso, manifestamente non fondate.

Secondo la difesa statale le questioni dovrebbero essere dichiarate inammissibili per carenza di oggetto, in quanto l’ordinanza di rimessione censura non tanto l’art. 35-bis del d.lgs. n. 25 del 2008, quanto piuttosto l’interpretazione che dello stesso è stata data dalle Sezioni unite civili, così richiedendo a questa Corte un improprio avallo ad una determinata interpretazione della norma censurata.

Nel merito, l’Avvocatura generale rileva, innanzi tutto, la non fondatezza dei dubbi di legittimità costituzionale che investono, in via interposta attraverso l’art. 117, primo comma, Cost., le norme dell’Unione europea, poiché nella fattispecie considerata non sarebbero stati violati i principi di equivalenza e di effettività della tutela che costituiscono limite invalicabile all’autonomia processuale degli Stati membri. Ciò in quanto, per un verso, non vi è alcuna materia omogenea a quella della protezione internazionale e dell’asilo rispetto alla quale può essere compiuto un giudizio di equivalenza. Non potrebbe inoltre predicarsi alcuna violazione del principio di effettività, atteso che la disposizione impugnata non è in grado di rendere impossibile o eccessivamente oneroso l’esercizio dei diritti riconosciuti dall’ordinamento giuridico dell’Unione europea.

Secondo la difesa dello Stato, per altro verso, non sarebbero fondati i dubbi di legittimità costituzionale che investono, sempre per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., i parametri convenzionali: in particolare, quanto all’art. 6 CEDU, si osserva che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha costantemente ritenuto legittime le regole processuali, specie se relative ai giudizi di impugnazione, purché previste dalla legge ex ante in maniera chiara e univoca.

Né potrebbe, ad avviso del Presidente del Consiglio, assumersi una violazione del principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 Cost. (né, parallelamente, una violazione del divieto di discriminazione in base alla nazionalità ex art. 14 CEDU) in quanto a venire in rilievo è un requisito del ricorso che non trova corrispondenti in altre situazioni.

Secondo la difesa statale dovrebbe ritenersi esclusa anche la dedotta violazione dell’art. 24 Cost., che può essere limitato in virtù di interessi di carattere generale, come quelli che vengono in rilievo nella fattispecie considerata, ossia la «sostenibilità socio-economica delle attività connesse alla presentazione del ricorso ove correlate al patrocinio a spese dello Stato, nonché l’esigenza di un efficace sistema di tutela giurisdizionale, improntato sulla ragionevole durata dei processi», senza impedire o ostacolare eccessivamente l’accesso al rimedio impugnatorio da parte del richiedente protezione internazionale, ma solo evitando il rischio del rilascio di procure in bianco, che consentirebbero agli avvocati la proposizione di ricorsi per cassazione in nome anche di soggetti non più presenti sul territorio dello Stato o, comunque, non più interessati alla prosecuzione del giudizio.

3.– Con memoria depositata in data 10 novembre 2021, l’Avvocatura generale ha ribadito le proprie conclusioni in ordine all’inammissibilità per carenza di oggetto delle questioni prospettate e alla non fondatezza delle stesse.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 23 giugno 2021, reg. ord. n. 137 del 2021, la Corte di cassazione, sezione terza civile, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 35-bis, comma 13, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25 (Attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato) – come inserito dall’art. 6, comma 1, lettera g), del decreto-legge 17 febbraio 2017, n. 13 (Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale), convertito, con modificazioni, nella legge 13 aprile 2017, n. 46 –, in riferimento agli artt. 3, 10, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 28 e 46, paragrafo 11, della direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale, agli artt. 18, 19, paragrafo 2, e 47, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, nonché agli artt. 6, 13 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.

1.1– In via preliminare va circoscritto l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale ad una parte della disposizione censurata, secondo quanto risulta dalla motivazione complessiva dell’ordinanza di rimessione (sentenze n. 267 e n. 223 del 2020, n. 97 del 2019, n. 35 del 2017 e n. 203 del 2016).

In particolare, il comma 13 è censurato nel suo sesto periodo, che prevede: «La procura alle liti per la proposizione del ricorso per cassazione deve essere conferita, a pena di inammissibilità del ricorso, in data successiva alla comunicazione del decreto impugnato; a tal fine il difensore certifica la data di rilascio in suo favore della procura medesima». Ma, in realtà, è solo quest’ultima parte della disposizione – quella che onera il difensore di certificare la data del rilascio della procura, oltre l’autografia della sottoscrizione della stessa – ad essere attinta dai dubbi di legittimità costituzionale.

Nella specie, la Corte rimettente è adita con ricorso per cassazione, in materia di protezione internazionale, proposto da uno straniero richiedente asilo che ha rilasciato la procura speciale al suo difensore; procura che non contiene anche la certificazione, ad opera del difensore, della data di rilascio della stessa.

La disposizione censurata è stata interpretata dalle sezioni unite civili della Corte di cassazione, a composizione di un contrasto di giurisprudenza, nel senso che la mancata certificazione della data di rilascio della procura da parte del difensore è causa di inammissibilità del ricorso per cassazione (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 1° giugno 2021, n. 15177); interpretazione questa che può ritenersi costituire diritto vivente.

Il Collegio rimettente, nel valutare preliminarmente l’ammissibilità, o no, del ricorso, mostra di non condividere questo principio di diritto argomentando plurimi dubbi, non manifestamente infondati, di legittimità costituzionale della disposizione, così interpretata, in riferimento agli indicati parametri.

1.2.– La Corte di cassazione assume, in primo luogo, un’incompatibilità della norma censurata con l’art. 3 Cost., in quanto la stessa sarebbe affetta da irragionevolezza e illogicità intrinseca. Invero lo scopo perseguito dalla disposizione, ossia assicurare la presenza del richiedente sul territorio dello Stato, non ne giustificherebbe i contenuti.

La sua irragionevolezza intrinseca, in relazione allo scopo perseguito, renderebbe privo di una valida ragione giustificativa il trattamento differenziato, costituito dall’onere del difensore di certificare anche la data di conferimento della procura a ricorrere per cassazione, previsto dalla norma censurata come onere ulteriore rispetto a quanto stabilito per la generalità dei ricorsi proposti in sede di legittimità dal combinato disposto degli artt. 83 e 365 del codice di procedura civile. Ciò ridonderebbe in violazione del principio di eguaglianza, considerato che, in conformità alla costante giurisprudenza costituzionale (ex plurimis, è citata la sentenza n. 186 del 2020), il riferimento letterale ai «cittadini» contenuto nell’art. 3 Cost., non osta all’applicazione di tale principio anche agli stranieri, specie ove vengano in rilievo diritti fondamentali, tra i quali deve essere annoverato il diritto d’asilo tutelato dall’art. 10, terzo comma, Cost.

Inoltre sarebbero violati il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) e il diritto di difesa (art. 24 Cost.), stante che la disposizione censurata introduce un regime processuale aggravato da un onere formale ulteriore solo per una determinata categoria di soggetti, gli stranieri richiedenti la protezione internazionale, senza alcuna ragionevole giustificazione.

Rileva inoltre la Corte rimettente che la disposizione censurata, considerata unitamente al precedente terzo periodo dello stesso comma 13 dell’art. 35-bis del d.lgs. n. 25 del 2008 – per il quale l’efficacia sospensiva del provvedimento di diniego della concessione della protezione internazionale correlata alla proposizione del ricorso giurisdizionale si arresta a fronte di una pronuncia di rigetto, anche non definitiva – si traduce, laddove impone al richiedente asilo la presenza effettiva nel territorio dello Stato al fine del conferimento della procura speciale per il ricorso per cassazione dopo l’emanazione del provvedimento da impugnare, in un sostanziale impedimento alla proposizione dell’unico mezzo di gravame esperibile, appunto il ricorso per cassazione.

