Sentenza n. 268 del 2020

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SENTENZA N. 268

 

ANNO 2020

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente: Giancarlo CORAGGIO

 

Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA,

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 91, primo comma, secondo periodo, del codice di procedura civile, in combinato disposto con l’art. 420, primo comma, del medesimo codice, promosso dalla Corte d’appello di Napoli, sezione lavoro, nel procedimento vertente tra M. V. e A. D., con ordinanza del 22 luglio 2019, iscritta al n. 205 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2019.

 

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 18 novembre 2020 il Giudice relatore Giovanni Amoroso;

 

deliberato nella camera di consiglio del 19 novembre 2020.

 

Ritenuto in fatto

 

1.– Con ordinanza del 22 luglio 2019, la Corte d’appello di Napoli, sezione lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 91, primo comma, secondo periodo, del codice di procedura civile, anche in combinato disposto con l’art. 420, primo comma, cod. proc. civ. per violazione degli artt. 3, 4, 24, 35 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 6, 13 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, nonché agli artt. 21 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.

 

Il Collegio rimettente riferisce che, nell’ambito di un giudizio promosso da un lavoratore presso il Tribunale ordinario di Torre Annunziata per ottenere differenze retributive, anche a fronte della disponibilità espressa in sede di memoria difensiva dalla parte resistente, il giudice formulava all’udienza una proposta conciliativa dell’importo di euro 2.500,00 con compensazione delle spese, proposta che non era accettata dal ricorrente.

 

Espletata l’istruttoria, il Tribunale accoglieva la domanda per la somma di euro 900,00 e condannava il lavoratore al pagamento delle spese processuali in favore della parte datoriale. La sentenza di primo grado era appellata anche per il mancato riconoscimento delle spese, pur essendo lo stesso risultato vittorioso.

 

La Corte d’appello, nel sollevare le questioni di costituzionalità, evidenzia, in punto di rilevanza, che il vaglio di legittimità costituzionale dell’art. 91, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ., autonomamente e in combinato disposto con l’art. 420, primo comma, cod. proc. civ., è pregiudiziale alla propria decisione sulla corretta statuizione del Tribunale in ordine alle spese di lite.

 

Quanto alla non manifesta infondatezza, il Collegio muove dalla considerazione per la quale il principio di eguaglianza, formale e sostanziale, di cui all’art. 3 Cost., applicato al processo, impone la parità tra le parti, che può essere assicurata solo mediante la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che, di fatto, danno luogo ad una discriminazione.

 

In tale prospettiva, la Corte rimettente sottolinea che, in linea con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, il legislatore processuale ha da sempre attribuito rilievo alla strutturale diseguaglianza tra le parti nel processo del lavoro. Di contro, l’art. 91, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ., laddove consente di condannare alle spese la parte, sebbene vittoriosa, che non abbia accettato una proposta conciliativa di importo pari o superiore a quello riconosciuto nella sentenza, finirebbe con lo stravolgere la funzione tradizionalmente svolta dal tentativo di conciliazione nelle controversie di lavoro, ossia quella di assicurare una pronta definizione delle stesse evitando i rischi ed i costi del processo (o del protrarsi di esso).

 

Secondo la ricostruzione del giudice a quo, infatti, nel quadro normativo delineato dall’introduzione della previsione censurata, la scelta di conciliare la controversia non è più “libera”, in quanto sanzionata in modo sproporzionato con un aggravio di spese posto a carico del soggetto che, seppur parzialmente, ha comunque ottenuto il riconoscimento del diritto rivendicato e, pertanto, nel processo del lavoro, della parte economicamente più debole che, di norma, coincide con il lavoratore ricorrente.

 

La norma censurata potrebbe, quindi, violare gli artt. 3, 4, 24 e 35 Cost., avendo introdotto un ostacolo reddituale per il diritto di accesso al giudice del lavoratore.

 

Tale ostacolo, espone il Collegio rimettente, sarebbe vieppiù rilevante ove si consideri che nel processo del lavoro vengono in rilievo diritti di rango costituzionale, anche interagenti con il diritto alla retribuzione, rispondente ad un’esigenza alimentare (art. 36 Cost.).

