Sentenza n. 228 del 2021

 

SENTENZA N. 228

ANNO 2021

Commento alla decisione di

Marco Ruotolo

Gli effetti delle decisione di inconstituzionalità della decisione sulla circolazione immobiliare. Il caso degli usi civici

per g. c. della Rivista AIC

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giancarlo CORAGGIO

Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1 c), lettere a), b), c) e d) (recte: comma 1, lettera c), della legge della Regione Abruzzo 6 aprile 2020, n. 9 (Misure straordinarie ed urgenti per l’economia e l’occupazione connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), nella parte in cui inserisce il comma 3-bis, lettere a), b), c) e d), all’art. 16 della legge della Regione Abruzzo 3 marzo 1988, n. 25 (Norme in materia di Usi civici e gestione delle terre civiche - Esercizio delle funzioni amministrative), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 6-11 giugno 2020, depositato in cancelleria il 12 giugno 2020, iscritto al n. 52 del registro ricorsi 2020 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell’anno 2020.

Visto l’atto di costituzione della Regione Abruzzo;

udito nell’udienza pubblica del 5 ottobre 2021 il Giudice relatore Giovanni Amoroso;

uditi l’avvocato dello Stato Ettore Figliolia per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Stefania Valeri per la Regione Abruzzo, quest’ultima in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1) del decreto del Presidente della Corte del 18 maggio 2021;

deliberato nella camera di consiglio del 6 ottobre 2021.

Ritenuto in fatto

1.– Con ricorso depositato il 12 giugno 2020 e iscritto al n. 52 del registro ricorsi per l’anno 2020, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, tra le altre, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1 c), lettere a), b), c) e d) (recte: art. 9, comma 1, lettera c), della legge della Regione Abruzzo 6 aprile 2020, n. 9 (Misure straordinarie ed urgenti per l’economia e l’occupazione connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), nella parte in cui inserisce il comma 3-bis, lettere a), b), c) e d), all’art. 16 della legge della Regione Abruzzo 3 marzo 1988, n. 25 (Norme in materia di Usi civici e gestione delle terre civiche - Esercizio delle funzioni amministrative), per contrasto con gli artt. 2, 3, 117, commi primo e secondo, lettere e) ed l), della Costituzione, il primo comma in relazione agli artt. 101 e 102 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130.

2.– La disposizione regionale impugnata, rubricata «Disposizioni urgenti in materia di agricoltura e zootecnia», inserendo un nuovo comma (il comma 3-bis) all’art. 16 della legge reg. Abruzzo n. 25 del 1988, ha introdotto nuovi criteri ai fini dell’assegnazione dell’uso civico di pascolo da parte dei Comuni e degli enti gestori delle terre civiche a destinazione pascoliva, stabilendo che: a) le terre civiche siano conferite, anche con durata pluriennale, «prioritariamente» ai soggetti di cui all’art. 26 della legge 16 giugno 1927, n. 1766 (Conversione in legge del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del R. decreto 28 agosto 1924, n. 1484, che modifica l’art. 26 del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, e del R. decreto 16 maggio 1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall’art. 2 del R. decreto-legge 22 maggio 1924, n. 751), iscritti nel registro della popolazione residente da almeno dieci anni che abbiano un’azienda con presenza zootecnica, ricoveri per stabulazione invernale e codice di stalla riferito allo stesso territorio comunale o ai Comuni limitrofi; b) nel caso in cui l’azienda assuma la forma giuridica di società di persone o società di capitali, i predetti requisiti devono essere posseduti dalla totalità dei soci nel caso di società di persone e da almeno due terzi delle quote societarie nel caso di società di capitali; il codice aziendale di stalla deve essere unico, attribuito alla forma giuridica conferitaria e ricomprendere l’intera consistenza zootecnica; c) ai soggetti titolari del diritto di priorità può essere assicurata, compatibilmente con le disponibilità di ogni singolo Comune, una concessione annuale fino a un ettaro di terre civiche ad utilizzazione pascoliva per ogni 0,1 unità di bestiame adulto (d’ora in avanti: UBA) immessa al pascolo; il canone annuale per il diritto di uso civico di pascolo non può superare quaranta euro per UBA; d) soddisfatta la domanda di concessione ai soggetti aventi diritto di priorità, in caso di eccedenza l’assegnazione è concessa ai residenti dei Comuni limitrofi, poi a quelli della Provincia, poi a quelli della Regione, con le medesime procedure di concessione e, successivamente, ad altri soggetti attraverso procedure di evidenza pubblica.

2.1.– Ad avviso del ricorrente, la disposizione impugnata determinerebbe «una limitazione evidente di natura non transitoria bensì permanente» dei diritti di uso civico, tra l’altro senza alcuna attinenza con le misure straordinarie ed urgenti per l’economia e l’occupazione connesse all’emergenza epidemiologica e con la natura transitoria della legge reg. Abruzzo n. 9 del 2020.

In particolare, dopo aver ricordato che la materia dei «domini collettivi» ha una molteplice dimensione (personalista, pluralista, comune, solidarista, collettiva, civica, cooperativa, territoriale, frazionale, sussidiaria, storica, giuridica, politica, sociale, comparata, urbanistica, turistica, forestale, archeologica, etnologica, antropologica, culturale), la difesa statale ha osservato che la norma regionale comporta una distorsione dell’istituto così come disciplinato dalla legge 20 novembre 2017, n. 168 (Norme in materia di domini collettivi), il cui art. 1 riconosce i «domini collettivi», comunque denominati, come «ordinamento giuridico primario delle comunità originarie», in attuazione dell’art. 2 Cost., e dunque quale espressione di diritti fondamentali storici di cui la persona gode sia come soggetto singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, dal che deriverebbe anzitutto una «potenziale» violazione del citato parametro costituzionale.