Sarebbe così violato il diritto fondamentale dello straniero richiedente la protezione internazionale a una tutela giurisdizionale effettiva, diritto contemplato tanto dagli artt. 24 e 111 Cost., quanto, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., dall’art. 47 CDFUE e dagli artt. 6 e 13 CEDU.

Rileva ancora la Corte rimettente che la norma censurata, nel porre un requisito ulteriore a pena di inammissibilità per i soli ricorsi per cassazione proposti dai richiedenti protezione internazionale, si porrebbe in contrasto, inoltre, con l’art. 46, paragrafo 11, della direttiva 2013/32/UE che, ai fini della rinuncia alla domanda dello straniero, richiede una esplicita normativa che non è stata introdotta nel nostro ordinamento, e, più in generale, con l’art. 47 CDFUE, in virtù del quale, secondo una consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, l’autonomia processuale degli Stati membri trova un limite nel rispetto dei criteri di equivalenza e di effettività della tutela.

Sottolinea inoltre il giudice a quo che l’art. 35-bis, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008, laddove introduce l’ulteriore requisito formale della certificazione della data della procura rilasciata per i soli ricorsi per cassazione in materia di protezione internazionale, sarebbe suscettibile di violare il predetto canone di equivalenza, quale limite all’autonomia processuale degli Stati membri, in quanto il legislatore non ha previsto il medesimo requisito anche in altri procedimenti, attributivi di status in favore di cittadini stranieri, come, ad esempio, quello di riconoscimento dello status di apolide e quello volto all’ottenimento della protezione umanitaria (quest’ultimo in base alla normativa applicabile ratione temporis) e da ritenersi omogenei in base ai principi espressi nella giurisprudenza europea.

Sarebbe, altresì, sproporzionata la sanzione dell’inammissibilità che la disposizione censurata – come interpretata dalle Sezioni unite civili – ricollega all’inosservanza di un mero requisito formale, in un procedimento che, in quanto già “mutilato” di un riesame nel merito, in ragione dell’eliminazione del grado d’appello, finirebbe per ledere il diritto fondamentale d’asilo tutelato dall’art. 10, terzo comma, Cost.

Né alcuna rilevanza, ad avviso della Corte rimettente, potrebbe assumere, per giustificare una disposizione come quella recata dal comma 13 dell’art. 35-bis del d.lgs. n. 25 del 2008, un preteso «malcostume» di alcuni avvocati che, in materia di protezione internazionale, proporrebbero impugnazioni sempre e comunque, anche se manifestamente infondate, al solo fine di ottenere la liquidazione dei compensi, conseguente alla frequente ammissione dei ricorrenti al patrocinio a spese dello Stato, poiché, se accertate, eventuali condotte del difensore contrarie agli obblighi di lealtà, probità e deontologici posti a carico dello stesso potrebbero e dovrebbero essere sanzionate sul piano disciplinare dai Consigli degli ordini.

2.– In via preliminare, il Presidente del consiglio dei ministri, intervenuto in giudizio per mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, eccepisce l’inammissibilità delle questioni sollevate, in quanto la Corte rimettente non avrebbe censurato l’art. 35-bis, comma 13, sesto periodo, del d.lgs. n. 25 del 2008, bensì, in realtà, l’interpretazione data a tale disposizione dalle sezioni unite civili della stessa Corte di cassazione (Cass. n. 15177 del 2021), laddove invece l’art. 374, terzo comma, cod. proc. civ., prescrive che, in tale evenienza, la sezione semplice “dissenziente” deve rimettere a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso.

L’eccezione non è fondata.

A riguardo va considerato che le pronunce delle Sezioni unite, investite dal primo presidente delle questioni di massima di particolare importanza e dei contrasti rimessi dalle sezioni semplici, costituiscono la forma più elevata e autorevole di esercizio della funzione nomofilattica demandata dall’art. 65 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario) alla Corte di cassazione, alla quale tale norma assegna la missione di assicurare «l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge», nonché «l’unità del diritto oggettivo nazionale» e quindi la certezza del diritto.

Proprio allo scopo di rafforzare il ruolo svolto dalle Sezioni unite nell’esercizio di tale fondamentale funzione ordinamentale dell’interpretazione della legge, l’art. 8 del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80) ha novellato l’art. 374 cod. proc. civ., il cui terzo comma prevede che «[s]e la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso»; disposizione questa poi sostanzialmente replicata, allo stesso fine di assicurare la certezza del diritto, da ultimo nel giudizio penale di cassazione (art. 618, comma 1-bis, del codice di procedura penale), e prima ancora nel processo amministrativo, quanto alle pronunce dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (art. 99, comma 3, del codice del processo amministrativo), e in quello contabile, quanto alle pronunce delle Sezioni riunite della Corte dei conti (art. 117 del decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174, recante «Codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell’articolo 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124»). La trasversalità di tali disposizioni, ispirate allo stesso principio, mostra la centralità del valore della certezza del diritto, pietra d’angolo del sistema di tutele giurisdizionali in uno Stato di diritto.

La norma recata dall’art. 374, terzo comma, cod. proc. civ., non crea un vincolo interpretativo ad adottare il principio enunciato dalle Sezioni unite – che non sarebbe compatibile con la prescrizione dell’art. 101, secondo comma, Cost., che vuole i giudici soggetti soltanto alle leggi – ma pone una regola processuale di competenza interna declinata nell’obbligo per la sezione semplice “dissenziente” di astenersi dal decidere il ricorso in difformità da tale principio e di rimettere la decisione alle stesse Sezioni unite con ordinanza motivata, esprimendo le ragioni del dissenso e invocando quindi una rimeditazione di quel principio nella prospettiva di un possibile revirement giurisprudenziale.

Nella specie il Collegio rimettente non contesta tale regola processuale, che si frappone all’applicabilità della disposizione, oggetto del principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite e della quale, quindi, esso non può fare applicazione “in dissenso”, talché potrebbe dubitarsi – nella prospettiva dell’eccezione dell’Avvocatura – della rilevanza di una questione di legittimità costituzionale che investa non già la disposizione (processuale) che la sezione semplice deve applicare, ma la disposizione che non può applicare se non condividendo tale principio di diritto.

Vi è, però, che questo vincolo per la sezione semplice a non adottare un’interpretazione contrastante con quella già espressa dalle Sezioni unite è recessivo solo nella prospettiva di una pronuncia di illegittimità costituzionale, in tutto o in parte, della disposizione interpretata, pronuncia che la stessa sezione semplice può sollecitare sollevando la relativa questione.

Questa prospettiva di applicazione, pur sub condicione, è sufficiente a radicare la rilevanza – e quindi l’ammissibilità – della questione che investa proprio la disposizione come interpretata dalle Sezioni unite civili (in senso conforme, sentenza di questa Corte n. 33 del 2021).

3.– Giova ora premettere, in estrema sintesi, il quadro normativo di riferimento in cui si collocano le sollevate questioni di legittimità costituzionale.

3.1.– Mette conto ricordare, innanzi tutto, che l’art. 10, terzo comma, Cost. riconosce il diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge, allo straniero al quale sia impedito l’effettivo esercizio, nel suo Paese, delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana.

Il diritto d’asilo è riconosciuto sul piano internazionale nell’ambito della Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 24 luglio 1954, n. 722, la quale attribuisce al rifugiato una serie di garanzie, tra cui quella fondamentale espressa dal principio cosiddetto di non refoulement.

In particolare, l’art. 1, lettera a), numero 2), della predetta Convenzione definisce rifugiato «chiunque [...] nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato», nonché «chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori dal suo Stato di domicilio [...], non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi».

Tale definizione è stata sostanzialmente ripresa tanto dall’art. 2, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta, quanto dal legislatore italiano con l’art. 2, comma 1, lettera e), del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251 (Attuazione della direttiva 2004/83/CE recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta).

Lo status di rifugiato, di carattere permanente, riguarda il soggetto individualmente perseguitato anzitutto per ragioni politiche, nonché ulteriori figure individuate nella prassi, quali, ad esempio, gli omosessuali a rischio di incriminazione perché nei loro Paesi i rapporti omosessuali, anche in forma privata e tra adulti consenzienti, sono reato; le giovani donne a rischio di mutilazioni genitali femminili; i fedeli di pratiche religiose proibite.