 

Il Collegio rimettente assume che non potrebbe ritenersi che la norma censurata sanzioni le sole condotte che si concretano in un abuso del processo ad opera della parte che ha ragione, atteso che le stesse sono già adeguatamente sanzionate dall’art. 88 cod. proc. civ. e dalla correlata disposizione in tema di spese processuali.

 

Il giudice a quo evidenzia che la previsione censurata, anche in combinato disposto con l’art. 420 cod. proc. civ., potrebbe inoltre violare l’art. 117, primo comma, Cost., con riferimento a diverse disposizioni della CEDU, ossia: a) l’art. 6 sulle garanzie dell’equo processo, che comporta che la legittimità dei costi del processo debba essere vagliata anche in virtù della capacità finanziaria dell’individuo; b) l’art. 14, poiché viene effettuata una discriminazione nel godimento dei diritti fondata sulla «ricchezza» o su «ogni altra condizione»; c) l’art. 13, in quanto l’aggravio di spese determina una penalizzazione economica che si riflette inevitabilmente, ostacolandolo, anche sul diritto ad un ricorso effettivo dinanzi ad un giudice nazionale.

 

Lo stesso art. 117, primo comma, Cost. potrebbe essere violato, secondo quanto prospettato dal giudice rimettente, con riguardo ad alcune previsioni della CDFUE e, in particolare, all’art. 21, che vieta qualsiasi forma di discriminazione, anche fondata sul patrimonio, e all’art. 47, che garantisce il diritto ad un ricorso effettivo dinanzi ad un giudice.

 

2.– Con atto depositato il 10 dicembre 2019, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo la declaratoria di inammissibilità o comunque il rigetto per manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dall’ordinanza di rimessione.

 

Con riferimento all’ammissibilità, la difesa dello Stato assume in primo luogo l’irrilevanza delle questioni nel giudizio a quo in quanto, come risulta dall’ordinanza di rimessione, la parte, in punto di spese, ha impugnato la sentenza di primo grado lamentando la violazione del principio secondo cui le spese processuali sono poste a carico della parte soccombente, ipotesi diversa da quella disciplinata dall’art. 91, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ.

 

Sotto altro profilo, l’Avvocatura deduce l’inammissibilità delle questioni per non avere il Collegio rimettente indicato le ragioni per le quali sarebbero stati violati alcuni tra i parametri evocati (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 33 del 2014 e n. 311 del 2013).

 

Il Presidente del Consiglio dei ministri sottolinea che, in ogni caso, le questioni sollevate non sono fondate perché l’art. 91, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ. rientra nell’ambito di quelle misure che perseguono legittime finalità deflattive proprio nella prospettiva di garantire a tutti un giusto processo, sanzionando il rifiuto della proposta conciliativa solo ove sia privo di un giustificato motivo. Né, secondo l’Avvocatura, potrebbe spiegare rilevanza la diseguaglianza tra le parti nel processo del lavoro, poiché la parità trova idonea garanzia nei poteri del giudice, oltre che nelle regole processuali tipiche del rito.

 

Infine, la difesa dello Stato ricorda che analoga disciplina – derogatoria rispetto alla regola generale della sopportazione delle spese da parte del soccombente – è contemplata, in tema di mediazione, dall’art. 13 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali).

 

3.– Con memoria del 17 luglio 2020, l’Avvocatura dello Stato ha ribadito le proprie argomentazioni, sottolineando che la Corte d’appello rimettente ha omesso di verificare se la parte ricorrente, parzialmente vittoriosa in primo grado, avesse rifiutato le somme offerte a titolo transattivo «senza giustificato motivo». Tale omissione determinerebbe l’inammissibilità delle questioni impedendo la valutazione sulla rilevanza.

 

Questo profilo di inammissibilità sarebbe collegato all’infondatezza delle questioni nel merito, poiché la necessaria ricorrenza di un giustificato motivo smentisce la tesi dell’automaticità del meccanismo previsto dal legislatore della cui legittimità costituzionale dubita il giudice a quo.

 

Considerato in diritto

 

1.– Con ordinanza del 22 luglio 2019, la Corte d’appello di Napoli, sezione lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 91, primo comma, secondo periodo, del codice di procedura civile, anche in combinato disposto con l’art. 420, primo comma, cod. proc. civ. per violazione degli artt. 3, 4, 24, 35 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 6, 13 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, nonché agli artt. 21 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.