La legge n. 168 del 2017 – ha continuato il ricorrente – oltre a riconoscere la natura dei domini collettivi come ordinamento primario delle comunità originarie, ne detta anche la disciplina: da un lato riconoscendo, agli enti esponenziali delle collettività titolari dei diritti, capacità di autonormazione per l’amministrazione oggettiva e soggettiva, vincolata e discrezionale, nonché capacità di gestione del patrimonio naturale, economico e culturale che fa capo alla base territoriale della proprietà collettiva, considerato come comproprietà intergenerazionale (art. 1, comma 1, lettere b e c); dall’altro lato tutelando i diritti dei cittadini di uso e gestione delle terre di collettivo godimento preesistenti allo Stato italiano (anche nelle forme delle comunioni familiari vigenti nei territori montani), quali diritti caratterizzati dal concorso delle seguenti condizioni: a) avere normalmente, e non eccezionalmente, ad oggetto utilità del fondo consistenti in uno sfruttamento di esso; b) essere riservati ai componenti della comunità, salvo diversa decisione dell’ente collettivo (art. 2, commi 2 e 3).

Si tratterebbe, dunque, di «diritti fondamentali» o meglio di «diritti storici riconosciuti», attribuiti ad ogni persona in quanto membro di una collettività, sicché l’introduzione di un «regime preferenziale» per alcune categorie di utenti a scapito di altre (in contrasto con il principio per cui «ogni civis, in quanto appartenente ad una determinata collettività, è legittimato ed ha il diritto di poter godere dei suddetti diritti») determinerebbe la violazione dell’art. 3 Cost.

Ancora, nell’introdurre «condizioni limitanti del diritto all’uso civico da parte degli utenti non previste dalla normativa statale», la norma regionale violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., norma, quest’ultima, che stabilisce la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «ordinamento civile», materia in cui pacificamente rientrerebbe la disciplina della titolarità e dell’esercizio dei diritti dominicali sulle terre civiche, attualmente contenuta nella legge n. 168 del 2017.

La norma impugnata, infine, nello stabilire che per i titolari del diritto di priorità può essere assicurata una concessione annuale fino a un ettaro di terre civiche ad utilizzazione pascoliva per ogni 0,1 UBA immessa al pascolo (e nel prevedere che il canone annuale per il diritto di uso civico di pascolo non può superare quaranta euro per UBA), porrebbe i beneficiari in posizione di vantaggio concorrenziale rispetto agli altri allevatori (i quali non godrebbero del predetto calmiere sul prezzo del foraggio), così ponendosi in contrasto con gli artt. 101 e 102 TFUE (che fissano il principio della parità di concorrenza tra gli operatori economici) e, per loro tramite, con l’art. 117, primo comma, Cost. (che subordina l’esercizio della potestà legislativa regionale al rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario), nonché, infine, con l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., che pone la «tutela della concorrenza» tra le materie riservate alla potestà legislativa esclusiva statale.

3.– Con atto depositato il 20 luglio 2020, si è costituita in giudizio la Regione Abruzzo, chiedendo una declaratoria di inammissibilità o di infondatezza, sul rilievo che la disposizione non avrebbe previsto limitazioni dei diritti di uso civico come disciplinati dalla legislazione statale, ma, anzi, proprio in funzione di specificare e rafforzare i principi, temporale e spaziale, da questa previsti (che subordinano l’esercizio dei diritti alla normale continuità dello sfruttamento del fondo e all’appartenenza alla comunità: art. 2 della legge n. 168 del 2017), si sarebbe limitata a prevedere criteri di priorità per il conferimento delle terre collettive ad utilizzazione pascoliva, legati alla lunga durata della residenza (almeno decennale) e al collegamento dell’azienda con il territorio comunale o dei Comuni limitrofi.

Il rilievo che la disposizione regionale non incide sul regime delle terre collettive e dei diritti di uso civico (limitandosi a definire criteri di priorità per l’utilizzo delle prime e per l’esercizio dei secondi) escluderebbe, inoltre, secondo la Regione, la possibilità di fare applicazione, nella presente vicenda, dei principi affermati dalla costante giurisprudenza costituzionale in materia di usi civici, poiché tali pronunce avevano ad oggetto norme volte a sottrarre i beni collettivi alla loro destinazione (attraverso l’alienazione, la permuta, la sclassificazione e la sdemanializzazione), incidendo illegittimamente sui principi inderogabili che li governano, consistenti nella inalienabilità, indivisibilità, inusucapibilità, nonché nella perpetuità della loro destinazione silvo-agro-pastorale.

La difesa regionale ha osservato, infine, che la disposizione impugnata, essendo piuttosto diretta a disciplinare l’esercizio delle funzioni amministrative inerenti il conferimento delle terre civiche e il controllo sulla loro gestione, potrebbe essere ricondotta alla competenza residuale regionale in materia di «agricoltura».

Considerato in diritto

1.– Con ricorso depositato il 12 giugno 2020 e iscritto al n. 52 del registro ricorsi 2020, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, tra le altre, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1 c), lettere a), b), c) e d) (recte: art. 9, comma 1, lettera c), della legge della Regione Abruzzo 6 aprile 2020, n. 9 (Misure straordinarie ed urgenti per l’economia e l’occupazione connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), nella parte in cui inserisce il comma 3-bis, lettere a), b), c) e d), all’art. 16 della legge della Regione Abruzzo 3 marzo 1988, n. 25 (Norme in materia di Usi civici e gestione delle terre civiche - Esercizio delle funzioni amministrative), per contrasto con gli artt. 2, 3, 117, commi primo e secondo, lettere e) ed l), della Costituzione, il primo comma in relazione agli artt. 101 e 102 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130.

