Ordinanza n. 136 del 2021

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ORDINANZA N. 136

ANNO 2021

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente:

Giancarlo CORAGGIO

Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 649 del codice di procedura penale promossi dalla Corte d’appello di Bologna, sezione prima penale, con due ordinanze del 30 marzo e del 3 giugno 2020, iscritte, rispettivamente, ai numeri 121 e 164 del registro ordinanze 2020 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, numeri 39 e 49, prima serie speciale, dell’anno 2020.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 9 giugno 2021 il Giudice relatore Francesco Viganò;

deliberato nella camera di consiglio del 10 giugno 2021.

Ritenuto che con ordinanza del 30 marzo 2020 (r. o. n. 121 del 2020), la Corte d’appello di Bologna, sezione prima penale, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non preclude un nuovo giudizio nel caso in cui il medesimo soggetto sia già stato giudicato per il medesimo fatto in un procedimento amministrativo conclusosi con una sanzione amministrativa irrevocabile, da considerarsi sostanzialmente penale alla luce dei criteri fissati dalla giurisprudenza CEDU», denunciandone il contrasto con l’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU);

che il rimettente è investito dell’appello proposto avverso la sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Ravenna, che il 28 marzo 2018 ha condannato G. G. – già destinatario di una sanzione amministrativa irrevocabile – alla pena sospesa di otto mesi e dieci giorni di reclusione, in relazione al delitto di cui agli artt. 81 del codice penale e 2 (rubricato «Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti») del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), per avere indicato nelle proprie dichiarazioni elementi passivi fittizi, avvalendosi di fatture per operazioni inesistenti, al fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto (IVA) delle annualità 2011 e 2012;

che il rimettente ritiene che nel caso sottoposto al suo esame sussista una violazione del principio del ne bis in idem sancito dall’art. 4 Prot. n. 7 CEDU;

che, infatti, la sanzione amministrativa inflitta a G. G. avrebbe natura punitiva secondo i “criteri Engel”, poiché «sicuramente rilevante e afflittiva» e suscettibile di produrre «un indubbio effetto deterrente», considerato che all’interessato, «a fronte di importi indetraibili pari a euro 15.433,80 per il 2011 e 3.780 per l’anno successivo», è stato ingiunto di versare, oltre all’ammontare delle imposte non pagate, l’ulteriore somma di 14.726,18 euro;

che non sarebbero rispettati i criteri cui la Corte europea dei diritti dell’uomo, nella sentenza 15 novembre 2016, A e B contro Norvegia, ha condizionato la conformità all’art. 4 Prot. n. 7 CEDU del cumulo di procedimenti e sanzioni, rispettivamente amministrativi e penali, in materia tributaria;

che, in particolare, i procedimenti penale e amministrativo avrebbero identico oggetto e sarebbero stati instaurati nei confronti del medesimo soggetto, senza alcun coordinamento sul piano probatorio (essendo il processo verbale di contestazione redatto in sede amministrativa non integralmente utilizzabile in sede penale) e in difetto di sufficiente connessione temporale (essendosi i due procedimenti svolti in parallelo nel solo lasso di tempo tra il dicembre 2015 e il gennaio 2016), a fronte di una sanzione amministrativa già adeguatamente punitiva, «attesa l’entità significativa della stessa in rapporto alla concreta lesione cagionata al Fisco»;

che in una situazione siffatta non potrebbe che ravvisarsi la violazione della garanzia convenzionale del ne bis in idem, così come ricostruita dalla più recente giurisprudenza della Corte EDU (sono citate le sentenze 16 aprile 2019, Bjarni Ármannsson contro Islanda e 6 giugno 2019, Nodet contro Francia);

che l’ordinamento non offrirebbe alcun rimedio alla denunciata duplicazione procedimentale e sanzionatoria, perché l’art. 649 cod. proc. pen. – che vieta la sottoposizione dell’imputato, prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili, a nuovo procedimento penale per il medesimo fatto – non annovera il provvedimento amministrativo irrevocabile tra quelli ostativi alla celebrazione del giudizio penale;

che l’art. 649 cod. proc. pen. sarebbe dunque contrario all’art. 4 Prot. n. 7 CEDU e – conseguentemente – all’art. 117, primo comma, Cost., nei termini sopra indicati;

che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata inammissibile o infondata;