 

La disposizione è stata innanzi tutto censurata, rispetto ai parametri evocati, poiché si porrebbe in contrasto con l’esigenza, storicamente avvertita dal legislatore, di tutelare il lavoratore, quale parte strutturalmente debole del processo, finendo così con lo snaturare le finalità dell’istituto della conciliazione nel processo del lavoro, quale strumento volto ad assicurare al lavoratore una pronta tutela, evitando allo stesso i costi e i tempi di un giudizio. La diseguaglianza economica delle parti, in uno con la disciplina normativa oggetto dei dubbi di legittimità costituzionale, finirebbe, secondo quanto prospettato dal Collegio rimettente, per indurre il lavoratore ad accettare una proposta conciliativa incongrua al solo fine di evitare il rischio di essere condannato alle spese. In altri termini, la scelta di conciliare la controversia non sarebbe, nell’attuale assetto normativo, “libera”, poiché sanzionata attraverso uno sproporzionato rischio di aggravamento di spese nei confronti di chi, seppur parzialmente, abbia comunque ottenuto il riconoscimento del diritto rivendicato, senza che possa ipotizzarsi, a carico dello stesso, una condotta di abuso del processo, peraltro già adeguatamente sanzionata da altre disposizioni normative.

 

Questo ostacolo al diritto di accesso al giudice si porrebbe in contrasto non solo con gli artt. 3 e 24 Cost., ma anche con le altre norme costituzionali che, come gli artt. 4 e 35, attribuiscono peculiare rilevanza e tutela al lavoro.

 

Il giudice a quo ritiene che l’art. 91, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ., anche in combinato disposto con l’art. 420 cod. proc. civ., inoltre violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., rispetto a diverse disposizioni della CEDU, ovvero: a) l’art. 6 sulle garanzie dell’equo processo, che comporta che i costi del processo debbano essere vagliati anche in relazione alla capacità finanziaria dell’individuo; b) l’art. 14, poiché viene effettuata una discriminazione nel godimento dei diritti fondata sulla «ricchezza» o su «ogni altra condizione»; c) l’art. 13, in quanto l’aggravio di spese determina una penalizzazione economica che si riflette inevitabilmente, ostacolandolo, anche sul diritto ad un ricorso effettivo dinanzi ad un giudice nazionale.

 

Lo stesso art. 117, primo comma, Cost. risulterebbe poi violato, secondo quanto prospettato dal giudice rimettente, con riguardo ad alcune previsioni della CDFUE e, in particolare, all’art. 21, che vieta qualsiasi forma di discriminazione fondata anche sul patrimonio, e all’art. 47, che garantisce il diritto ad un ricorso effettivo dinanzi a un giudice.

 

2.– Occorre premettere che – laddove il giudice a quo prospetta le questioni di legittimità costituzionale riferendole all’art. 91, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ., sia in sé considerato, sia in combinato disposto con l’art. 420, primo comma, cod. proc. civ. – deve ritenersi, ad un esame complessivo dell’ordinanza di rimessione, che in realtà egli censuri gradatamente entrambe le predette disposizioni, nella misura in cui le stesse attribuiscono al giudice il potere di porre le spese processuali a carico del lavoratore ricorrente, che abbia rifiutato senza giustificato motivo una proposta conciliativa, poi rivelatasi equivalente o addirittura più favorevole rispetto all’esito del giudizio.

 

In particolare – come si vedrà – l’art. 91, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ. riguarda l’ingiustificato rifiuto della proposta transattiva della controparte; mentre l’art. 420, primo comma, cod. proc. civ. concerne l’ingiustificato rifiuto della proposta conciliativa del giudice nel processo del lavoro.

 

In ogni caso sarebbe leso – secondo la Corte d’appello rimettente – il diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva del lavoratore, perché le disposizioni censurate lo discriminerebbero come parte debole del rapporto in spregio al favor del lavoro sul piano costituzionale.

 

3.– Prima di esaminare le questioni, è opportuna una sintetica ricostruzione del quadro normativo di riferimento.

 

La disposizione censurata in via principale, ossia il primo comma, secondo periodo, dell’art. 91 cod. proc. civ., stabilisce che il giudice «[s]e accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo quanto disposto dal secondo comma dell’articolo 92».

