Ordinanza n. 280 del 2020

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ORDINANZA N. 280

 

ANNO 2020

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente: Giancarlo CORAGGIO;

 

Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA,

 

ha pronunciato la seguente

 

ORDINANZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 160, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2006, n. 286, promosso dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, nel procedimento vertente tra G. K. e il Ministero dell’economia e delle finanze e altro, con ordinanza del 19 novembre 2019, iscritta al n. 42 del registro ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell’anno 2020.

 

Visti l’atto di costituzione di G. K., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell’udienza pubblica del 1° dicembre 2020 il Giudice relatore Stefano Petitti;

 

uditi l’avvocato Luisa Torchia per G. K., in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1) del decreto del Presidente della Corte del 30 ottobre 2020, e l’avvocato dello Stato Pio Giovanni Marrone per il Presidente del Consiglio dei ministri;

 

deliberato nella camera di consiglio del 3 dicembre 2020.

 

Ritenuto che il Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 19 novembre 2019, iscritta al n. 42 del registro ordinanze 2020, ha sollevato, in riferimento agli artt. 97 e 98 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 160, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2006, n. 286, nella parte in cui prevede che ai direttori delle Agenzie fiscali si applichi il meccanismo di cessazione automatica dell’incarico conseguente al decorso di novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo, contemplato dall’art. 19, comma 8, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche);

 

che il rimettente premette di essere stato adito da G. K., che riferisce di essere stato nominato direttore dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli con decreto del Presidente della Repubblica del 6 ottobre 2017;

 

che, in data 16 ottobre 2017, il ricorrente nel giudizio a quo ha stipulato un contratto con il Ministero dell’economia e delle finanze nel quale, con l’accettazione dell’incarico, le parti convenivano tra l’altro che il contratto potesse essere risolto in via automatica (art. 5, comma 1) in caso di nomina di un commissario straordinario, ai sensi del comma 1 dell’art. 69 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 (Riforma dell’organizzazione del Governo, a norma dell’articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59), ovvero consensualmente «su iniziativa del Ministro e dietro corresponsione di una indennità pari al trattamento economico complessivo lordo riferito a due annualità», oppure su iniziativa dello stesso ricorrente, in questo caso nel rispetto del periodo di preavviso di quattro mesi e con facoltà per il Ministro di far conoscere le proprie determinazioni entro trenta giorni dalla scadenza di tale termine (art. 5, comma 3);

 

che il 12 settembre 2018 è stato nominato nel medesimo incarico B. M.;

 

che il 30 ottobre 2018 G. K. ha inviato una lettera al Ministro dell’economia e delle finanze, con la quale veniva chiesta la corresponsione dell’indennità prevista dall’art. 5, comma 3, del contratto per il caso di risoluzione consensuale da parte del Ministro, facendosi comunque offerta della propria prestazione lavorativa e contestando la legittimità della rimozione dall’incarico;

 

che G. K. ha quindi domandato al giudice rimettente, in via principale, la condanna dell’amministrazione convenuta al pagamento della indennità prevista dall’art. 5, comma 3, del contratto individuale di lavoro in ragione del recesso unilaterale ante tempus dell’amministrazione;

 

che, in via subordinata, il ricorrente ha sostenuto la nullità del recesso perché discriminatorio, con conseguente obbligo dell’amministrazione al pagamento di tutte le retribuzioni maturate dal settembre 2018 fino alla naturale scadenza del rapporto;

 

che, in via ulteriormente subordinata, G. K. ha eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 160, del d.l. n. 262 del 2006, come convertito, per violazione degli artt. 3, 97 e 98 Cost., «nonché dei principi costituzionali di buon andamento, imparzialità e ragionevolezza»;

 

che il Ministero dell’economia e delle finanze e l’Agenzia delle dogane e dei monopoli, rappresentati e difesi congiuntamente dall’Avvocatura generale dello Stato, hanno eccepito, nel giudizio principale, che il decreto presidenziale del 6 ottobre 2017, con il quale il ricorrente era stato nominato direttore dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, conteneva un espresso riferimento sia all’art. 19, comma 8, del d.lgs. n. 165 del 2001, che prevede la cessazione automatica dell’incarico al verificarsi delle condizioni ivi indicate, sia all’art. 2, comma 160, del d.l. n. 262 del 2006, come convertito, che tale automatismo estende ai direttori delle Agenzie, incluse le Agenzie fiscali;