che, infatti, il giudice a quo non avrebbe indicato quale sia la sanzione amministrativa concretamente irrogata a G. G., sicché non sarebbe possibile verificare l’effettiva «medesimezza» del fatto punito dalla norma amministrativa e da quella penale e, dunque, la sussistenza del presupposto di applicabilità della garanzia del ne bis in idem;

che la questione sarebbe inammissibile anche in ragione dell’insufficiente motivazione sulla rilevanza, avendo il rimettente solo assertivamente affermato l’insussistenza, nel caso di specie, dei presupposti di compatibilità del doppio binario sanzionatorio con l’art. 4 Prot. n. 7 CEDU, laddove questa Corte, nella sentenza n. 222 del 2019 e nell’ordinanza n. 114 del 2020, ha sottolineato la necessità di puntuale dimostrazione della violazione di tutti i criteri enunciati dalla giurisprudenza europea e osservato come, nell’ordinamento italiano, il coordinamento tra procedimento amministrativo e procedimento penale in materia tributaria sia assicurato da plurime disposizioni normative, interne ed esterne al d.lgs. n. 74 del 2000;

che, a fronte dei plurimi meccanismi di collegamento tra procedimento amministrativo e penale esistenti nell’ordinamento e dell’attuale conformazione del ne bis in idem europeo, sarebbe spettato al giudice a quo valutare la proporzionalità della complessiva risposta sanzionatoria all’illecito commesso da G. G., «utilizzando tutti gli strumenti e i criteri valutativi a sua disposizione (art. 21 del d.lgs. 74/2000 oppure applicazione di circostanze attenuanti tali da ridurre la sanzione penale anche sotto il minimo edittale)», senza alcuna necessità di intervento sull’art. 649 cod. proc. pen;

che, con ordinanza del 3 giugno 2020 (r. o. n. 164 del 2020), la Corte d’appello di Bologna, sezione prima penale, ha sollevato un’ulteriore questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 cod. proc. pen., censurandolo negli stessi termini di cui all’ordinanza iscritta al n. 121 del r. o. 2020;

che il giudice a quo è investito dell’appello avverso la sentenza del Tribunale ordinario di Parma, che, il 17 aprile 2017, ha condannato A.P. F. alla pena di due anni e otto mesi di reclusione, in relazione al delitto di cui agli artt. 81 cod. pen. e 4 (rubricato «Dichiarazione infedele») del d.lgs. n. 74 del 2000, per avere indicato nelle dichiarazioni annuali d’imposta relative al 2010 e 2011 elementi passivi fittizi, al fine di evadere l’IVA e l’IRPEF, con evasione superiore alle soglie di punibilità previste da tale fattispecie di reato;

che, in relazione ai medesimi fatti, ad A.P. F. sono già state inflitte sanzioni amministrative, ai sensi degli artt. 1 e 5 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471 (Riforma delle sanzioni tributarie non penali in materia di imposte dirette, di imposta sul valore aggiunto e di riscossione dei tributi, a norma dell’articolo 3, comma 133, lettera q, della legge 23 dicembre 1996, n. 662), di importo pari a 6.642.921,70 euro per l’anno 2010 e 4.785.664,50 per l’anno 2011, in aggiunta al pagamento delle imposte evase;

che anche in questo caso si sarebbe verificata una violazione del principio del ne bis in idem di cui all’art. 4 Prot. n. 7 CEDU, così come ricostruito nelle sentenze della Corte EDU A e B contro Norvegia, Bjarni Ármannsson contro Islanda e Nodet contro Francia, essendo stato A.P. F. già destinatario di sanzioni amministrative da qualificarsi come punitive secondo i “criteri Engel”, alla luce dell’importo elevatissimo e in ogni caso superiore a quello delle imposte evase e della finalità non meramente restitutoria, ma repressiva e preventiva (è citata la sentenza della Corte EDU 27 novembre 2014, Lucky Dev contro Svezia);

che le sanzioni amministrative dovrebbero ritenersi definitive, essendo stati gli avvisi di accertamento notificati, in data 4 luglio 2014, al curatore del fallimento di A.P. F. (dichiarato il 19 dicembre 2013), che non li ha impugnati nel termine di sessanta giorni, con successiva insinuazione di Equitalia al passivo del fallimento medesimo;

che a produrre l’effetto di definitività delle sanzioni amministrative sarebbe sufficiente la notifica degli avvisi di accertamento al curatore (è citata Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 6 giugno 2014, n. 12789), non rilevando la mancata notifica ad A.P. F.;