Nel diritto dell’Unione europea il diritto d’asilo è riconosciuto anche come «protezione sussidiaria», accordata, per un periodo di cinque anni rinnovabili, a chi non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi per ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, correrebbe «un rischio effettivo di subire un grave danno» (art. 2, lettera f, della direttiva 2011/95/UE), con ciò intendendosi la pena di morte o l’essere giustiziato, la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante, ovvero la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale (art. 15 della direttiva 2011/95/UE).

Ha, dunque, diritto alla protezione sussidiaria colui il quale corre un rischio grave per l’incolumità personale meno individualizzato e dovuto all’appartenenza a gruppi politici, etnici o religiosi, di solito correlato ad un conflitto armato interno (Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 30 gennaio 2014, Aboubacar Diakité contro Commissaire général aux réfugiés et aux apatrides, in causa C-285/12).

Occorre inoltre considerare che l’art. 6, paragrafo 4, della direttiva 115/2008/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, prevede la facoltà (e quindi non l’obbligo) per gli Stati membri di estendere l’ambito delle forme di protezione tipiche sino a ricomprendere «motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura», rilasciando allo scopo un apposito permesso di soggiorno.

Vi è pertanto che lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria sono accordati in osservanza di obblighi europei e internazionali, mentre ulteriori forme di protezione sono rimesse alla discrezionalità dei singoli Stati, per rispondere a esigenze umanitarie, caritatevoli o di altra natura.

3.2.– Passando a considerare, in modo più specifico, le forme processuali con le quali il diritto a tale status può essere fatto valere nel nostro sistema nazionale, va premesso che il procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale consta di una prima fase amministrativa necessaria e di una seconda giurisdizionale, successiva ed eventuale (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 23 agosto 2006, n. 18353).

L’istanza per il riconoscimento della protezione internazionale deve essere proposta, innanzi tutto, alle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, organi della pubblica amministrazione, insediate presso le prefetture, che forniscono il necessario supporto organizzativo e logistico, con il coordinamento del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’interno (art. 4 del d.lgs. n. 25 del 2008).

Dinanzi alle Commissioni territoriali è prevista l’audizione dell’interessato e la videoregistrazione del colloquio, da trascriversi in lingua italiana con l’ausilio di sistemi automatici di riconoscimento vocale (l’art. 14, comma 1, del d. lgs. n. 25 del 2008).

La Commissione decide con provvedimento che nega o riconosce la protezione, motivando sia quanto alla credibilità intrinseca del richiedente asilo, che ai riscontri e alle informazioni disponibili sulla situazione del Paese di provenienza (art. 8 del d. lgs. n. 25 del 2008).

4.– La fase giurisdizionale del procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale – rientrante nella giurisdizione del giudice ordinario in quanto avente ad oggetto il fondamentale diritto soggettivo dello straniero, tutelato dall’art. 10, terzo comma, Cost., alla protezione invocata (Corte di cassazione, sezioni unite civili, ordinanze 27 novembre 2018, n. 30658 e 30 marzo 2018, n. 8044) – è stata oggetto di una serie di riforme normative che consentono di identificare, essenzialmente, tre modelli processuali speciali per la trattazione di queste controversie.

4.1.– Il primo è quello dell’art. 35, comma 4, del d.lgs. n. 25 del 2008, che prevedeva che il giudizio in primo grado, la cui proposizione aveva un effetto sospensivo dell’efficacia del provvedimento impugnato, dovesse svolgersi, con la partecipazione necessaria del pubblico ministero, nelle forme dei procedimenti in camera di consiglio ex artt. 737 e seguenti cod. proc. civ., dettando nei commi successivi alcune disposizioni specifiche.

Era espressamente precisato che il tribunale, sentite le parti e assunti tutti i mezzi di prova necessari, dovesse decidere con sentenza entro tre mesi dalla proposizione del ricorso, rigettando lo stesso ovvero riconoscendo al richiedente lo status di rifugiato o di persona alla quale è accordata la protezione sussidiaria.

Quanto al regime delle impugnazioni, era previsto che contro la predetta decisione il ricorrente e il pubblico ministero potessero proporre reclamo alla Corte d’appello entro dieci giorni dalla notificazione o comunicazione della sentenza, i cui effetti, come precisato dal dodicesimo comma della medesima disposizione, non erano sospesi dal deposito di tale ricorso, salvo che ciò fosse disposto dalla Corte d’appello, su istanza del ricorrente, con ordinanza non impugnabile in presenza di gravi e fondati motivi. Anche il giudizio di reclamo si svolgeva nelle forme camerali.

Contro la decisione pronunciata dalla Corte d’appello era proponibile ricorso per cassazione entro il termine di trenta giorni dalla notificazione della stessa.

4.2.– Un secondo modello processuale, in sostituzione di quello precedente, è stato introdotto dall’art. 19, comma 1, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), che ha disciplinato il processo per il riconoscimento della protezione internazionale riconducendolo al giudizio sommario di cognizione, di cui agli artt. 702-bis e seguenti cod. proc. civ., ma dettando altresì alcune previsioni specifiche.

In particolare la competenza era demandata al tribunale, in composizione monocratica, del capoluogo del distretto di Corte d’appello nel quale aveva sede la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale che aveva pronunciato il provvedimento impugnato.

Il ricorso doveva essere proposto, a pena di inammissibilità, entro trenta giorni dalla notificazione del provvedimento, ovvero entro sessanta giorni se il ricorrente risiedeva all’estero, e depositato anche a mezzo del servizio postale ovvero per il tramite di una rappresentanza diplomatica o consolare italiana, ipotesi nella quale la procura speciale al difensore era rilasciata dinanzi all’autorità consolare che, una volta autenticata la sottoscrizione, doveva inoltrare il ricorso, mediante i funzionari della rappresentanza, all’autorità giudiziaria italiana.

La proposizione del ricorso giurisdizionale, anche nell’assetto contemplato dall’art. 19 del d.lgs. n. 150 del 2011, comportava di regola – ma con l’eccezione del caso di inammissibilità del ricorso e di altre fattispecie tassativamente individuate dal comma 4 della predetta norma – la sospensione dell’efficacia della decisione di diniego della protezione richiesta da parte delle Commissioni territoriali. Tale sospensione si protraeva – secondo la giurisprudenza (Corte di cassazione, sezione sesta civile, sottosezione prima, ordinanze 30 novembre 2015, n. 24415, 27 luglio 2017, n. 18737 e 31 ottobre 2018, n. 28003) – fino alla definizione della controversia.

Il giudice poteva procedere, anche d’ufficio, agli atti di istruzione necessari per la definizione del ricorso.

L’ordinanza conclusiva del giudizio era appellabile nelle forme e nei termini di cui all’art. 702-quater cod. proc. civ., e la sentenza emessa all’esito di tale giudizio di gravame poteva essere oggetto di ricorso per cassazione.

4.3.– Il terzo modello processuale – quello vigente e che rileva nel giudizio principale in quanto applicabile ratione temporis – è stato introdotto dall’art. 7 del decreto-legge 17 febbraio 2017, n. 13 (Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale), convertito, con modificazioni, in legge 13 aprile 2017, n. 46, che ha abrogato l’art. 19 del d.lgs. n. 150 del 2011 e, in sua sostituzione, ha introdotto l’art. 35-bis del d.lgs. n. 25 del 2008, ridisegnando le regole processuali, tra le quali anche quella del presente giudizio.

La fase giurisdizionale del procedimento volto al riconoscimento della protezione internazionale – la cui competenza è stata demandata alla sezione specializzata in materia di immigrazione, contestualmente istituita presso il tribunale del luogo della sede della Corte d’appello dove si trova la commissione territoriale che si è pronunciata sulla richiesta – è quindi attualmente disciplinata dall’indicato 35-bis.