Con il medesimo ricorso, il Presidente del Consiglio dei ministri ha anche promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 2, commi 3, lettera b), numeri 1), 3), 4) e 5), e 7; 3, commi 2, 3 e 4; 5, comma 11; 9, comma 6, della stessa legge reg. Abruzzo n. 9 del 2020, per contrasto con l’art. 81, terzo comma, Cost.; questioni separate e da definire con distinta decisione.

2.– L’art. 9, comma 1, lettera c), della legge reg. Abruzzo n. 9 del 2020, modificando l’art. 16 della legge reg. Abruzzo n. 25 del 1988, introduce criteri di priorità ai fini della assegnazione delle terre civiche di pascolo da parte dei Comuni e degli enti gestori, prevedendo che esse siano conferite anzitutto agli abitanti del Comune o della frazione che possono vantare i seguenti requisiti: a) iscrizione nel registro dei residenti da almeno dieci anni; b) azienda con presenza zootecnica; c) ricoveri per stabulazione invernale; d) codice di stalla riferito allo stesso territorio comunale o a Comuni limitrofi.

Questi requisiti, ove l’impresa assuma la forma giuridica di società, devono essere posseduti da tutti i soci, se si tratti di società di persone, o almeno da due terzi delle quote, se si tratti di società di capitali.

Ai titolari del diritto di priorità può essere assicurata, compatibilmente con le disponibilità di ogni singolo Comune, una concessione annuale fino a un ettaro di terre civiche ad utilizzazione pascoliva per ogni 0,1 unità di bestiame adulto (d’ora in avanti: UBA) immessa al pascolo; inoltre, il canone annuale per il diritto di uso civico di pascolo non può superare quaranta euro per ognuna delle predette unità.

Solo dopo che sia stata soddisfatta la domanda di concessione ai soggetti aventi diritto di priorità, e solo in caso di eccedenza delle terre pascolive, l’assegnazione è concessa ai residenti dei Comuni limitrofi, poi a quelli della Provincia, successivamente a quelli della Regione, con le medesime procedure di concessione, e infine ad altri soggetti attraverso procedure di evidenza pubblica.

3.– Secondo il ricorrente, l’illustrata norma regionale determinerebbe, in primo luogo, una «potenziale» violazione dell’art. 2 Cost., in quanto, concretando una distorsione dell’istituto di uso civico così come disciplinato dalla legge 20 novembre 2017, n. 168 (Norme in materia di domini collettivi), il cui art. 1 riconosce i domini collettivi, comunque denominati, come ordinamento giuridico primario delle comunità originarie, limiterebbe l’esercizio di un diritto fondamentale storico attribuito alla persona nell’ambito di una formazione sociale in cui si svolge la sua personalità.

In secondo luogo, la norma regionale impugnata violerebbe anche l’art. 3 Cost., poiché, attraverso la predetta distorsione dell’istituto, introdurrebbe indebitamente un «regime preferenziale» per alcune categorie di utenti a scapito di altre o, in altre parole, «condizioni limitanti» a carico di taluni cittadini ed in favore di altri, in funzione dell’esercizio del diritto, non previste dalla normativa statale e in contrasto con il carattere del diritto stesso quale diritto, di uso e gestione delle terre di collettivo godimento, riconosciuto ad ogni civis «in quanto appartenente ad una determinata collettività».

In terzo luogo, la norma impugnata, non limitandosi alla disciplina dell’esercizio delle funzioni amministrative in materia di usi civici, ma spingendosi ad incidere sul regime della titolarità e dell’esercizio dei diritti dominicali sulle terre collettive (area di competenza legislativa esclusiva dello Stato, in quanto rientrante nella materia dell’«ordinamento civile»), si porrebbe altresì in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.

In quarto luogo, infine, ponendo delle condizioni di favore per taluni allevatori a discapito di altri, non solo in funzione dell’assegnazione delle terre civiche ma anche in funzione del pagamento del canone annuale, la norma censurata violerebbe gli artt. 101 e 102 TFUE (che prevedono il principio della parità di concorrenza tra operatori economici), nonché, per loro tramite, l’art. 117, primo comma, Cost. (che subordina l’esercizio della potestà legislativa regionale al rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento eurounitario), e infine, l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., che riserva alla potestà legislativa esclusiva dello Stato la «tutela della concorrenza».

4.– All’esame nel merito delle questioni di legittimità costituzionale giova premettere il quadro normativo di riferimento, soprattutto quanto alla ricognizione dei caratteri del diritto di uso civico e di dominio collettivo.

Attualmente la materia degli assetti fondiari collettivi trova la sua regolamentazione nella legge n. 168 del 2017, la quale ha introdotto nell’ordinamento la nuova figura dei «domini collettivi», senza eliminare la tradizionale categoria degli «usi civici», né abrogarne la fonte normativa (la legge 16 giugno 1927, n. 1766, recante «Conversione in legge del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del R. decreto 28 agosto 1924, n. 1484, che modifica l’art. 26 del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, e del R. decreto 16 maggio 1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall’art. 2 del R. decreto-legge 22 maggio 1924, n. 751» di conversione del regio decreto n. 751 del 1924).

4.1.– Innanzi tutto deve considerarsi che dalla nuova legge – e già per effetto della nuova terminologia nella denominazione dell’istituto – emerge con evidenza il netto cambiamento di prospettiva con cui l’ordinamento statale ha provveduto alla regolamentazione della materia.