 

che, inoltre – aveva dedotto l’Avvocatura dello Stato –, tale meccanismo di cessazione automatica dell’incarico era stato espressamente richiamato nel successivo contratto individuale di lavoro;

 

che in ogni caso gli artt. 19, comma 8 e 2, comma 160, sopra indicati, per il loro carattere inderogabile, sarebbero stati egualmente applicabili alla fattispecie in esame quand’anche non fossero state recepite nel decreto presidenziale di nomina e le parti non le avessero richiamate nel contratto di lavoro;

 

che pertanto, sempre ad avviso dell’Avvocatura dello Stato, la “decadenza ex lege” dall’incarico si era verificata per effetto dell’applicazione di queste disposizioni, e cioè, in via principale, del decreto presidenziale di nomina e del contratto, e comunque, in via subordinata, per diretta applicazione delle richiamate disposizioni di legge;

 

che tale decadenza, escludendo nel contempo qualsiasi profilo di discrezionalità in quanto «direttamente correlata alla natura fiduciaria dei rapporti tra organo politico e dirigenza apicale», assicurerebbe l’imparzialità dello svolgimento delle funzioni;

 

che il giudice rimettente non ha ritenuto di accogliere la domanda che il ricorrente ha formulato in via principale, perché il tenore della disposizione contrattuale presupporrebbe in ogni caso il carattere consensuale della risoluzione cui le parti pervengano per iniziativa del Ministro;

 

che, infatti, tale carattere non sussisterebbe, sia perché non sarebbe possibile riscontrare nessun atto qualificabile come «iniziativa» ad opera del Ministro, sia perché non potrebbe ritenersi che il ricorrente «abbia prestato alcun consenso a fronte di questa condotta», non potendo il medesimo evincersi dalla lettera inviata al Ministro in data 30 ottobre 2018;

 

che la richiamata clausola contrattuale di cui all’art. 5, comma 3, sarebbe in ogni caso inoperante nella vicenda in questione, perché la decadenza ex lege dell’incarico verrebbe ad operare come «distinta causa di conclusione del rapporto», con la conseguenza che, ove questa causa fosse legittima, «verrebbero a perdere di fondatezza tutte le domande che il ricorrente ha formulato in giudizio»;

 

che, a fronte di ciò, la controversia non sarebbe altrimenti decidibile se non facendo applicazione della disposizione contenuta nell’art. 2, comma 160, del d.l. n. 262 del 2006;

 

che i dubbi di costituzionalità riguardanti tale disposizione sarebbero, ad avviso del giudice rimettente, anche non manifestamente infondati;

 

che la norma censurata ha operato un’assimilazione, quanto al regime di cessazione dell’incarico, tra le figure previste dall’art. 19, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001 (quali i segretari generali, i direttori di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali e figure equivalenti) e i direttori delle Agenzie fiscali;

 

che, mentre in relazione alla prima categoria di incarichi si potrebbe ravvisare una «maggiore coesione con gli organi politici» rispetto ad altri incarichi dirigenziali (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 103 del 2007), tale caratteristica «non sembra invece possa essere ravvisata nel caso del Direttore dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli»;

 

che ad escludere una simile equiparazione, sarebbe innanzi tutto l’attribuzione all’Agenzia di una personalità giuridica autonoma, secondo quanto previsto dall’art. 61, comma 1, del d.lgs. n. 300 del 1999;

 

che «[a]ltro evidente motivo di differenziazione» sarebbe quello legato all’esistenza della convenzione disciplinata dall’art. 59 del d.lgs. n. 300 del 1999, che opererebbe come «strumento normativamente previsto al fine di assicurare raccordo e coerenza di indirizzi tra il vertice politico rappresentato dal Ministro e l’Agenzia stessa», introducendo una contrattualizzazione dei relativi rapporti che varrebbe a segnare in modo netto la distinzione tra ruoli politici e quelli dell’amministrazione e, così, a escludere che il rapporto tra Ministro e direttore dell’Agenzia sia connotato da fiduciarietà;