Il giudizio si svolge nelle forme del procedimento in camera di consiglio: sono tuttavia previste, a differenza di quanto stabiliva in precedenza l’art. 35 dello stesso decreto, alcune significative deroghe rispetto alle previsioni dettate dagli artt. 737 e seguenti cod. proc. civ.

Nel processo di primo grado, il ricorso deve essere depositato, a pena di inammissibilità, entro trenta giorni dalla notificazione del provvedimento, ovvero entro sessanta giorni se il ricorrente risiede all’estero. Può essere depositato anche a mezzo del servizio postale ovvero per il tramite di una rappresentanza diplomatica o consolare italiana (art. 35-bis, comma 2).

Correlata alla proposizione del ricorso in sede giurisdizionale è prevista l’efficacia sospensiva del provvedimento di diniego della Commissione territoriale (art. 35-bis, comma 3).

Sotto il profilo istruttorio, fermo il dovere del ricorrente di allegare i fatti posti a fondamento della domanda, la Commissione che ha adottato l’atto impugnato deve rendere disponibili, entro venti giorni dalla notificazione del ricorso, copia della domanda di protezione internazionale presentata, della videoregistrazione unitamente al verbale di trascrizione della stessa, nonché dell’intera documentazione comunque acquisita nel corso della procedura, compresa l’indicazione della documentazione sulla situazione socio-politico-economica dei Paesi di provenienza dei richiedenti la protezione internazionale (art. 35-bis, comma 8).

Il tribunale decide in composizione collegiale con un provvedimento in forma di decreto, non reclamabile, che rigetta il ricorso ovvero riconosce al ricorrente lo status di rifugiato o di persona cui è accordata la protezione sussidiaria (art. 3, comma 3-septies).

Contro tale pronuncia è ammesso soltanto il ricorso per cassazione, per la cui proposizione il termine è di trenta giorni, decorrente dalla comunicazione del decreto a cura della cancelleria; ricorso che richiede – secondo la disposizione censurata (art. 35-bis, comma 13, sesto periodo) – la procura speciale, necessariamente posteriore al provvedimento impugnato e con onere per il difensore di certificare la data del suo rilascio.

Il medesimo comma 13, terzo periodo, del predetto art. 35-bis, precisa che la sospensione degli effetti del provvedimento impugnato derivante dalla proposizione del ricorso in sede giurisdizionale o ivi concessa dall’autorità giudiziaria nelle ipotesi di cui al comma 4, viene meno se il ricorso è rigettato, anche con decreto non definitivo.

In presenza di «fondati motivi», come prevede l’ottavo periodo della disposizione in esame, lo stesso giudice che ha emanato il decreto impugnato può, su istanza di parte, che deve essere depositata entro cinque giorni dalla proposizione del ricorso per cassazione, disporre la sospensione degli effetti del decreto, con conseguente ripristino, in caso di sospensione del provvedimento di rigetto, della sospensione dell’efficacia esecutiva della decisione della Commissione.

4.4.– Per completezza del quadro normativo di riferimento, può considerarsi, infine, che i giudizi per il riconoscimento della protezione speciale – ossia essenzialmente di quella forma di protezione, già denominata umanitaria che può essere concessa in virtù della disciplina nazionale anche ove non ricorrano i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria – l’art. 1, comma 5, del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, in legge 1° dicembre 2018, n. 132, ha introdotto l’art. 19-ter del d.lgs. n. 150 del 2011 dettando le regole processuali, ispirate al procedimento sommario di cognizione, per le controversie in materia di diniego o di revoca dei permessi di soggiorno temporanei per esigenze di carattere umanitario.

Tra le previsioni derogatorie contemplate dalla predetta norma rispetto a quelle degli artt. 702-bis e seguenti cod. proc. civ., vengono in rilievo disposizioni analoghe a quelle dettate dall’art. 35-bis del d.lgs. n. 25 del 2008 per i giudizi in tema di riconoscimento della protezione internazionale, tra le quali proprio quella che prevede l’onere per il difensore di certificare la data di conferimento della procura speciale a ricorrere per cassazione (ossia lo stesso onere contemplato dalla norma censurata).

5.– È nel contesto di tale più ampio quadro normativo che deve essere collocata la disposizione censurata nel presente giudizio, ossia il comma 13, sesto periodo, dell’art. 35-bis del d.lgs. n. 25 del 2008, che – come già ricordato – prevede che la procura alle liti per la proposizione del ricorso per cassazione deve essere conferita, a pena di inammissibilità, in data successiva alla comunicazione del decreto impugnato; e poi aggiunge – nella parte oggetto delle censure dell’ordinanza di rimessione – che «a tal fine il difensore certifica la data di rilascio in suo favore della procura medesima».

Solo in quest’ultima parte la norma è derogatoria dell’ordinario regime della procura a ricorrere per cassazione.

In generale, l’art. 365 cod. proc. civ. stabilisce, con riguardo al giudizio dinanzi alla Corte di cassazione, che «[i]l ricorso è diretto alla corte e sottoscritto, a pena di inammissibilità, da un avvocato iscritto nell’apposito albo, munito di procura speciale».

Alla distinzione tra procura generale e procura speciale alle liti fa riferimento l’art. 83 cod. proc. civ. che, all’ultimo comma, ne individua la portata nel senso che «[l]a procura speciale si presume conferita soltanto per un determinato grado del processo, quando nell’atto non è espressa volontà diversa».

Da lungo tempo, nella giurisprudenza di legittimità è stata posta in evidenza la differenza tra la procura speciale, cui fa riferimento l’art. 83 cod. proc. civ., e quella per ricorrere per cassazione ex art. 365 cod. proc. civ. In particolare, è stato affermato, a riguardo, che l’espressione «procura speciale» usata dall’art. 365 cod. proc. civ., per il ricorso per cassazione ha una portata più specifica di quella che alla stessa espressione è stata attribuita nell’art. 83 del medesimo codice. Mentre in questa ultima norma l’espressione designa, in contrapposizione alla procura generale, destinata a valere per tutti i giudizi, la procura relativa ad un determinato giudizio o gruppo di giudizi, nella prima norma sta, invece, a sottolineare l’esigenza che la procura sia conferita ex professo con particolare e preciso riferimento alla fase o grado del processo da instaurarsi dinanzi alla Corte di cassazione. Sotto questo aspetto la disposizione risulta informata sostanzialmente al concetto che, per proporre il ricorso per cassazione, occorre che la parte manifesti in modo univoco la sua volontà concreta e attuale di dare vita a quella determinata fase processuale e che a tanto si determini sulla base della valutazione della sentenza da impugnare.

Vi è, dunque, che la specialità della procura a ricorrere per cassazione implica, in ogni caso, che la stessa sia stata conferita posteriormente alla pronuncia impugnata (e anteriormente alla notifica del ricorso). Pertanto la posteriorità del conferimento della procura a ricorrere rispetto al momento della pubblicazione della decisione impugnata resta ineludibile requisito a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione (ex plurimis, Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 19 novembre 2021, n. 35466).

La disposizione censurata conferma, quindi, questa regola generale limitandosi a porre a carico del difensore (e non della parte), per presidiarne il rispetto, l’onere di certificare, ai fini della proposizione del ricorso per cassazione nella materia della protezione internazionale, la data di conferimento della procura.

La ratio della disposizione – che, dunque, non innova rispetto alla necessaria posteriorità della procura speciale alle liti a ricorrere per cassazione rispetto alla pubblicazione del provvedimento impugnato – è quella, in un settore peculiare per l’esorbitante numero di ricorsi, di solito seriali e caratterizzati dall’ammissione delle parti private al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, di rendere effettivo il rispetto della relativa prescrizione presidiandola con la certificazione dell’avvocato sulla “verità” della data, in modo da evitare il rilascio di procure cosiddette in bianco.