Infatti, se la disciplina contenuta nella legge n. 1766 del 1927 era ispirata ad una chiara finalità liquidatoria, che trovava fondamento nella posizione di disfavore con cui il legislatore dell’epoca valutava l’uso promiscuo delle risorse fondiarie e nell’esigenza di trasformare la proprietà collettiva in proprietà individuale, nel quadro del controllo sull’indirizzo delle attività produttive proprio del carattere dirigistico dell’ordinamento corporativo, al contrario la disciplina contenuta nella legge n. 168 del 2017, pur senza abrogare la precedente normativa, risulta orientata alla prevalente esigenza di salvaguardare le numerose forme, molteplici e diverse nelle varie aree territoriali, in cui si realizzano modalità di godimento congiunto e riservato di un bene fondiario da parte dei membri di una comunità, sul presupposto che esse sono funzionali non soltanto alla realizzazione di un interesse privato dei partecipanti, ma anche di interessi superindividuali di carattere generale, connessi con la salvaguardia dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio storico e culturale del Paese.

Ciò costituisce il punto di arrivo di un’evoluzione progressiva nella normativa e nella giurisprudenza.

Il legislatore ha recepito gli orientamenti costantemente espressi da questa Corte, che ha evidenziato la sussistenza di «uno specifico interesse unitario della comunità nazionale alla conservazione degli usi civici» nella misura in cui essa contribuisce alla salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio (sentenza n. 46 del 1995).

Tale interesse è stato sancito, a livello legislativo, soprattutto dall’art. 1 della legge 8 agosto 1985, n. 431 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 27 giugno 1985, n. 312, recante disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale), disposizione poi replicata dall’art. 142, comma 1, lettera h), del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), il quale ha sottoposto a vincolo paesaggistico le «aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici».

La sovrapposizione tra tutela dell’ambiente e tutela del paesaggio, introdotta dalla legge n. 431 del 1985, si riflette in uno specifico interesse unitario della comunità nazionale alla conservazione degli usi civici, in quanto essi concorrono a determinare la forma del territorio su cui si esercitano, intesa quale «prodotto di una “integrazione tra uomo e ambiente naturale”» (sentenza n. 46 del 1995; nello stesso senso, sentenze n. 345 del 1997 e n. 133 del 1993).

Più recentemente questa Corte ha affermato che «[i]l riconoscimento normativo della valenza ambientale dei beni civici ha determinato, da un lato, l’introduzione di vincoli diversi e più penetranti e, dall’altro, la sopravvivenza del principio tradizionale, secondo cui eventuali mutamenti di destinazione – salvo i casi eccezionali di legittimazione delle occupazioni e di alienazione dei beni silvo-pastorali – devono essere compatibili con l’interesse generale della comunità che ne è titolare» (sentenza n. 103 del 2017).

Le istanze di conservazione e valorizzazione delle forme di godimento fondiario collettivo, derivanti dalla loro strumentalità alla salvaguardia di valori e interessi costituzionalmente rilevanti, sono state tradotte dalla nuova legge n. 168 del 2017 in enunciati di principio proclamati nell’art. 2, ove si afferma che la Repubblica tutela e valorizza i beni di collettivo godimento, in quanto: elementi fondamentali per la vita e lo sviluppo delle collettività locali; strumenti primari per assicurare la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale nazionale; componenti stabili del sistema ambientale; basi territoriali di istituzioni storiche di salvaguardia del patrimonio culturale e naturale; strutture eco-paesistiche del paesaggio agro-silvo-pastorale nazionale; fonte di risorse rinnovabili da valorizzare e utilizzare a beneficio delle collettività locali degli aventi diritto.

La consolidata vocazione ambientalista degli usi civici e dei domini collettivi – che, per altro verso, chiama in causa la competenza esclusiva del legislatore statale in materia di «tutela dell’ambiente» e «dell’ecosistema» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. (sentenza n. 103 del 2017), oltre quella in materia di «ordinamento civile» di cui si dirà oltre (ai punti 5 e seguenti) – è ora chiaramente affermata dalla stessa legge n. 168 del 2017, nella parte in cui – nell’enunciare che i domini collettivi sono riconosciuti in attuazione, tra l’altro, dell’art. 9 Cost. (sentenza n. 71 del 2020) – stabilisce che, con l’imposizione del vincolo paesaggistico, l’ordinamento giuridico garantisce l’interesse della collettività generale alla conservazione degli usi civici per contribuire alla salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio ed aggiunge che «[t]ale vincolo è mantenuto sulle terre anche in caso di liquidazione degli usi civici» (art. 3, comma 6).

Inoltre la dichiarata connotazione dei domini collettivi come «comproprietà inter-generazionale» (art. 1, comma 1, lettera c, della legge n. 168 del 2017) mostra una chiara proiezione diacronica affinché l’ambiente e il paesaggio siano garantiti anche alle future generazioni.

4.2.– Dalla legge n. 168 del 2017 emerge la nozione di «dominio collettivo» – termine peraltro non ignoto anche alla legislazione dell’epoca, che vi faceva riferimento nella cosiddetta legge forestale (regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3267, recante «Riordinamento e riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni montani») – come diritto reale, riservato a una comunità, di usare e godere congiuntamente in via individuale o collettiva di un bene fondiario o di un corpo idrico sulla base di una norma preesistente all’ordinamento dello Stato italiano. Nel recente riassetto della materia forestale ritornano le categorie della proprietà collettiva e degli usi civici (art. 10, comma 5, del decreto legislativo 3 aprile 2018, n. 34, recante «Testo unico in materia di foreste e filiere forestali»).