 

che, infine, al direttore dell’Agenzia sarebbero attribuite «funzioni tutte riconducibili alla gestione amministrativa», il che varrebbe a collocare quest’ultimo nell’ambito dei titolari di funzioni amministrative di esecuzione dell’indirizzo politico;

 

che si è costituito in giudizio di fronte a questa Corte G. K., chiedendo l’accoglimento della questione sollevata dal rimettente;

 

che la difesa della parte privata, premessa la configurazione delle Agenzie fiscali quali «soggetti autonomi, non inquadrati all’interno dell’organizzazione ministeriale e, anzi, volutamente ed espressamente distinte e separate rispetto ai ministeri», evidenzia come per esse risulti determinante lo svolgimento di un’attività di missione che si traduce, per i direttori che ne sono al vertice, nell’attribuzione di compiti attinenti alla gestione e senza alcuna partecipazione alle attività di indirizzo politico-amministrativo;

 

che ciò si desumerebbe sia dalle norme di legge, già richiamate, che disciplinano la convenzione triennale stipulata tra le Agenzie fiscali e il Ministro, sia dal ruolo che le convenzioni medesime assegnano al Dipartimento delle finanze quale articolazione del Ministero che esercita, nei limiti segnati dalle predette convenzioni, il potere di vigilanza e controllo nei confronti delle Agenzie;

 

che tali aspetti renderebbero incostituzionale l’equiparazione del regime di cessazione dell’incarico applicabile ai direttori delle Agenzie fiscali con quello dei segretari generali e dei capi di dipartimento dei ministeri, difettando per i primi lo svolgimento di funzioni di raccordo tra il vertice politico e l’apparato amministrativo e il diretto coinvolgimento nell’attività di proposta e di elaborazione delle scelte di indirizzo affidate al Ministro, che invece connotano il ruolo e l’attività dei secondi;

 

che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, infondata;

 

che, ad avviso dell’Avvocatura, non potrebbe dubitarsi della equivalenza tra l’incarico di segretario generale ovvero di capo di dipartimento di un ministero e quello di direttore dell’Agenzia, in quanto tutti di natura apicale e contrassegnati da una maggiore coesione con gli organi politici;

 

che, con riferimento al direttore dell’Agenzia, una simile conclusione si ricaverebbe innanzi tutto dalla procedura di nomina, che risulta anch’essa (secondo quanto prevede l’art. 67, comma 2, del d.lgs. n. 300 del 1999) «incardinata su un decreto del Presidente della Repubblica» e non preceduta da alcun avviso pubblico o forma di selezione;

 

che a deporre nel senso dell’assimilazione sarebbero anche le attribuzioni spettanti al direttore dell’Agenzia, da individuarsi anche sulla base di quanto stabilisce l’art. 8, comma 4, lettera a), del d.lgs. n. 300 del 1999, il quale prevede una sostanziale equiparazione tra i compiti dei direttori delle Agenzie e i capi di dipartimento dei ministeri di cui all’art. 5 del medesimo d.lgs.;

 

che il «rapporto istituzionale diretto e immediato» tra Ministro e direttore dell’Agenzia si ricaverebbe anche dal potere del primo di misurare e valutare le performance del secondo (in base a quanto previsto dal d.P.C.m. 15 giugno 2016, n. 158, contenente il «Regolamento recante determinazione dei limiti e delle modalità di applicazione delle disposizioni dei titoli II e III del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, al Ministero dell’economia e delle finanze e alle Agenzie fiscali»), di nominare un Commissario straordinario nei casi previsti dall’art. 69 del d.lgs. n. 300 del 1999, nonché di stipulare la richiamata convenzione triennale con ciascuna Agenzia;