Le Sezioni unite civili, chiamate a risolvere un contrasto che si era formato tra le sezioni semplici, hanno affermato il principio secondo cui la mancanza della certificazione della data da parte del difensore, non surrogabile dall’apposizione della stessa aliunde nel contesto del ricorso, rende quest’ultimo inammissibile (Cass., n. 15177 del 2021).

6.– Tutto ciò premesso, le questioni sono, nel merito, non fondate in riferimento innanzi tutto ai parametri interni (artt. 3, 10, 24 e 111 Cost.).

7.– L’ordinanza di rimessione dubita, in primo luogo, della compatibilità della norma censurata con il principio di ragionevolezza, riconducibile all’art. 3, primo comma, Cost., in ragione di un’assunta incoerenza della stessa rispetto allo scopo perseguito di assicurare che, con la presenza sul territorio dello Stato al momento del conferimento della procura, il richiedente protezione internazionale abbia un effettivo interesse alla decisione del ricorso per cassazione.

La finalità della norma censurata risiederebbe nell’esigenza – ritenuta dal legislatore del 2017, che ha modificato il rito di queste controversie – di assicurarsi che lo straniero si trovi nel territorio dello Stato, perché ciò vale a confermare il perdurante interesse a ottenere la protezione internazionale, negatagli dal decreto del tribunale, e quindi l’interesse al ricorso per cassazione (ex art. 100 cod. proc. civ.).

Secondo la prospettazione della Corte rimettente, l’incoerenza intrinseca della disposizione censurata renderebbe privo di una valida giustificazione il differente trattamento riservato ai ricorsi per il riconoscimento della protezione internazionale rispetto alla generalità dei ricorsi per cassazione.

8.– Deve innanzi tutto considerarsi che la disposizione censurata, come già evidenziato, non innova nella parte in cui prescrive che la procura alle liti per la proposizione del ricorso per cassazione deve essere conferita, a pena di inammissibilità del ricorso, in data successiva alla comunicazione del decreto impugnato. Essa non fa altro che esplicitare e ribadire una prescrizione processuale che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità (da ultimo, Cass., n. 35466 del 2021), è già estraibile dalla regola generale posta dall’art. 365 cod. proc. civ., letto congiuntamente all’art. 83 cod. proc. civ., nel richiedere la procura speciale per proporre il ricorso per cassazione.

È tale necessaria posteriorità della procura speciale a implicare che il suo rilascio, secondo l’id quod plerumque accidit, avvenga nel territorio dello Stato dov’è l’avvocato che la riceve e che certifica l’autografia della sottoscrizione, pur se non è richiesto, né dall’art. 365 cod. proc. civ. né dall’art. 83 cod. proc. civ., che certifichi anche la data del suo rilascio. Il dato temporale (la posteriorità) finisce per condizionare e implicare, secondo un criterio di normalità, quello spaziale (la presenza del ricorrente lì dov’è l’avvocato che certifica l’autografia della sottoscrizione).

Si tratta di una regola generale, di antica tradizione, che non differenzia la posizione del ricorrente in quanto straniero, richiedente la protezione internazionale. Anche nel regime precedente la riforma del 2017, sussisteva l’onere di conformarsi a tale regola sicché, già prima, la certificazione dell’autografia da parte dell’avvocato, esercente in Italia, comportava la contestuale necessaria presenza di chi rilasciava la procura, sicché non era di fatto possibile tale certificazione ove lo straniero fosse trasmigrato altrove o, ancor più, se si fosse reso irreperibile.

La prescrizione ulteriore – parimenti contenuta nell’art. 35-bis, comma 13, sesto periodo, nella parte in cui onera il difensore di certificare anche la data del rilascio della procura – è invece innovativa e – come già rilevato – ha una funzione strumentale e rafforzativa della già esistente regola generale della posteriorità della stessa. È un onere posto a carico del difensore che riceve la procura e non certo dello straniero che la rilascia; il quale ultimo non può – e già non poteva (prima della riforma del 2017) – che essere in presenza del difensore quando, dopo la pubblicazione del provvedimento che egli intende impugnare con ricorso per cassazione, rilascia la procura, dovendo quest’ultimo, nello stesso contesto spaziale/temporale, certificare l’autografia della sottoscrizione.

Si tratta di un onere (quello della certificazione anche della data della procura) che è strumentale al rispetto della generale regola processuale di necessaria posteriorità della procura speciale e che si iscrive, come prescrizione questa sì speciale, ma non irragionevole, nel più ampio obbligo di lealtà del difensore (art. 88, primo comma, cod. proc. civ.).

Per un verso non è dubitabile la perdurante validità di questa generale regola processuale, confermata (e non già introdotta ex novo) nella disposizione censurata e mirata ad un’attivazione consapevole della giurisdizione di legittimità. Ricorrente è nella giurisprudenza di legittimità l’affermazione secondo cui «ogni qualvolta si tratti di adire il supremo collegio, in sede di ricorso ordinario o di regolamento di giurisdizione, è indispensabile che la parte manifesti in modo univoco la sua volontà concreta ed attuale di dare vita a quella determinata fase processuale e che a tanto si determini sulla base di una specifica e ponderata valutazione della sentenza da impugnare» (fin da Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 17 maggio 1961, n. 1161).

Per altro verso il rafforzamento di questa regola processuale, mediante la previsione di un onere ulteriore e specifico per il difensore dello straniero richiedente la protezione internazionale, è non già distonico, bensì coerente con essa perché finalizzato a ridurne la possibilità di elusione, convergendo così verso l’obiettivo di dare maggiore ordine all’accesso al giudizio di legittimità.

9.– Vi è, in vero, una criticità che l’ordinanza di rimessione non manca di evidenziare come argomento, pur corretto, ma in realtà non rilevante in questo giudizio di legittimità costituzionale.

Il comma 13 dell’art. 35-bis – che reca varie prescrizioni (oltre quella oggetto delle censure di illegittimità costituzionale) – prevede anche che la sospensione degli effetti del provvedimento impugnato viene meno se con decreto, anche non definitivo, il ricorso è rigettato; e aggiunge che il ricorrente, «[q]uando sussistono fondati motivi», può però chiedere tale sospensione al giudice che ha emesso il decreto con apposita istanza da depositarsi entro cinque giorni dalla proposizione del ricorso per cassazione. Ciò significa che nell’immediato, appena ricevuta la comunicazione del decreto di rigetto del tribunale, lo straniero richiedente la protezione internazionale – il quale con la proposizione del ricorso al tribunale (salve alcune eccezioni) si è giovato, fino a quel momento, della sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento (di rigetto) impugnato, prevista dal comma 3 dello stesso art. 35-bis e quindi ha potuto legittimamente trattenersi in Italia in attesa della definizione del suo status (di rifugiato o no) – non ha più titolo per rimanere nel territorio dello Stato in ragione della sua richiesta di protezione internazionale, pur ancora sub iudice. Invece, prima della riforma del 2017, quindi nel regime dell’art. 19 del d.lgs. n. 150 del 2011, la giurisprudenza riteneva che la sospensione dell’efficacia dell’iniziale provvedimento di rigetto si protraesse fino alla definizione della controversia (Cass., n. 24415 del 2015, n. 18737 del 2017 e n. 28003 del 2018).

Questa criticità, puntualmente evidenziata dall’ordinanza di rimessione, però non è conseguenza della regola introdotta dalla disposizione censurata: riguarda la disciplina della sospensione del rigetto della richiesta di protezione internazionale, non già quella della procura speciale per il ricorso per cassazione. L’onere posto a carico dell’avvocato di certificare la data di rilascio della procura non è causa del mutamento della situazione dello straniero richiedente la protezione internazionale; non incide sulla prosecuzione, o no, della sospensione degli effetti del provvedimento di rigetto; è invece, sotto questo profilo, una regola “neutra”, essendo altra la prescrizione che crea questa criticità.

Nel giudizio principale, pendente innanzi alla Corte di cassazione, ciò che rileva – e che è messo in discussione – è solo la mancata certificazione da parte del difensore della data di rilascio della procura. La circostanza che lo straniero ricorrente abbia rilasciato la procura in un momento in cui non era più coperto dall’effetto sospensivo suddetto – e quindi in una situazione a rischio di espulsione – non incide sull’osservanza, o meno, da parte del difensore dell’onere di certificazione della data del rilascio della procura e sulla conseguenza dell’eventuale inosservanza.