 

Tale periodo è stato inserito nell’art. 91 cod. proc. civ. dall’art. 45, comma 10, della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), nell’intento di deflazionare il contenzioso giudiziario facendo leva sul principio di autoresponsabilità della parte nella valutazione di una proposta conciliativa.

 

Si tratta, quindi, di una di quelle disposizioni introdotte dal legislatore nella consapevolezza, sempre più avvertita, che, di fronte ad una crescente domanda di giustizia, anche in ragione del riconoscimento di nuovi diritti, la giurisdizione sia una risorsa non illimitata e che misure di contenimento del contenzioso civile debbano essere messe in opera (sentenza n. 77 del 2018).

 

È stato in particolare previsto che il giudice è tenuto a condannare alle spese di lite, maturate successivamente alla formulazione della proposta, la parte che, sebbene sia risultata vittoriosa all’esito del processo, abbia rifiutato senza giustificato motivo nel corso dello stesso una proposta conciliativa identica o addirittura più soddisfacente rispetto alla misura nella quale la domanda della medesima parte abbia poi trovato accoglimento nella decisione conclusiva del giudizio. In sostanza, il costo del processo che si è inutilmente protratto a causa dell’ingiustificato rifiuto di aderire ad una proposta conciliativa seria, al punto da essere “confermata” dalla sentenza, viene posto a carico della parte che quella proposta abbia ingiustificatamente rifiutato, facendo proseguire inutilmente il processo, con i correlativi oneri a carico della società.

 

La norma censurata – avente carattere eccezionale (Corte di cassazione, sezione sesta civile, sottosezione terza, ordinanza 22 aprile 2020, n. 8036) – dà rilievo, quale legittimo criterio di regolamentazione delle spese processuali, alla condotta della parte che ha determinato un’inutile prosecuzione del giudizio. Ciò è espressione del principio di causalità che, a differenza di quello “oggettivo” della soccombenza, attribuisce rilievo anche a determinate condotte contrarie al dovere di lealtà e di probità (art. 88 cod. proc. civ.).

 

La valenza generale del principio victus victori, sancito dalla prima parte dell’art. 91 cod. proc. civ., quale completamento e misura dell’effettività del diritto di azione in giudizio sancito dall’art. 24 Cost. (sentenza n. 77 del 2018), ha richiesto un espresso intervento del legislatore per legittimare la condanna alle spese della parte vittoriosa, la quale abbia rifiutato senza giustificato motivo di aderire ad una proposta conciliativa.

 

L’operatività di tale deroga al principio di soccombenza richiede comunque che il rifiuto della proposta conciliativa sia privo di giustificato motivo.

 

Inoltre, la disposizione censurata fa salva l’applicazione dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., così consentendo all’autorità giudiziaria, ove ricorrano i presupposti indicati da tale norma, anche a seguito di un recente intervento additivo di questa Corte (sentenza n. 77 del 2018), di compensare le spese del giudizio in luogo di porre integralmente le stesse a carico della parte vittoriosa per il periodo successivo all’ingiustificato rifiuto di una proposta conciliativa rivelatasi congrua in ragione dell’esito del giudizio.

 

Nell’individuare, poi, la portata applicativa dell’art. 91, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ., le sezioni unite della Corte di cassazione hanno chiarito che la proposta conciliativa alla quale tale norma fa riferimento «è evidentemente quella formulata da una delle parti in causa, le uniche titolari di un potere di proposta negoziale in senso proprio, su cui possa formarsi l’incontro delle volontà con l’eventuale adesione della controparte; il giudice è titolare, semmai, di un potere di sollecitazione delle parti a conciliarsi, formulando al limite (non già “proposte”, bensì mere) ipotesi transattive o conciliative, che le parti possono liberamente fare proprie o meno: solo nel caso in cui una di esse faccia propria l’ipotesi suggerita dal giudice, questa diverrà una proposta, suscettibile di dar luogo all’accordo conciliativo in presenza dell’accettazione di controparte» (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 12 settembre 2017, n. 21109).

 

In sostanza, la sola proposta conciliativa rilevante per l’applicazione della norma censurata è quella effettuata in giudizio dalla parte.