Si tratta di un diritto soggettivo dominicale, che, quale proprietà collettiva, si colloca tra quelle, privata e pubblica, previste dall’art. 42, primo comma, Cost., avente ad oggetto un bene economico riferibile all’ente esponenziale della collettività degli aventi diritto. Esso è connotato da peculiari caratteri, i quali riflettono la sua strumentalità al soddisfacimento non solo dell’interesse privato dei titolari, ma anche di un interesse generale della collettività espressa dall’ente esponenziale, quale formazione sociale intermedia riconducibile all’art. 2 Cost., in attuazione (anche) del quale sono riconosciuti i domini collettivi (art. 1, comma 1, della legge n. 168 del 2017).

Questi caratteri concernono sia i soggetti che ne sono titolari o che ne hanno l’amministrazione, sia l’oggetto, costituito dai beni su cui può essere esercitato il diritto, sia, infine, la situazione giuridica soggettiva attribuita dall’ordinamento per la tutela dell’interesse che lega i soggetti ai beni.

4.2.1.– Con riguardo ai soggetti, occorre distinguere i singoli appartenenti alle collettività, titolari dei diritti di uso civico e della proprietà collettiva, dagli enti esponenziali di tali collettività.

Già prima dell’entrata in vigore della nuova legge, si riteneva che titolari del diritto fossero i singoli appartenenti ad una determinata collettività (uti singuli e uti cives) ai quali, in base all’art. 3 della legge n. 1766 del 1927, si riconosceva, per un verso, la legittimazione ad esperire, dinanzi al Commissario per la liquidazione degli usi civici, l’azione diretta ad ottenerne il riconoscimento, per altro verso la legittimazione ad intervenire nei giudizi di accertamento vertenti tra altre persone. Se da una parte la titolarità sostanziale del diritto di uso civico veniva ricondotta all’aggregato degli utenti, dall’altra si riconoscevano poteri strumentali di amministrazione, gestione, disposizione e tutela all’ente esponenziale degli interessi di quell’aggregato (Comune o associazione degli utenti); poteri esercitati dai Comuni e, in caso di esistenza di frazioni con un demanio proprio, dalle amministrazioni separate dei Comuni, che convivevano con forme associative di diritto privato di origine consuetudinaria, quali le comunioni familiari dei territori montani.

La legge n. 168 del 2017 ha confermato questo assetto quanto alla individuazione dei soggetti titolari del diritto: questi vanno sempre identificati nei singoli soggetti che fanno parte di una determinata collettività, l’appartenenza alla quale dipende dalle regole consuetudinarie che la disciplinano e che variano secondo le diverse realtà territoriali.

La progressiva evoluzione da una prospettiva meramente liquidatoria a quella mirata soprattutto alla conservazione e valorizzazione degli usi civici e dei domini collettivi ha indotto il legislatore del 2017 ad introdurre significative innovazioni in ordine al riconoscimento giuridico, alla natura e ai poteri degli enti esponenziali, cui è affidata l’amministrazione dei beni di proprietà collettiva.

Tali enti hanno personalità giuridica di diritto privato ed autonomia statutaria (art. 1, comma 2) e danno vita, quanto alla regolamentazione dei domini collettivi, ad un «ordinamento giuridico primario delle comunità originarie», soggetto alla Costituzione (art. 1, comma 1).

Ad essi sono attribuiti poteri autonomi nella definizione delle modalità di uso congiunto dei beni da parte dei membri della collettività, attraverso il riconoscimento della capacità di autonormazione (art. 1, comma 1, lettera b), che implica la possibilità di regolare autonomamente l’uso del bene con il limite del rispetto della Costituzione e delle regole consuetudinarie al fine della conservazione dell’assetto giuridico tradizionale del territorio e, dunque, della continuità del dominio collettivo, così come configurato ab immemorabile (art. 3, comma 5).

Alla capacità di autonormazione si affianca quella di gestione economica (art. 1, comma 1, lettera c), la quale deve tenere conto della qualificazione del patrimonio naturale, economico e culturale oggetto di gestione come «comproprietà inter-generazionale», cui conseguono limiti più penetranti di quelli derivanti dal regime giuridico di inalienabilità e indivisibilità dei beni, non potendo privarsi le generazioni future di una pari opportunità di utilizzo del bene.

Inoltre – diversamente dalla precedente normativa (la quale indicava nei Comuni i principali enti amministratori dei diritti di uso civico) – la nuova legge attribuisce ai Comuni stessi un ruolo sussidiario, stabilendo che essi provvedano, con amministrazione separata, alla gestione dei predetti beni, solo in mancanza degli enti esponenziali delle collettività titolari e riconoscendo alle popolazioni interessate la facoltà di costituire i comitati per l’amministrazione separata dei beni di uso civico frazionali (art. 2, comma 4). La figura associativa in domini collettivi diventa forma privilegiata rispetto alle gestioni comunale e frazionale.

Del resto la stessa legge n. 168 del 2017 fa menzione espressa delle comunioni familiari montane già riconosciute dalle leggi sulla montagna, per affermare che esse «continuano a godere e ad amministrare i loro beni in conformità dei rispettivi statuti e consuetudini» (art. 2, comma 2, secondo periodo), non diversamente da altre forme associative volte alla gestione dei beni di collettivo godimento preesistenti all’ordinamento dello Stato.

4.2.2.– Con riguardo poi all’oggetto del rapporto giuridico di proprietà collettiva, deve rilevarsi che il regime dei beni gravati da usi civici (ora oggetto di domini collettivi) non è mutato nella sostanza. Esso è improntato ai principi della intrasferibilità (sia inter vivos che mortis causa), inusucapibilità, imprescrittibilità e indivisibilità.