Una siffatta questione, relativa al mancato prolungamento dell’effetto sospensivo per il tempo in cui il ricorso per cassazione può essere proposto e la procura rilasciata, può porsi in altro giudizio, come in effetti è già accaduto con rinvio pregiudiziale interpretativo alla Corte di giustizia; la quale (sentenza 26 settembre 2018, X e Y contro Staatssecretaris van Veiligheid en Justitie, in causa C-180/17) ha già affermato – limitatamente al versante “europeo” della tutela dei richiedenti asilo – che nessuna delle disposizioni della direttiva 2013/32/UE, cosiddetta “Direttiva procedure”, impone agli Stati membri di riconoscere un effetto sospensivo automatico ai richiedenti protezione internazionale, che propongano impugnazione avverso la decisione giurisdizionale di rigetto della loro domanda in primo grado.

10.– La Corte rimettente denuncia altresì la difficoltà, ridondante in impossibilità, per lo straniero richiedente la protezione internazionale, che sia trasmigrato all’estero, rimpatriato o espulso, di rilasciare una procura speciale che sia rispettosa delle prescrizioni formali previste dalla disposizione censurata, atteso che non sarebbe prevista la possibilità della procura consolare, come invece è per la procura per il giudizio di primo grado innanzi al tribunale. Ciò costituirebbe spia della irragionevolezza intrinseca della disposizione censurata.

Anche questo profilo di criticità, in realtà, non è rilevante.

È vero che la previsione dell’art. 35-bis del d.lgs. n. 25 del 2008 – secondo cui «[l]a procura speciale al difensore è rilasciata altresì dinanzi all’autorità consolare» se il ricorrente risiede all’estero – è contenuta, nel terzo periodo del comma 2, nel contesto della disciplina del ricorso al tribunale avverso la decisione della Commissione, territoriale o nazionale, per il riconoscimento della protezione internazionale e non è testualmente ripetuta, nel successivo comma 13, quanto al ricorso per cassazione.

Ma per un verso l’onere posto a carico del difensore dalla disposizione censurata di certificare la data del rilascio della procura speciale per il ricorso per cassazione, di cui solo si dibatte nel giudizio principale, non incide sulla possibilità, o no, che la procura speciale possa essere altresì consolare. Per un altro, è rimesso alla giurisprudenza la verifica della possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata al rispetto del diritto inviolabile alla tutela giurisdizionale «in ogni stato e grado» (art. 24, secondo comma, Cost.), nel senso che la mancata ripetizione testuale, nel comma 13 dell’art. 35-bis del d.lgs. n. 25 del 2008, della possibilità che la «procura speciale» sia consolare, potrebbe non significare necessariamente la sua esclusione quanto al ricorso per cassazione.

11.– Con riferimento, poi, al principio di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), parimenti evocato dalla Corte rimettente, c’è da considerare che la regola che onera il difensore di certificare la data del rilascio della procura è speciale, perché trova applicazione non già in generale, ma limitatamente al ricorso proposto dallo straniero richiedente la protezione internazionale, oltre che, in vero, nei giudizi aventi ad oggetto le decisioni di trasferimento (art. 3, comma 3-septies, del d.lgs. n. 25 del 2008) e nelle controversie in materia di diniego o di revoca dei permessi di soggiorno temporanei per esigenze di carattere umanitario (art. 19-ter, comma 6, del d.lgs. n. 150 del 2011).

L’ordinanza di rimessione dubita della legittimità costituzionale della disposizione censurata anche sotto il profilo dell’ingiustificata, e asseritamente discriminatoria, differenziazione di disciplina rispetto alla regola generale (artt. 365 e 83 cod. proc. civ.), che prescrive che il difensore certifichi solo l’autografia della sottoscrizione della procura speciale.

Ma da una parte occorre ricordare che la discrezionalità del legislatore è particolarmente ampia in materia processuale. Costante è, in proposito, l’affermazione che nella conformazione della disciplina processuale il legislatore gode di ampia discrezionalità, con il solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte adottate (ex plurimis, sentenze n. 80 e n. 58 del 2020, n. 271 del 2019, n. 199 del 2017, n. 121 e n. 44 del 2016).

D’altra parte questa regola si innesta nella disciplina del contenzioso, avente ad oggetto le richieste di protezione internazionale, la quale nel complesso è oggetto di regole processuali speciali, quelle poste dall’art. 35-bis del d.lgs. n. 25 del 2008; del resto speciali erano anche, già prima della riforma del 2017, la disciplina processuale prevista dall’art. 19 del d.lgs. n. 150 del 2011 e, prima ancora, quella contemplata dall’art. 35 del d.lgs. n. 25 del 2008.

In questo contesto di regole speciali la disposizione censurata non può ritenersi discriminatoria sol perché essa, al pari delle altre, si applica alle controversie aventi ad oggetto la protezione internazionale ponendo, a carico del difensore della parte, l’onere aggiuntivo della certificazione della data del rilascio della procura. Il diritto alla tutela giurisdizionale è compromesso solo quando vengano imposti oneri tali da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell’attività processuale (tra le molte, sentenze n. 80 e n. 58 del 2020, n. 271 del 2019, n. 199 del 2017, n. 121 e n. 44 del 2016) e tale non è l’onere di certificazione di cui è gravato il difensore dello straniero richiedente la protezione internazionale.

La non manifesta irragionevolezza di tale regola differenziata risulta, inoltre, anche dalla considerazione che, soppresso il grado di appello, il numero di ricorsi per cassazione è cresciuto esponenzialmente fino a rappresentare, in percentuale, una parte molto ampia di tutti i ricorsi civili, tanto da costituire un’obiettiva e marcata peculiarità, in ragione dell’elevato rapporto tra il numero dei giudizi di cassazione rispetto a quelli di primo grado, ben maggiore che in altri settori nel panorama complessivo del contenzioso civile. Questo accesso così diffuso, al quale non è estraneo il maggiore ricorso al patrocinio a spese dello Stato rispetto ad altre tipologie di contenzioso, rende non irragionevole il rafforzamento della regola della posteriorità della procura mediante l’onere a carico del difensore della certificazione della data del suo rilascio da parte dello straniero richiedente la protezione internazionale. Né vengono in sofferenza il diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24, primo comma, Cost.) di un diritto fondamentale, qual è quello d’asilo (art. 10, terzo comma, Cost.), e la garanzia del ricorso per cassazione per violazione di legge (art. 111, settimo comma, Cost.), che trova generale applicazione – e non potrebbe essere diversamente – anche al contenzioso avente ad oggetto la protezione internazionale. Il rafforzamento indiretto dell’osservanza di una regola processuale, in sé non posta in discussione (quella della necessaria posteriorità della procura speciale), non restringe gli spazi di tutela giurisdizionale, né ridonda in un adempimento solo formale che possa inficiare la garanzia del giusto processo (art. 111, primo comma, Cost.), stante la finalità non irragionevole perseguita dalla norma.

Proprio la presenza di una finalità non irragionevole, nei termini indicati, sottesa alla norma censurata (e invece carente in altre fattispecie, concernenti non il diritto d’asilo, ma la posizione dello straniero, recentemente venute all’esame di questa Corte: sentenze n. 157 e n. 9 del 2021 e n. 186 del 2020), comporta che la prescrizione espressa dalla stessa, di natura strettamente processuale, non integra un’illegittima disparità di trattamento tra i richiedenti protezione internazionale e altri soggetti ricorrenti quanto ai requisiti della procura speciale a ricorrere per cassazione.

12.– Neppure sussiste il denunciato difetto di proporzionalità della sanzione dell’inammissibilità del ricorso in caso di inosservanza, da parte del difensore, dell’onere di certificazione anche della data del suo rilascio, oltre che dell’autografia della sottoscrizione.