 

4.– Successivamente, il legislatore ha previsto la possibilità della proposta conciliativa o transattiva formulata dal giudice, introducendo l’art. 185-bis cod. proc. civ. nella disciplina del processo ordinario di cognizione. Infatti, tale norma – inserita nel codice di rito dall’art. 77, comma 1, lettera a), del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2013, n. 98 – stabilisce che «[i]l giudice, alla prima udienza, ovvero sino a quando è esaurita l’istruzione, formula alle parti ove possibile, avuto riguardo alla natura del giudizio, al valore della controversia e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto, una proposta transattiva o conciliativa. La proposta di conciliazione non può costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice».

 

La stessa disposizione invero non contempla alcuna conseguenza specifica per il rifiuto ingiustificato della proposta conciliativa o transattiva proveniente dal giudice; nondimeno, in linea con quanto disposto dall’art. 420 cod. proc. civ., la costante giurisprudenza di legittimità riconosce che se ne potrà tenere conto al fine del regolamento delle spese processuali.

 

5.– La disposizione censurata in via gradata è, per l’appunto, l’art. 420, primo comma, cod. proc. civ., che prevede, nel processo del lavoro, una disciplina specifica quanto alla proposta transattiva o conciliativa del giudice, fissando le conseguenze dell’ingiustificato rifiuto della stessa.

 

In particolare, tale norma, inserita a seguito delle modificazioni introdotte all’art. 420 cod. proc. civ. dall’art. 31, comma 4, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), e poi ulteriormente modificata dall’art. 77, comma 1, lettera b), del d.l. n. 69 del 2013, prevede che «[n]ell’udienza fissata per la discussione della causa il giudice interroga liberamente le parti presenti, tenta la conciliazione della lite e formula una proposta transattiva o conciliativa. La mancata comparizione personale delle parti, o il rifiuto della proposta transattiva o conciliativa del giudice, senza giustificato motivo, costituiscono comportamento valutabile dal giudice ai fini del giudizio».

 

Questa disposizione si colloca nell’ambito di un più ampio disegno riformatore, nel quale il legislatore ha contestualmente eliminato l’obbligo del previo tentativo di conciliazione nelle controversie di lavoro, rendendo lo stesso solo facoltativo. Di qui l’esigenza di attribuire maggior “peso” alla proposta transattiva o conciliativa effettuata dall’autorità giudiziaria all’udienza di discussione ove sia fallito il tentativo di conciliazione svolto in tale sede, prevedendo conseguenze correlate al rifiuto della stessa senza giustificato motivo.

 

Nel sistema così riformato, all’art. 420 cod. proc. civ., per l’ipotesi di proposte transattive o conciliative formulate dal giudice, fa da pendant la previsione, contestualmente introdotta dalla stessa legge n. 183 del 2010, dell’art. 411, secondo comma, cod. proc. civ., in tema di tentativo stragiudiziale di conciliazione nelle controversie di lavoro. Questa norma, infatti, stabilisce, specularmente, che «[s]e non si raggiunge l’accordo tra le parti, la commissione di conciliazione deve formulare una proposta per la bonaria definizione della controversia. Se la proposta non è accettata, i termini di essa sono riassunti nel verbale con indicazione delle valutazioni espresse dalle parti. Delle risultanze della proposta formulata dalla commissione e non accettata senza adeguata motivazione il giudice tiene conto in sede di giudizio».

 

Il rifiuto ingiustificato della proposta conciliativa o transattiva formulata dall’autorità giudiziaria assume rilievo nella decisione quanto alla statuizione sulle spese processuali e non già alla valutazione del merito della controversia, stante il diritto della parte a vedersi integralmente riconosciuto, sul piano del diritto sostanziale, quanto ad essa spettante all’esito del giudizio (ex multis, sentenze n. 77 del 2007 e n. 190 del 1985).

 

Mentre la mancata comparizione può rappresentare un indice della volontà della parte di sottrarsi al contraddittorio e quindi può assurgere ad argomento di prova (art. 116 cod. proc. civ.), il rifiuto della proposta conciliativa o transattiva può solo giustificare una pronuncia sulle spese non fondata sul mero principio della soccombenza e non anche incidere sulla decisione del merito della lite.