che il giudice di prime cure non avrebbe tenuto conto dell’avvenuta inflizione di tali sanzioni amministrative nella commisurazione della pena, sicché il trattamento sanzionatorio complessivo risulterebbe sproporzionato in relazione alle condotte poste in essere da A.P. F.;

che pur non essendovi stata duplicazione sul piano probatorio – essendo l’affermazione di responsabilità penale dell’imputato fondata sugli stessi elementi già valutati nel procedimento amministrativo – sarebbe mancato il coordinamento temporale tra i procedimenti amministrativo e penale, avendo il secondo preso avvio il 31 ottobre 2014, quasi due mesi dopo la conclusione del primo (il 4 settembre 2014, sessanta giorni dopo la notifica degli avvisi di accertamento al curatore fallimentare);

che, pur a fronte di una conclamata violazione dell’art. 4 Prot. n. 7 CEDU, non sarebbe praticabile un’interpretazione adeguatrice del disposto dell’art. 649 cod. proc. pen., sicché si imporrebbe il promovimento dell’incidente di costituzionalità, secondo le indicazioni ricavabili dalla sentenza n. 43 del 2018 di questa Corte;

che anche in questo giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata inammissibile, oppure manifestamente infondata o infondata;

che il rimettente avrebbe offerto una ricostruzione parziale e insufficiente del quadro giurisprudenziale di riferimento, omettendo di confrontarsi sia con la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 20 marzo 2018, in causa C-524/15, Menci, sia con la sentenza n. 222 del 2019 di questa Corte;

che l’ordinanza di rimessione sarebbe affetta – quanto alla ricognizione del quadro normativo vigente e dei meccanismi di raccordo tra procedimento amministrativo e procedimento penale che esso appronta – dalle medesime lacune argomentative che hanno determinato la declaratoria di inammissibilità della questione esaminata da questa Corte nella sentenza n. 222 del 2019, sicché non potrebbe che seguire la medesima sorte;

che il rimettente avrebbe omesso di indagare le ragioni della durata del procedimento penale, che ben potrebbe essere riconducibile a richieste di differimento avanzate dallo stesso imputato, né avrebbe valutato la possibilità di mitigare la pena irrogata dal giudice di primo grado alla luce delle sanzioni amministrative già inflitte ad A.P. F., così omettendo di fornire un’adeguata motivazione quanto all’asserita sproporzione del complessivo trattamento sanzionatorio;

che in ogni caso, alla luce del quadro normativo vigente, sarebbero meramente assertive e infondate le doglianze del giudice a quo circa l’assenza di meccanismi di raccordo tra procedimento amministrativo e procedimento penale;

che, a fronte di un’evasione delle imposte del valore di diversi milioni di euro, non potrebbe considerarsi sproporzionata l’irrogazione cumulativa, nei confronti di A.P. F., di sanzioni amministrative pari al 100 per cento delle imposte evase e della pena della reclusione, che – se contenuta nel minimo edittale – potrebbe essere soggetta a sospensione condizionale.

Considerato che con due ordinanze, rispettivamente del 30 marzo e del 3 giugno 2020 (iscritte al n. 121 e al n. 164 del r. o. 2020), la Corte d’appello di Bologna, sezione prima penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 649 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non preclude un nuovo giudizio nel caso in cui il medesimo soggetto sia già stato giudicato per il medesimo fatto in un procedimento amministrativo conclusosi con una sanzione amministrativa irrevocabile, da considerarsi sostanzialmente penale alla luce dei criteri fissati dalla giurisprudenza CEDU» (così l’ordinanza n. 121 indicata, e in termini sostanzialmente identici anche l’ordinanza n. 164, parimenti indicata), denunciandone il contrasto con l’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU);

che le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche, concernenti la medesima disposizione, sicché i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione;

che la questione sollevata dall’ordinanza n. 121 del r. o. 2020 è manifestamente inammissibile, non avendo il rimettente richiamato né descritto le previsioni normative in forza delle quali a G. G. è stata irrogata la sanzione amministrativa dell’importo di 14.726,18 euro, che il giudice a quo ritiene punisca già sufficientemente la condotta posta in essere dall’imputato;

che, «per costante giurisprudenza costituzionale, l’omessa o insufficiente descrizione della fattispecie oggetto del giudizio a quo – non emendabile mediante la diretta lettura degli atti, preclusa dal principio di autosufficienza dell’ordinanza di rimessione (ex plurimis, ordinanze n. 64 del 2019 e n. 185 del 2013) – determina l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale, in quanto impedisce di verificare la sua effettiva rilevanza (da ultimo, ex plurimis, ordinanze n. 108 del 2020, n. 203 e n. 64 del 2019, n. 191 e n. 64 del 2018, n. 210 del 2017)» (ordinanza n. 147 del 2020);