In vero la disposizione censurata, nella sua formulazione testuale, riferisce la sanzione dell’inammissibilità a quest’ultima e non la ripete anche con riguardo alla prima, tant’è che sul punto era insorto un contrasto di giurisprudenza, risolto dalla richiamata pronuncia delle Sezioni unite nel senso, più rigoroso, secondo cui l’inammissibilità del ricorso consegue anche alla mancata specifica certificazione della data del rilascio della procura. La progressiva formazione del precedente giurisprudenziale in ordine a tale questione strettamente interpretativa ha, in tal caso, raggiunto lo stadio del diritto vivente, fissato in un principio di diritto che crea, per le sezioni semplici, il richiamato vincolo di cui all’art. 374, terzo comma, cod. proc. civ., e quindi la disposizione censurata, sottoposta a scrutinio di legittimità costituzionale, va letta con questo più rigoroso contenuto.

Ma, anche così, essa non mostra un difetto di proporzionalità che, nella materia processuale, connotata – come già rilevato – da ampia discrezionalità del legislatore, dovrebbe essere manifesto.

Vi è, invece, una simmetria nella sanzione dell’inammissibilità del ricorso per la violazione tanto della necessaria posteriorità della procura speciale, quanto della prescritta certificazione, da parte del difensore, della data del suo rilascio.

Rientra nella discrezionalità del legislatore aver perseguito la finalità di rafforzare l’osservanza della regola della posteriorità della procura speciale, presidiandola, più efficacemente, con un onere posto a carico del difensore a pena di inammissibilità del ricorso piuttosto che, in modo più blando, con un mero dovere rientrante solo negli obblighi di deontologia professionale.

13.– L’ordinanza di rimessione muove, poi, ulteriori censure con riferimento, sotto un duplice profilo, sia a una serie di parametri interposti del diritto dell’Unione europea (artt. 18, 19, paragrafo 2, e 47 CDFUE; artt. 28 e 46 della direttiva 2013/32/UE), sia a parametri convenzionali (artt. 6, 13 e 14 CEDU), tutti per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost.

Anche con riguardo a tali parametri – sia del diritto europeo, sia di quello convenzionale – le questioni non sono fondate.

14.– Sotto il primo profilo va ribadito che l’evocazione, da parte della Corte rimettente, del contrasto con il diritto dell’Unione europea deve considerarsi ammissibile quando sono richiamate, come parametri interposti, disposizioni di quell’ordinamento, relative ai medesimi diritti fondamentali tutelati da parametri interni (da ultimo, sentenza di questa Corte n. 182 del 2021).

In tale evenienza, in cui «[i] principi e i diritti enunciati nella Carta [dei diritti fondamentali dell’Unione europea] intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana» (sentenza n. 269 del 2017), è possibile colmare, ove sussistente, un eventuale scarto di tutele, quando quelle assicurate dal diritto europeo risultino più estese di quelle dell’ordinamento nazionale.

14.1.– Con riferimento alle questioni sollevate nel giudizio principale e ai parametri evocati dal Collegio rimettente, può osservarsi che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, all’art. 18, riconosce e garantisce il diritto d’asilo nel rispetto delle norme stabilite dalla Convenzione di Ginevra e dal Protocollo concluso a New York il 31 gennaio 1967, relativo allo status dei rifugiati, ratificato con legge del 14 febbraio 1970, n. 95. Assicura poi protezione ai richiedenti asilo escludendo che essi possano essere allontanati, espulsi o estradati verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti (art. 19, paragrafo 2, CDFUE).

Per questi diritti opera la generale garanzia di un ricorso effettivo, deciso da un giudice imparziale (art. 47 CDFUE); garanzia specificata, con riferimento alle richieste di protezione internazionale, dall’art. 46, paragrafo 3, della citata direttiva 2013/32/UE, secondo cui, in particolare, gli Stati membri assicurano che un ricorso effettivo preveda l’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto, quanto meno nei procedimenti di impugnazione dinanzi al giudice di primo grado. Questa direttiva sulle procedure d’asilo è stata trasposta, unitamente a quella coeva sull’accoglienza, con decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142 (Attuazione della direttiva 2013/33/UE recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, nonché della direttiva 2013/32/UE, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale).

Tali garanzie complessive a livello di diritto europeo, quanto alla tutela giurisdizionale dei richiedenti asilo, si sovrappongono, senza sopravanzarle come livello di tutela, a quelle assicurate nell’ordinamento nazionale dai parametri interni già esaminati. Ed è altresì presente, nella Costituzione, la generale garanzia, che vale anche per le controversie aventi a oggetto la protezione internazionale, del ricorso per cassazione per violazione di legge (art. 111, settimo comma, Cost.).

Fondamentale in proposito è la decisione della sezione quarta della Corte di giustizia dell’Unione europea (sentenza 26 settembre 2018, X e Y contro Staatssecretaris van Veiligheid en Justitie) che ha chiarito che, a livello di diritto europeo, la garanzia di un ricorso effettivo riguarda il diritto del richiedente asilo di portare innanzi a un giudice, con le garanzie della giurisdizione, l’esame della sua richiesta, mentre è rimessa alle regolamentazioni processuali degli Stati membri la disciplina dell’impugnazione, in secondo grado o ulteriore, della decisione di quel giudice.

Nel dare continuità a questo principio, ancora con citata sentenza X e Y contro Staatssecretaris van Veiligheid en Justitie, la Corte di giustizia ha ribadito che l’obbligo di effettività del ricorso si riferisce espressamente, come del resto risulta dall’art. 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32/UE, ai «procedimenti di impugnazione dinanzi al giudice di primo grado»; tale obbligo, richiedendo l’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto, riguarda unicamente lo svolgimento del procedimento giurisdizionale di primo grado.

Inoltre ha confermato che l’art. 47 CDFUE, letto alla luce delle garanzie sancite dagli artt. 18 e 19, paragrafo 2, sul diritto d’asilo, non impone l’esistenza di un doppio grado di giudizio: essenziale, infatti, è unicamente che sia possibile esperire un ricorso dinanzi a un’autorità giurisdizionale. Sicché, in particolare, l’introduzione di un ricorso per cassazione contro le decisioni di rigetto di una domanda di protezione internazionale rientra, in mancanza di norme fissate dal diritto dell’Unione, nell’ambito dell’autonomia procedurale degli Stati membri, fatto salvo il rispetto dei principi di effettività e di equivalenza.

Ciò è in linea con la risalente affermazione della Corte di giustizia secondo cui è l’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro a dover stabilire le modalità procedurali delle azioni giudiziali volte a tutelare i diritti spettanti ai singoli in forza delle norme comunitarie (ora europee) aventi efficacia diretta, modalità che non possono, tuttavia, essere meno favorevoli di quelle relative ad analoghe azioni del sistema processuale nazionale (Corte di giustizia CE, sentenze 16 dicembre 1976, in causa C-33/76, Rewe, e in causa C-45/76, Comet).

Tale principio trova oggi espresso riconoscimento nell’art. 19, paragrafo 1, del Trattato dell’Unione europea, firmato a Lisbona il 13 dicembre 2007, secondo cui «[g]li Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione».

14.2.– Limiti al principio di autonomia processuale degli Stati membri sono pertanto solo quelli dell’effettività e dell’equivalenza della tutela: quest’ultima si esplica nel senso che la garanzia processuale offerta ai diritti di origine europea non deve essere inferiore a quella riconosciuta rispetto ad analoghe posizioni di diritto interno.