La regola generale, desumibile dalla legge n. 1766 del 1927, rimane quella per cui un bene gravato da uso civico non può essere oggetto di alienazione o di liquidazione al di fuori delle ipotesi tassative contemplate dalla legge stessa e dal regolamento dettato per la sua esecuzione (regio decreto 26 febbraio 1928, n. 332, recante «Approvazione del regolamento per la esecuzione della legge 16 giugno 1927, n. 1766, sul riordinamento degli usi civici nel Regno»). Questa Corte ha affermato che «la destinazione di beni civici può essere variata solo nel rispetto della vocazione dei beni e dell’interesse generale della collettività» (sentenza n. 103 del 2017).

Tale regola non ha subìto modifiche a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 168 del 2017, la quale espressamente prevede che il regime giuridico dei beni collettivi «resta quello dell’inalienabilità, dell’indivisibilità, dell’inusucapibilità e della perpetua destinazione agro-silvo-pastorale» (art. 3, comma 3).

Il regime è stato reso, anzi, ancor più rigido dalla disposizione secondo cui «[c]on l’imposizione del vincolo paesaggistico sulle zone gravate da usi civici di cui all’articolo 142, comma 1, lettera h), del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, l’ordinamento giuridico garantisce l’interesse della collettività generale alla conservazione degli usi civici per contribuire alla salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio» (art. 3, comma 6).

4.2.3.– Quanto infine alla situazione giuridica soggettiva attribuita dall’ordinamento per tutelare l’interesse dei singoli membri della collettività all’uso promiscuo dei beni collettivi, è stato più volte evidenziato da questa Corte (sentenze n. 113 del 2018, n. 430 del 1990 e n. 391 del 1989) che ad essa, conformemente al pacifico e consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, deve riconoscersi la natura di diritto soggettivo dominicale, presentando le caratteristiche tipiche del diritto di proprietà, quali, in particolare, la “realità” (si tratta di un potere immediato e diretto sulla res), l’“assolutezza” (il diritto può essere fatto valere erga omnes) e l’“inerenza” (il diritto grava direttamente sul bene).

Sotto il profilo della struttura di tali situazioni soggettive, il diritto di proprietà collettiva implica una situazione giuridica di godimento preesistente allo Stato italiano, esercitata con caratteri di normalità e non di eccezionalità, avente ad oggetto lo sfruttamento di un fondo (art. 2, commi 2 e 3, lettera a, della legge n. 168 del 2017) e connotato dal carattere “congiunto” e “riservato” dell’uso.

Da una parte i membri di una certa collettività «insieme esercitano più o meno estesi diritti di godimento, individualmente o collettivamente, su terreni che il comune amministra o la comunità da esso distinta ha in proprietà pubblica o collettiva» (art. 1, comma 1, lettera d, della legge n. 168 del 2017). Tale carattere congiunto dell’uso sta a significare che i terreni sono aperti al godimento promiscuo di tutti gli appartenenti alla collettività, come del resto era già previsto dall’art. 26 della legge n. 1766 del 1927 con riguardo ai terreni dei demani civici. Sicché, in ragione di ciò, la proprietà collettiva si qualifica come comunione senza quote, in quanto, a differenza della comunione ordinaria, per un verso, il diritto di ogni comunista non è limitato ad una frazione o quota del bene comune; per altro verso, l’uso degli altri comunisti non trova limite nella quota o frazione di ciascuno.

D’altra parte l’uso “riservato” consiste in ciò che, «salvo diversa decisione dell’ente collettivo», la comunità ha diritto di escludere dal godimento promiscuo coloro che non ne fanno parte (art. 2, comma 3, lettera b, della legge n. 168 del 2017). Il carattere riservato dell’uso costituisce un riflesso nella natura reale del diritto che può essere rivendicato erga omnes tanto dai singoli che dalla comunità.

5.– Tutto ciò premesso quanto ai caratteri strutturali e funzionali degli usi civici e dei domini collettivi, possono ora essere delibate nel merito le questioni di legittimità costituzionale promosse dal Governo nei confronti dell’art. 9, comma 1, lettera c), della legge reg. Abruzzo n. 9 del 2020, nella parte in cui inserisce il comma 3-bis, lettere a), b), c) e d), all’art. 16 della legge reg. Abruzzo n. 25 del 1988.

6.– Sotto il profilo della denunciata lesione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., la questione è fondata.

7.– Si è già evidenziato che gli usi civici e ora i domini collettivi configurano, secondo il costante orientamento della giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 71 del 2020, n. 178 e n. 113 del 2018 e n. 103 del 2017), un diritto soggettivo dominicale, che presenta i caratteri della proprietà comune, sia pure senza quote, su un bene indiviso. Si tratta, dunque, di un diritto reale, che segue il bene, tutelabile con azione petitoria, e che presenta i caratteri propri dei diritti reali quali, in particolare, l’assolutezza, l’immediatezza e l’inerenza.

La natura di diritto dominicale attrae la disciplina dell’istituto nella materia «ordinamento civile», alla quale appartiene la qualificazione della natura pubblica o privata dei beni (sentenza n. 228 del 2016), la regolazione della titolarità e dell’esercizio del diritto, l’individuazione del suo contenuto, la disciplina delle facoltà di godimento e di disposizione in cui esso si estrinseca (art. 832 del codice civile) e quella della loro estensione e dei loro limiti.