 

che dall’insieme di tali previsioni dovrebbe discendere, ad avviso dell’Avvocatura, la legittimità della norma censurata, atteso che essa ha esteso ai direttori delle Agenzie fiscali il meccanismo dello spoils system «non sulla base dell’equiparazione organizzativa e funzionale con il Segretario generale o con il Capo dipartimento bensì in ragione dell’assimilazione del ruolo apicale che tali figure rivestono e del loro legame diretto con l’organo di Governo»;

 

che, in prossimità dell’udienza pubblica, la difesa della parte ha depositato una memoria, con cui ha contestato gli assunti dell’Avvocatura generale dello Stato e ha rimarcato come i direttori delle Agenzie fiscali siano, in virtù dei compiti di natura gestionale ad essi eminentemente assegnati, estranei all’attività ministeriale di elaborazione delle linee di indirizzo politico-amministrativo;

 

che anche l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato memoria in prossimità dell’udienza pubblica, nella quale, unitamente alla contestazione degli argomenti presentati dalla difesa di G. K., ha riferito dell’audizione del direttore dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli svoltasi il 22 ottobre 2020 presso la VI Commissione permanente del Senato (Finanze e tesoro), in cui è stato esposto il contenuto di un insieme di provvedimenti di riforma dei poteri dell’Agenzia «recentemente proposto al Ministro dell’Economia e delle Finanze, che esercita la vigilanza sull’Agenzia» medesima, da cui si ricaverebbe, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice rimettente e dalla difesa della parte privata, «la concreta percezione del ruolo, non certo meramente gestionale, realmente svolto dal Direttore dell’Agenzia attraverso la presentazione al Ministro di proposte legislative attinenti ai compiti dell’Agenzia da inserire nella legge di bilancio, a riprova della partecipazione dell’organo apicale alle “scelte politiche” che interessano l’Ente».

 

Considerato che il Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 97 e 98 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 160, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2006, n. 286, nella parte in cui esso estende ai direttori delle Agenzie fiscali, e segnatamente al direttore dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, il regime di cessazione automatica dell’incarico conseguente al decorso di novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo previsto dall’art. 19, comma 8, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche);

 

che ad esso si è rivolto G. K., già direttore dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, nominato nell’ottobre 2017 e cessato dalle sue funzioni al momento della nomina del suo successore in data 12 settembre 2018;

 

che nel giudizio a quo il ricorrente ha proposto in via principale domanda di condanna dell’amministrazione al pagamento dell’indennità prevista dall’art. 5, comma 3, del contratto di lavoro per l’ipotesi di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro «su iniziativa del Ministro»;

 

che, in via subordinata, il ricorrente ha chiesto che fosse dichiarato nullo «per discriminatorietà politica e per vizio di forma» il recesso di fatto dell’amministrazione, con conseguente condanna di quest’ultima al pagamento delle retribuzioni maturate dal settembre 2018;

 

che, in via ulteriormente subordinata, il ricorrente ha chiesto che al medesimo esito si giungesse per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma censurata per violazione degli artt. 3, 97 e 98 Cost.;

 

che la questione sollevata è manifestamente inammissibile per plurimi, concorrenti, profili;

 

che il giudice rimettente motiva la rilevanza della questione di legittimità costituzionale ritenendo innanzi tutto di non potersi pronunciare né sulla domanda proposta in via principale dal ricorrente, né su quella subordinata, e che invece verrebbe in rilievo l’eccezione di illegittimità costituzionale sollevata, in via ulteriormente subordinata, dalla difesa del medesimo ricorrente;

 

che la domanda principale non sarebbe accoglibile perché – pur essendo contrattualmente previsto il pagamento di un’indennità in caso di risoluzione del contratto su iniziativa del Ministro (art. 5, comma 3) – in realtà sarebbe comunque mancato il consenso del ricorrente, necessario – secondo il giudice rimettente – in ragione del (ritenuto) dato testuale della clausola contrattuale che regolava il recesso ante tempus come risoluzione “consensuale” dopo quella non “consensuale”, perché “automatica” (ossia quella conseguente alla nomina di un commissario straordinario o all’assunzione da parte del ricorrente di altro incarico);