 

6.– Ciò premesso, le questioni di legittimità costituzionale che investono l’art. 91, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ. sono inammissibili.

 

Questa disposizione, infatti, non trova applicazione nella fattispecie processuale oggetto della cognizione della Corte d’appello rimettente, che è partita da un erroneo presupposto interpretativo.

 

Dall’ordinanza di rimessione si evince con chiarezza che la proposta conciliativa oggetto del rifiuto, asseritamente ingiustificato, da parte del lavoratore appellante – rifiuto che ne aveva determinato, nel giudizio di primo grado, la condanna al pagamento delle spese processuali – non era stata formulata dall’altra parte, bensì dal giudice, e quindi, come già sopra rilevato, non trovava applicazione la regola, di carattere eccezionale, contenuta nella disposizione censurata.

 

La giurisprudenza, come in precedenza ricordato, ha infatti chiarito che non si tratta della proposta conciliativa del giudice (Cass., sez. un. civ., n. 21109 del 2017). Il tenore testuale della disposizione censurata, che fa riferimento all’evenienza in cui la domanda sia accolta «in misura non superiore» all’eventuale proposta conciliativa, mostra che è preso in considerazione segnatamente il rifiuto dell’attore e che la proposta è quindi quella del convenuto.

 

E, anche ove il giudice rimettente avesse in ipotesi ritenuto che la proposta fosse stata formulata, nel caso di specie, (anche) dalla parte convenuta, per aver quest’ultima aderito alla proposta conciliativa del giudice, potrebbe comunque non venire in rilievo l’art. 91, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ. ove ritenuto non applicabile nel processo del lavoro.

 

Tale disposizione si risolve in una “sanzione” per la parte che agisce in giudizio ed è quindi di dubbia compatibilità – ciò di cui non ha tenuto conto la Corte rimettente – con un processo, come quello del lavoro, che si caratterizza per una serie di norme di favore per il lavoratore, per lo più parte ricorrente, volte a tenere in considerazione la sua strutturale debolezza, anche sotto il profilo economico. Essa, infatti, elevando il rischio della lite per l’attore, e quindi per il lavoratore, parte ricorrente, finirebbe – piuttosto che favorire quest’ultimo – per indurlo a non insistere nel chiedere integralmente quanto dedotto nella domanda a causa del rischio dei costi che sarebbe tenuto a sopportare qualora, accolta parzialmente la domanda, l’esito della controversia fosse meno favorevole (o equivalente) al contenuto della proposta proveniente dall’altra parte.

 

Comunque, nel processo del lavoro è previsto, per entrambe le parti, il rifiuto senza giustificato motivo della proposta conciliativa proveniente dal giudice (art. 420 cod. proc. civ.); rifiuto che trova un’autonoma e completa regolamentazione, nella previsione, come già sopra evidenziato, della possibilità per il giudice di valutarlo ai fini della regolamentazione delle spese processuali.

 

7.– Invece le questioni di legittimità costituzionale che investono l’art. 420, primo comma, cod. proc. civ. – pur ammissibili, avendo il giudice rimettente motivato puntualmente la loro rilevanza e non manifesta infondatezza – non sono fondate.

 

Invero l’art. 420, primo comma, cod. proc. civ., a differenza dell’art. 91, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ., consente al giudice, ove la proposta conciliativa o transattiva, formulata dallo stesso all’udienza di discussione, non sia stata accettata, di tenere conto in modo simmetrico per ciascuna delle parti in causa, ai fini della sola regolamentazione delle spese, del rifiuto di tale proposta senza giustificato motivo.

 

Tale facoltà, peraltro, non si traduce nel potere del giudice di condannare alle spese la parte che sia risultata parzialmente vittoriosa (pur in misura equivalente o inferiore all’importo oggetto della proposta non accettata), essendo invalicabile, in difetto di un’espressa previsione normativa in senso contrario, il principio generale della soccombenza (ex multis, Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 22 ottobre 2020, n. 23044; sezione terza civile, ordinanza 24 ottobre 2018, n. 26918), salva l’ipotesi dell’abuso del processo sub specie di violazione del dovere di lealtà e di probità (art. 88 cod. proc. civ.), che qui non viene in rilievo.