L’attribuzione alla potestà legislativa esclusiva dello Stato della materia «ordinamento civile» trova fondamento nell’esigenza, sottesa al principio di uguaglianza, di garantire nel territorio nazionale l’uniformità della disciplina dettata per i rapporti tra privati (da ultimo, sentenza n. 75 del 2021).

La norma regionale impugnata lede questa esigenza perché interviene nella disciplina della proprietà collettiva, peraltro in modo difforme da quanto previsto dalle norme statali in materia, così pregiudicando la necessaria uniformità della regolamentazione dell’istituto su tutto il territorio nazionale.

Essa, infatti, attribuisce un diritto di priorità ai fini dell’assegnazione dei terreni gravati dall’uso civico di pascolo a favore dei titolari di aziende che presentano specifici requisiti (concernenti la durata temporale della residenza nel territorio comunale, la presenza in azienda di un patrimonio zootecnico, il possesso di ricoveri per stabulazione invernale del bestiame e un codice di stalla riferito al territorio comunale o a Comuni limitrofi) e prevede che, solo in caso di eccedenza, i predetti terreni potranno essere assegnati a coloro che non possono vantare i requisiti medesimi.

Così disponendo, la norma afferisce alla titolarità del diritto dominicale di uso civico, incidendo segnatamente sul suo esercizio per il fatto di escludere indebitamente dal godimento promiscuo alcuni membri della collettività territoriale.

La norma regionale impugnata si pone, quindi, in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. e con la disciplina statale interposta, la quale già stabiliva, con riguardo ai terreni costituenti il demanio civico, che essi, salvo il «diritto particolare» eventualmente assicurato a specifiche categorie di persone per effetto di leggi anteriori, dovevano essere aperti all’uso promiscuo di tutti i cittadini del Comune o della frazione (art. 26, primo comma, della legge n. 1766 del 1927) e stabilisce ora, con riguardo ai domini collettivi, che essi sono nell’uso congiunto e riservato di tutti i membri della collettività, uso che trova la sua disciplina nei poteri di autonormazione espletati nell’ambito dell’ordinamento giuridico primario del dominio collettivo delle comunità originarie. Titolari dei diritti di uso civico e della proprietà collettiva sono – come già sopra rilevato – gli appartenenti alle collettività alle quali si riferiscono i relativi enti esponenziali, dotati di personalità giuridica di diritto privato ed autonomia statutaria.

A tali enti – dopo il periodo transitorio di un anno, di cui all’art. 3, comma 7, della stessa legge n. 168 del 2017 – sono attribuite le competenze per la gestione di beni agro-silvo-pastorali già in precedenza delegate alle Regioni (art. 3, comma 1, lettera b, numeri 1, 2, 3 e 4, della legge 31 gennaio 1994, n. 97, recante «Nuove disposizioni per le zone montane»). Solo in mancanza di tali enti i predetti beni sono gestiti dai Comuni con amministrazione separata, ferma restando la facoltà delle popolazioni interessate di costituire i comitati per l’amministrazione dei beni di uso civico frazionali.

8.– Più specificamente, nella fattispecie in esame, la regolamentazione dell’estensione del godimento promiscuo dei diritti di uso civico e dei domini collettivi, nonché delle modalità individuali o collettive del loro esercizio, non ricade quindi nella competenza del legislatore regionale.

Destituito di fondamento è, in particolare, l’assunto della difesa resistente secondo cui non potrebbero essere estesi, alla presente fattispecie, i principi affermati da questa Corte nelle pronunce con cui sono state dichiarate costituzionalmente illegittime le diverse norme regionali che prevedevano la “sdemanializzazione” dei beni gravati da usi civici al di fuori delle ipotesi contemplate dalla legge statale e in contrasto con le previsioni di questa.

È vero, infatti che, diversamente da altre norme regionali, di cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale per contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera l) (sentenze n. 71 del 2020 e n. 113 del 2018) o lettera s) (sentenze n. 178 del 2018, n. 103 del 2017 e n. 210 del 2014), Cost., la disposizione oggetto dell’odierna impugnativa non introduce alcuna fattispecie estintiva dei diritti di uso civico e della proprietà collettiva, ma incide, piuttosto, sull’esercizio del diritto di proprietà collettiva da parte dei soggetti che ne sono titolari.

Vi è però che, attraverso l’attribuzione dell’illustrato diritto di priorità, la norma regionale viola in modo non meno incisivo il parametro costituzionale evocato dal ricorrente, dal momento che la competenza esclusiva statale in materia di «ordinamento civile» – oltre a non consentire al legislatore regionale di incidere sul regime giuridico dei beni oggetto di un diritto dominicale – preclude, prima ancora, allo stesso, di intervenire sulla titolarità e sull’esercizio di quel diritto, regolandone il contenuto e i limiti.

Le norme regionali oggetto delle precedenti declaratorie di illegittimità costituzionale incidevano sulla titolarità e sull’esercizio del diritto di uso civico attraverso la modificazione del regime giuridico dei beni che ne formavano oggetto con l’indebita previsione di ipotesi di alienazione o comunque di mutamento di destinazione dei beni civici, diverse da quelle previste con legge statale. Al riguardo, sia la sentenza n. 113 del 2018 sia la sentenza n. 71 del 2020 avevano evidenziato che l’indebita invasione della competenza statale si realizzava nel momento in cui, attraverso la modifica del regime giuridico dei beni, si determinava, come conseguenza, una disciplina differenziata e limitativa (rispetto a quella statale) della titolarità e dell’esercizio del diritto di proprietà collettiva.