 

che neppure è accoglibile – secondo il rimettente – la domanda subordinata di accertamento della nullità della risoluzione del contratto per asserita «discriminatorietà politica» atteso che, secondo la tesi dei convenuti, il rapporto sarebbe cessato automaticamente, senza che si rendesse necessaria alcuna manifestazione di volontà, neppure implicita, da parte del datore di lavoro pubblico;

 

che, pertanto, la controversia non sarebbe altrimenti decidibile se non facendo applicazione della disposizione contenuta nell’art. 2, comma 160, del d.l. 3 ottobre 2006, n. 262, oggetto dell’eccezione di illegittimità costituzionale sollevata, in via ulteriormente subordinata, dalla parte ricorrente;

 

che – come emerge chiaramente dalla stessa ordinanza di rimessione – la clausola di cessazione automatica dell’incarico è contenuta nel decreto presidenziale di nomina ed è altresì incorporata nel contratto di lavoro, in quanto espressamente richiamata;

 

che la clausola, accettata dal ricorrente, ha quindi la sua fonte diretta sia in un atto amministrativo, qual è il decreto presidenziale di nomina, sia in un atto negoziale, qual è il contratto;

 

che il giudice rimettente, tuttavia, non riferisce di un’eventuale deduzione, da parte della difesa del ricorrente, della nullità parziale del contratto in ragione della nullità della clausola;

 

che il giudice rimettente non fa neppure menzione di un’eventuale richiesta della difesa del ricorrente di disapplicazione (ex art. 4 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, recante «Legge sul contenzioso amministrativo – All. E») del decreto presidenziale di nomina in parte qua;

 

che il giudice rimettente non si pone neanche il problema di sindacare d’ufficio la nullità della clausola contrattuale ovvero la legittimità in parte qua del decreto presidenziale di nomina al fine di operare la sua eventuale disapplicazione;

 

che, in questo modo, il rimettente nulla argomenta in ordine alla possibile ricaduta, che in ipotesi dovrebbe avere la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata, sia sull’atto amministrativo, costituito dal decreto presidenziale di nomina, sia sull’atto negoziale, rappresentato dal contratto di lavoro;

 

che tale lacuna argomentativa, per il fatto di tradursi in una prospettazione non adeguata delle conseguenze applicative derivanti da un eventuale accoglimento della questione sollevata, si risolve pertanto in un difetto di motivazione sulla rilevanza tale da rendere la questione stessa manifestamente inammissibile;

 

che, inoltre, il giudice rimettente ha escluso la fondatezza della domanda avanzata in via principale dal ricorrente nel giudizio a quo, volta al riconoscimento dell’indennità prevista dall’art. 5, comma 3, del contratto per l’eventualità di una risoluzione consensuale del rapporto su iniziativa del Ministro, sull’assunto che una tale iniziativa sia in realtà mancata e che, in ogni caso, il ricorrente medesimo non abbia consentito all’iniziativa risolutoria del Ministro;

 

che, così facendo, il rimettente da un lato ha eluso ogni verifica interpretativa ai fini della qualificazione giuridica della reclamata indennità nei termini di un corrispettivo per il recesso, dall’altro non ha in alcun modo motivato sull’eventualità che l’iniziativa risolutoria del Ministro – da intendersi connaturata alla nomina di un nuovo direttore – sia stata accettata dal ricorrente quanto meno con la domanda di pagamento dell’indennità proposta in via principale;

 

che, pertanto, la questione prospettata è, anche per questa ragione, manifestamente inammissibile per difetto di motivazione sulla rilevanza, vizio che ben può derivare dall’omessa indagine del giudice a quo sulla reale portata delle clausole pattuite dai contraenti;

 

che il difetto di motivazione sulla rilevanza è nella specie ancora più evidente, poiché inficia il passaggio nell’iter logico-giuridico del rimettente da una domanda principale a una subordinata, alla quale ultima accede la questione di legittimità costituzionale, con insufficiente chiarimento della sorte della domanda principale, «che è logicamente preliminare» (ordinanza n. 100 del 2007);