In particolare, come è stato ricordato anche di recente dalla Corte di giustizia (si richiama ancora la sentenza Staatssecretaris van Veiligheid en Justitie), il rispetto del canone di equivalenza richiede un pari trattamento dei ricorsi che si fondano su una violazione del diritto nazionale e di quelli, analoghi, basati su una violazione del diritto dell’Unione, ma non l’equivalenza delle norme processuali nazionali applicabili a contenziosi aventi diversa natura (sentenza 6 ottobre 2015, in causa C-69/14, Târşia). Occorre, quindi, da un lato, identificare le procedure o i ricorsi comparabili e, dall’altro, determinare se i ricorsi basati sul diritto interno siano trattati in modo più favorevole dei ricorsi aventi ad oggetto la tutela dei diritti conferiti ai singoli dal diritto dell’Unione (sentenze 12 febbraio 2015, in causa C-567/13, Baczó e Vizsnyiczai, e 9 novembre 2017, in causa C-217/16, Dimos Zagoriou).

Per quanto riguarda la comparabilità dei ricorsi, spetta al giudice nazionale, che dispone di una conoscenza diretta delle modalità processuali applicabili, verificare le somiglianze tra i ricorsi di cui trattasi quanto a oggetto, causa ed elementi essenziali (sentenza 27 giugno 2013, in causa C-93/12, Agrokonsulting-04, e ancora sentenza Dimos Zagoriou).

A tal fine occorre considerare che la disciplina del ricorso per cassazione nella materia della protezione internazionale è unica, nel contesto della trasposizione della direttiva 2013/32/UE, e rappresenta una tutela giurisdizionale ulteriore rispetto a quella assicurata a livello europeo. Essa semmai può porsi a raffronto con il procedimento volto al riconoscimento della protezione umanitaria (ora speciale) riconducibile, al pari della protezione internazionale, alla garanzia costituzionale del diritto d’asilo di cui all’art. 10, terzo comma, Cost. (sentenza n. 194 del 2019).

In tale procedimento, novellato dal d.l. n. 113 del 2018, come convertito, vige un’analoga regola formale, con riguardo alla procura a ricorrere per cassazione, quale contemplata dall’art. 19-ter, comma 6, del d.lgs. n. 150 del 2011, che parimenti richiede che il difensore dello straniero, che domandi tale protezione residuale, certifichi la data del rilascio della procura, peraltro anche in questa ipotesi a fronte di un giudizio di primo grado che si conclude con ordinanza inappellabile.

14.3.– L’ordinanza di rimessione assume, poi, la violazione, da parte della norma censurata, dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 28 e 46, paragrafo 11, della direttiva 2013/32/UE, che, ai fini della rinuncia alla domanda proposta dal richiedente asilo, richiede un’espressa normativa di attuazione, non introdotta nel nostro ordinamento.

Anche questo profilo di censura non è fondato.

L’art. 46, paragrafo 11, della citata direttiva, demanda agli Stati membri la possibilità – non l’obbligo – di stabilire nel diritto nazionale le condizioni che devono sussistere affinché si possa presumere che il richiedente abbia implicitamente ritirato o rinunciato al ricorso giurisdizionale.

L’art. 28 della medesima direttiva, invece, regola la procedura in caso di ritiro implicito della domanda di protezione internazionale o di rinuncia ad essa.

È sufficiente rilevare che in realtà la disposizione attualmente censurata non si risolve in una sorta di presunzione di rinuncia al ricorso o alla domanda di protezione internazionale per effetto della mancata presenza del richiedente sul territorio dello stesso, bensì è volta – ferma l’applicazione della regola generale della posteriorità della procura speciale per ricorrere in cassazione – a presidiarne il rispetto, imponendo al difensore l’onere di certificare la data di conferimento del mandato. Tale onere non incide sulla possibilità, o no, di identificare una fattispecie, tacita o presunta, di rinuncia al ricorso o alla domanda di protezione internazionale.

15.– Sotto il secondo profilo, relativo agli evocati parametri interposti della CEDU, l’ordinanza di rimessione assume la contrarietà della norma censurata al principio di divieto di discriminazione in base alla cittadinanza espresso dall’art. 14 CEDU.

Come ha da tempo chiarito la Corte di Strasburgo, nell’applicazione di questa norma è riconosciuto agli Stati contraenti un margine di apprezzamento, la cui ampiezza varia a seconda delle circostanze, delle materie e del contesto (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 30 settembre 2003, Koua Poirrez contro Francia; grande camera, sentenza 18 febbraio 2009, Andrejeva contro Lettonia).

Pertanto, essendosi esclusa la violazione dell’art. 3 Cost., per quanto sopra argomentato, non sussiste neppure la violazione dell’evocato parametro interposto.

15.1.– La Corte rimettente dubita, infine, della compatibilità dell’art. 35-bis, comma 13, sesto periodo, del d.lgs. n. 25 del 2008, con gli artt. 6 e 13 CEDU sul diritto a un equo processo e a un ricorso effettivo.

Sulla problematica delle regole processuali contemplate nei giudizi di impugnazione, la Corte EDU ha più volte ribadito che, sebbene l’art. 6 della Convenzione non imponga agli Stati contraenti di istituire gradi di giudizio ulteriori al primo, se gli stessi sono previsti dalla legge nazionale dello Stato contraente, devono essere rispettate le garanzie dell’equo processo contemplate dalla predetta norma, in particolare nella misura in cui la stessa assicura alle parti in causa un effettivo diritto di accesso ai tribunali per le decisioni relative ai loro diritti e obblighi civili (Corte EDU, grande camera, sentenza 5 aprile 2018, Zubac contro Croazia).

Al contempo, peraltro, si è riconosciuto (Corte EDU, sentenza Zubac contro Croazia; 15 settembre 2016, Trevisanato contro Italia) che il modo in cui l’art. 6, paragrafo 1, CEDU, si applica alle Corti d’appello o di cassazione dipende dalle specificità dei relativi giudizi e che, a tal fine, occorre, in particolare, considerare il ruolo svolto nel sistema processuale interno dalla Corte di cassazione. Le condizioni di ammissibilità del ricorso possono essere più rigorose rispetto a quelle contemplate per l’appello, proprio in ragione della funzione nomofilattica demandata alla stessa, la cui possibilità di esercizio ne delimita e giustifica l’intervento, sempre che le regole processuali che presidiano l’accesso al giudizio di impugnazione non siano espressione di un formalismo eccessivo nella relativa applicazione.

Come ha riconosciuto anche da ultimo la stessa Corte EDU (sentenza 28 ottobre 2021, Succi e altri contro Italia), tale situazione si concreta solo in caso di un’interpretazione particolarmente rigorosa di una norma processuale, che, precludendo l’esame sul merito dell’azione, finisca per violare il diritto a una tutela effettiva da parte degli organi giurisdizionali.

Nella fattispecie della norma censurata, però, non può ritenersi che la declaratoria di inammissibilità del ricorso nell’ipotesi di procura speciale, la cui data, posteriore alla pronuncia del provvedimento impugnato, non sia stata certificata dal difensore, costituisca espressione di un formalismo eccessivo nell’applicazione della regola processuale. A seguito dell’intervento risolutivo delle Sezioni unite civili (Cass. n. 15177 del 2021, più volte citata) l’onere formale di certificazione della data di rilascio della procura, posto a carico del difensore, specificamente esperto per essere abilitato alla difesa innanzi alla Corte di cassazione, è chiaro nella portata e nelle conseguenze della sua inosservanza e può essere ottemperato in continuità con l’assolvimento dell’altro onere di certificazione dell’autografia della sottoscrizione di chi rilascia la procura.

Del resto la stessa Corte di Strasburgo ha più volte osservato, in proposito, che la normativa sulle formalità e i termini da osservare per presentare un ricorso è volta ad assicurare la buona amministrazione della giustizia (sentenza Trevisanato contro Italia).

16.– In conclusione, le questioni di legittimità costituzionale vanno dichiarate non fondate in riferimento a tutti gli indicati parametri, sia costituzionali che interposti, europei e convenzionali.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 35-bis, comma 13, sesto periodo, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25 (Attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 10, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 28 e 46, paragrafo 11, della direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale, agli artt. 46, 18 e 19, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, nonché agli artt. 6, 13 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, sollevata dalla Corte di cassazione, sezione terza civile, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 dicembre 2021.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Giovanni AMOROSO, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 20 gennaio 2022.