Anche nella presente fattispecie, la norma impugnata incide in modo non meno diretto sulla disciplina della titolarità e dell’esercizio del diritto (privandone i membri della collettività territoriale che non sono in possesso dei requisiti da essa previsti) nella misura in cui limita i predetti membri nella concreta facoltà di godimento dei terreni collettivi, che potrà dispiegarsi solo dopo essere state soddisfatte le richieste di coloro ai quali è attribuito (dalla norma censurata) il diritto di priorità e solo in caso di eccedenza dei detti terreni.

L’invasione della disciplina riservata alla competenza legislativa dello Stato emerge proprio in ragione della diretta limitazione del diritto di uso civico della collettività, operata dalla norma impugnata mediante il conferimento del contrario diritto di priorità d’uso a determinati soggetti a scapito di altri.

Questa limitazione si realizzerebbe non solo nell’ipotesi in cui le risorse pascolive risultassero limitate, ma anche nella (pur auspicabile) ipotesi di eccedenza dei terreni. Anche in questa ipotesi, infatti, resterebbe comunque preclusa la possibilità alla collettività complessivamente considerata e ai suoi membri (uti singuli e uti cives) di sfruttare quelle parti del fondo pascolivo concesso in uso esclusivo ai titolari del diritto di priorità indebitamente attribuito dalla legge regionale, in violazione della regola consuetudinaria recepita dalla normativa statale interposta, che configura le terre civiche quale patrimonio indiviso assoggettato al godimento promiscuo di tutti i componenti della comunità.

Ciò non esclude che un’utilizzazione modulare dei terrenti pascolivi, su cui insistono diritti di uso civico e di proprietà collettiva, possa essere prevista e regolamentata dagli enti esponenziali, di cui si è sopra detto (in particolare sub punto 4.2.1.), o, in loro mancanza, dai Comuni in regime di amministrazione separata, nei limiti di compatibilità con la vocazione di tali assetti fondiari al godimento collettivo da parte delle comunità originarie.

9.– In definitiva – come questa Corte ha già osservato (sentenza n. 113 del 2018) – sia prima che dopo la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, operata con legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), il regime civilistico dei beni civici non è mai passato nella sfera di competenza delle Regioni e i decreti del Presidente della Repubblica con cui sono state trasferite, a queste ultime, le funzioni amministrative (il d.P.R. 15 gennaio 1972, n. 11, recante «Trasferimento alle Regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative statali in materia di agricoltura e foreste, di caccia e di pesca nelle acque interne e dei relativi personali ed uffici» e il d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, recante «Attuazione della delega di cui all’art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382»), non consentivano nel vigore del vecchio Titolo V (né consentono oggi, nel mutato assetto costituzionale) alle Regioni di invadere, con norma legislativa, la disciplina di tali assetti fondiari collettivi, estinguendoli, modificandoli o alienandoli.

Il previgente art. 117 Cost. – nella versione antecedente alla citata riforma costituzionale – non consentiva alle Regioni, nella materia «agricoltura e foreste», di dettare con legge la disciplina della titolarità e dell’esercizio di diritti dominicali sulle terre civiche, dall’altro lato giustificava, tuttavia, il trasferimento ad esse delle funzioni amministrative (art. 118 Cost., vecchio testo), nonché l’inserimento degli usi civici nei relativi statuti (sentenza n. 113 del 2018).

In tale contesto costituzionale, pertanto, non solo trovava fondamento l’ampio trasferimento alle Regioni delle funzioni amministrative già esercitate da organi dello Stato, ivi comprese le competenze attribuite al Commissario per la liquidazione degli usi civici dalla legge n. 1766 del 1927 (art. 66, quinto comma, del d.P.R. n. 616 del 1977), ma si spiegava anche la tendenza delle Regioni a regolare con proprie leggi l’esercizio di tali funzioni amministrative, pur restando esclusa la possibilità di incidere sulla titolarità soggettiva e sul contenuto oggettivo del diritto dominicale, nonché sul regime giuridico dei beni.

Nel contesto del riformato Titolo V della Parte II della Costituzione, coniugato alla progressiva evoluzione degli assetti fondiari collettivi, di cui si è detto sopra, la disciplina di questi ultimi appartiene ormai interamente alla materia «ordinamento civile» ed è tutta ricompresa nell’area della potestà legislativa esclusiva dello Stato.

Del resto la stessa legge n. 168 del 2017 prevede, con norma di carattere transitorio (art. 3, comma 7), che, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della legge medesima, le Regioni esercitano le competenze ad esse attribuite nella disciplina delle organizzazioni montane, anche unite in comunanze, comunque denominate, ivi incluse le comunioni familiari montane. Decorso tale termine, ai relativi adempimenti provvedono con atti propri gli enti esponenziali delle collettività titolari, ciascuno per il proprio territorio di competenza.

10.– Pertanto, l’art. 9, comma 1, lettera c), della legge reg. Abruzzo n. 9 del 2020, nella parte in cui inserisce il comma 3-bis all’art. 16 della legge reg. Abruzzo n. 25 del 1988, va dichiarato costituzionalmente illegittimo per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., con assorbimento di tutti gli altri parametri.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riservata a separata pronuncia la decisione delle ulteriori questioni di legittimità costituzionale promosse con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, lettera c), della legge della Regione Abruzzo 6 aprile 2020, n. 9 (Misure straordinarie ed urgenti per l’economia e l’occupazione connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), nella parte in cui inserisce il comma 3-bis, lettere a), b), c) e d), all’art. 16 della legge della Regione Abruzzo 3 marzo 1988, n. 25, recante «Norme in materia di Usi civici e gestione delle terre civiche - Esercizio delle funzioni amministrative»

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 ottobre 2021.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Giovanni AMOROSO, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 2 dicembre 2021.