 

Ne deriva che il potere del giudice del lavoro di tenere conto del rifiuto ingiustificato della proposta conciliativa o transattiva dallo stesso formulata all’udienza di discussione ai fini della statuizione sulle spese di lite non si traduce altro che nella possibilità di compensarle legittimamente, in tutto o in parte, anche ove non ricorrano i presupposti di cui all’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ.

 

Peraltro, ciò avviene senza alcuna forma di automatismo, diversamente dall’ipotesi contemplata dall’art. 91, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ., in quanto il giudice ha solo la facoltà, e non già l’obbligo, di considerare tale condotta ai fini della decisione sul riparto delle spese processuali.

 

L’art. 420, primo comma, cod. proc. civ. non viola, quindi, gli artt. 3, 24 e 117, primo comma, Cost. (quest’ultimo in relazione agli artt. 6, 13 e 14 CEDU e all’art. 47 CDFUE), in quanto non pone un ostacolo al lavoratore, pur parte “debole” del rapporto, all’accesso e alla piena realizzazione della tutela giurisdizionale, limitandosi ad ampliare il novero delle ipotesi nelle quali il giudice, motivatamente, può compensare, a fronte di una condotta comunque ingiustificata della parte, le spese di lite.

 

In effetti, come più volte affermato da questa Corte, sebbene il principio victus victori, espresso dalla prima parte dell’art. 91 cod. proc. civ., costituisca un completamento del diritto di azione in giudizio sancito dall’art. 24 Cost., laddove evita che le spese del giudizio vengano poste a carico della parte che ha ragione, tuttavia siffatto principio, pur di carattere generale, non è assoluto ed inderogabile (sentenza n. 77 del 2018), rientrando nella discrezionalità del legislatore la possibilità di modulare l’applicazione della regola generale secondo cui alla soccombenza nella causa si accompagna la condanna al pagamento delle spese di lite (sentenza n. 196 del 1982).

 

Ed infatti, proprio nella conformazione degli istituti processuali, nella quale rientra la disciplina delle spese del processo, il legislatore gode di ampia discrezionalità, con il solo limite della manifesta irragionevolezza (ex plurimis, sentenze n. 58 e n. 47 del 2020; n. 271 e n. 97 del 2019; n. 225, n. 77 e n. 45 del 2018; ordinanza n. 3 del 2020); limite che nella fattispecie in esame può dirsi rispettato.

 

8.– Né parimenti sono fondate le questioni che attengono alla violazione degli artt. 4, 35 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo rispetto all’art. 21 CDFUE, poiché la possibilità del giudice di vagliare in modo simmetrico la condotta di entrambe le parti in causa, e non del solo lavoratore, per la statuizione sulle spese di lite – in vista di un’eventuale compensazione e non già di una condanna alle stesse esclusivamente della parte vittoriosa – rispetto all’ingiustificato rifiuto di una proposta conciliativa, esclude ogni forma di potenziale discriminazione in danno del lavoratore.

 

Invero, come di recente sottolineato da questa Corte, la qualità di «lavoratore» della parte che agisce (o resiste), nel giudizio avente ad oggetto diritti ed obblighi nascenti dal rapporto di lavoro, non costituisce, di per sé sola, ragione sufficiente – pur nell’ottica della tendenziale rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale alla tutela giurisdizionale (art. 3, secondo comma, Cost.) − per derogare al generale canone di par condicio processuale espresso dal secondo comma dell’art. 111 Cost., e ciò vieppiù tenendo conto della circostanza che la situazione di disparità in cui, in concreto, venga a trovarsi la parte «debole» trova un possibile riequilibrio, secondo il disposto del terzo comma dell’art. 24 Cost., in «appositi istituti» diretti ad assicurare «ai non abbienti […] i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione» (sentenza n. 77 del 2018).

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 91, primo comma, secondo periodo, del codice di procedura civile, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35 e 117 primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 6, 13 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, nonché agli artt. 21 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, dalla Corte di appello di Napoli, sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

 

2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 420, primo comma, cod. proc. civ., sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6, 13 e 14 CEDU, nonché agli artt. 21 e 47 CDFUE, dalla Corte di appello di Napoli, sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 novembre 2020.

 

F.to:

 

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

 

Giovanni AMOROSO, Redattore

 

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

 

Depositata in Cancelleria l'11 dicembre 2020.