 

che parimenti insufficiente, infine, è la ricostruzione del quadro normativo di riferimento;

 

che, infatti, per gli incarichi di funzioni dirigenziali conferiti a persone non appartenenti ai ruoli dell’amministrazione (art. 19, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001), qual era il ricorrente, oltre che per quelli conferiti a dirigenti non appartenenti ai ruoli della dirigenza pubblica (art. 19, comma 5-bis, del d.lgs. citato), l’estensione del meccanismo di cessazione automatica dell’incarico, che solo per i primi significava anche risoluzione automatica del rapporto contrattuale, è stata prevista, al comma 159, dallo stesso art. 2 del d.l. n. 262 del 2006, recante, al comma 160, la norma censurata;

 

che la disposizione censurata nel presente giudizio prevedeva, e tuttora prevede, che ai direttori delle Agenzie, incluse le Agenzie fiscali, si applichi il medesimo art. 19, comma 8, del d.lgs. n. 165 del 2001 «come modificato dal comma 159 del presente articolo»;

 

che tale comma 159 ha ampliato, all’epoca, il novero degli incarichi dirigenziali ai quali si applicava il meccanismo di cessazione automatica, di cui al comma 8 dell’art. 19, aggiungendo, appunto, gli incarichi di funzione dirigenziale di cui al comma 5-bis, limitatamente al personale non appartenente ai ruoli di cui all’art. 23 del medesimo decreto legislativo ma dipendente da altra amministrazione, e quelli di cui al comma 6, tra i quali gli incarichi a soggetti esterni all’amministrazione pubblica;

 

che tale estensione è in un primo momento venuta meno per effetto dell’art. 40, comma 1, lettera g), del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni), il quale ha espressamente previsto che, al comma 8 dell’art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, le parole: « al comma 5-bis, limitatamente al personale non appartenente ai ruoli di cui all’articolo 23, e al comma 6,» sono soppresse, così nella sostanza abrogando il comma 159 della disposizione recante la norma censurata;

 

che, successivamente a tale abrogazione, le sentenze di questa Corte n. 124 e n. 246 del 2011 hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, comma 8, del d.lgs. n. 165 del 2001, come modificato dal richiamato comma 159, nella parte in cui quest’ultimo ha disposto, durante il suo periodo di vigenza, l’estensione della cessazione automatica agli incarichi dirigenziali conferiti, rispettivamente, ai sensi dei commi 5-bis e 6 del già citato art. 19;

 

che, invece, è rimasto invariato il comma 160 dello stesso art. 2 del d.l. n. 262 del 2006, quindi vigente, all’epoca dei fatti di causa, che come detto prevedeva – e prevede tuttora – che ai direttori delle Agenzie, incluse le Agenzie fiscali, si applichi il menzionato meccanismo di cessazione automatica dell’incarico previsto dall’art. 19, comma 8, «come modificato dal comma 159 del presente articolo»;

 

che il giudice rimettente non si confronta con l’evoluzione di tale complessa normativa al fine di poter predicare, anche in termini di sola plausibilità, le conseguenze dell’invocata dichiarazione di illegittimità costituzionale sia sul decreto presidenziale di nomina, sia sul contratto di lavoro, nella parte in cui l’uno e l’altro contenevano anch’essi, con rinvio recettizio, lo stesso meccanismo di cessazione automatica dell’incarico, inizialmente esteso espressamente, dal comma 159 dell’art. 2 citato, anche ad incarichi dirigenziali conferiti a soggetti esterni alla pubblica amministrazione;

 

che, pertanto, l’ordinanza di rimessione, in ragione dell’incompleta ricostruzione del quadro normativo che essa opera, si rivela ulteriormente carente quanto alla motivazione sulla rilevanza della prospettata questione di legittimità costituzionale.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 160, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2006, n. 286, sollevata, in riferimento agli artt. 97 e 98 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 dicembre 2020.

 

F.to:

 

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

 

Stefano PETITTI, Redattore

 

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

 

Depositata in Cancelleria il 23 dicembre 2020.