che, nel caso di specie, l’insufficiente descrizione della fattispecie impedisce di verificare l’effettiva “medesimezza” del fatto punito dalla norma amministrativa e da quella penale, e di svolgere qualsiasi considerazione circa l’identità o complementarietà degli scopi perseguiti dalle due previsioni sanzionatorie;

che non è pertanto possibile verificare i presupposti di applicabilità della garanzia del ne bis in idem di cui all’art. 4 Prot. n. 7 CEDU, e, dunque, acclarare se il rimettente debba fare applicazione del censurato art. 649 cod. proc. pen., sicché risulta indimostrata la rilevanza della questione, con conseguente sua manifesta inammissibilità;

che la questione sollevata dall’ordinanza n. 164 del r. o. 2020 è parimenti manifestamente inammissibile;

che il rimettente muove dal presupposto interpretativo che le sanzioni amministrative irrogate ad A.P. F. siano definitive (condizione per l’applicabilità del divieto di bis in idem), ritenendo sufficiente, a tal fine, l’avvenuta notifica degli avvisi di accertamento al curatore del fallimento di A.P. F., che non li ha impugnati;

che, nel delineare tale presupposto interpretativo, il giudice a quo richiama una pronuncia di legittimità (Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 6 giugno 2014, n. 12789) relativa al diverso tema dell’opponibilità al fallimento dell’avviso di accertamento notificato personalmente al solo fallito (e non al curatore fallimentare), ma omette di confrontarsi con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui, ove l’atto impositivo inerente a crediti tributari i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente o nel periodo d’imposta in cui tale dichiarazione è intervenuta venga notificato al solo curatore, il contribuente fallito, restando esposto ai riflessi, anche sanzionatori, conseguenti alla definitività dell’atto impositivo, è eccezionalmente abilitato a impugnarlo in caso di inerzia degli organi della procedura fallimentare (Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 16 ottobre 2019, n. 26127; sezione quinta civile, sentenze 29 marzo 2017, n. 8034 e 11 maggio 2017, n. 11618), con la conseguenza che, in difetto di impugnazione da parte della curatela, la pretesa tributaria è inefficace nei confronti del fallito e l’atto impositivo non diventa definitivo (Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenze 18 marzo 2016, n. 5392 e 19 marzo 2007, n. 6476);

che, in disparte tale profilo, la questione è comunque manifestamente inammissibile per insufficiente motivazione in ordine alla rilevanza;

che, invero, nella sentenza n. 222 del 2019 – con cui il rimettente non si confronta – questa Corte ha giudicato inammissibile una questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 cod. proc. pen. per contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 4 Prot. n. 7 CEDU (e implicitamente all’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), ritenendo che l’allora giudice rimettente non avesse dimostrato la non conformità della disciplina censurata a tutti i criteri enunciati dalla giurisprudenza europea;

che, nel caso di specie, il rimettente si limita ad affermare che le sanzioni amministrative inflitte ad A.P. F. sono di natura punitiva, che non sono state considerate in sede di commisurazione della pena per il delitto di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000 nel giudizio di primo grado, e che è mancato un coordinamento temporale tra i procedimenti amministrativo e penale, senza però chiarire perché le sanzioni amministrative pecuniarie e la sanzione penale detentiva perseguirebbero la stessa finalità (atteso che la seconda è riservata alla punizione delle condotte sopra determinate soglie) e senza dare conto delle disposizioni normative, interne ed esterne al corpus normativo del d.lgs. n. 74 del 2000, che regolano i rapporti tra procedimento amministrativo e procedimento penale in materia tributaria, per saggiarne la portata, in termini di introduzione di elementi di raccordo tra adempimento del debito tributario da un lato, e svolgimento ed esito del processo penale, dall’altro lato (sentenza n. 222 del 2019);

che tali lacune argomentative si riverberano sulla rilevanza della questione, con conseguente manifesta inammissibilità della stessa (sentenza n. 222 del 2019; ordinanza n. 114 del 2020).

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 649 del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), dalla Corte d’appello di Bologna, sezione prima penale, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 giugno 2021.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Francesco VIGANÒ, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria l'1 luglio 2021.