Ordinanza n. 261 del 2020

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ORDINANZA N. 261

 

ANNO 2020

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente: Mario Rosario MORELLI;

 

Giudici: Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA,

 

ha pronunciato la seguente

 

ORDINANZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 5-quater, comma 1, lettera b), e 5-quinquies, comma 10, del decreto-legge 28 giugno 1990, n. 167 (Rilevazione a fini fiscali di taluni trasferimenti da e per l’estero di denaro, titoli e valori), convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 1990, n. 227, e dell’art. 6, comma 3, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472 (Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, a norma dell’articolo 3, comma 133, della legge 23 dicembre 1996, n. 662), promosso dalla Commissione tributaria provinciale di Genova nel procedimento vertente tra P. B. e l’Agenzia delle entrate - Direzione provinciale di Genova, con ordinanza del 7 gennaio 2019, iscritta al n. 74 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell’anno 2019.

 

Visti l’atto di costituzione di P. B., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell’udienza pubblica del 4 novembre 2020 il Giudice relatore Luca Antonini;

 

uditi gli avvocati Nicolò Raggi e Andrea Manzi per P. B. e l’avvocato dello Stato Fabrizio Urbani Neri per il Presidente del Consiglio dei ministri, in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1) del decreto del Presidente della Corte del 30 ottobre 2020;

 

deliberato nella camera di consiglio del 4 novembre 2020.

 

Ritenuto che, con ordinanza del 7 gennaio 2019, la Commissione tributaria provinciale di Genova ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27, 53, 97 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5-quater, comma 1, lettera b) del decreto-legge 28 giugno 1990, n. 167 (Rilevazione a fini fiscali di taluni trasferimenti da e per l’estero di denaro, titoli e valori), convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 1990, n. 227, nella parte in cui prevede che «[i]l mancato pagamento di una delle rate comporta il venir meno degli effetti della procedura» di collaborazione volontaria (cosiddetta voluntary disclosure) e dell’art. 5-quinquies, comma 10, del medesimo d.l., nella parte in cui prevede che se il contribuente «non versa le somme dovute nei termini previsti dall’art. 5-quater, comma 1, lettera b), la procedura di collaborazione volontaria non si perfeziona e non si producono gli effetti di cui ai commi 1, 4, 6 e 7 del presente articolo», ovverosia gli effetti premiali della voluntary disclosure, con conseguente ripresa dell’attività ordinaria accertativa e sanzionatoria da parte dell’Agenzia delle entrate;

 

che il rimettente ha altresì prospettato, in riferimento agli artt. 3, 27 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 3, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472 (Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, a norma dell’articolo 3, comma 133, della legge 23 dicembre 1996, n. 662), «come interpretato» dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, per il quale il contribuente non è assoggettato a sanzione solo «se dimostr[i] che il pagamento del tributo non è stato eseguito per fatto denunciato all’autorità giudiziaria e addebitabile esclusivamente a terzi», nella parte in cui non consente l’applicabilità dell'esimente ai casi di «responsabilità oggettiva per fatto altrui senza possibilità di fornire alcuna prova a proprio favore»;

 

che le questioni sono sorte nel corso di un giudizio promosso da P. B. per l’annullamento di un avviso di contestazione di sanzioni pecuniarie, in misura ordinaria, per violazioni in materia di monitoraggio fiscale relativamente agli anni 2009-2013;

 

che, secondo la prospettazione del rimettente, la contribuente, avviata la procedura di voluntary disclosure, aveva poi omesso di versare nei termini le somme dovute e aveva quindi subìto il mancato perfezionamento della procedura e l’applicazione delle sanzioni piene rispetto alle annualità in cui si era autodenunciata;

 

che, pur risultando «[p]acifico e non contestato che il pagamento di quanto dovuto a titolo di voluntary disclosure era avvenuto in ritardo rispetto ai termini previsti», l’intempestività del versamento era da ascrivere unicamente al comportamento omissivo del consulente incaricato dell’espletamento della pratica, al cui indirizzo di posta elettronica certificata la contribuente aveva scelto che arrivassero tutte le notifiche inerenti la procedura;

 

che nessuna responsabilità sarebbe attribuibile alla contribuente, né quale culpa in eligendo, né in vigilando, anche considerato che «pochi giorni dopo aver appreso della mancata comunicazione, essa si era prontamente attivata per il pagamento»;

 

che, illustrati i tratti essenziali della disciplina della voluntary disclosure, ad avviso del rimettente, nella specie, dato il «carattere sostanziale» della «violazione», sarebbe da escludere l’applicabilità sia della disciplina del “lieve inadempimento” di cui all’art. 15-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), che quella dell’esimente per natura meramente formale della violazione di cui all’art. 6, comma 5-bis, del menzionato d.lgs. n. 472 del 1997;

 

che la previsione del venir meno degli effetti della procedura in conseguenza del mancato pagamento nei termini (senza differenziare il pagamento tardivo da quello omesso) avrebbe «carattere sanzionatorio in senso lato» e sostanzialmente penale secondo i cosiddetti “criteri Engel”, sia in forza delle «gravi conseguenze anche sul piano penale conseguenti al mancato perfezionamento del beneficio della voluntary disclosure e alla infruttuosa autodenuncia del contribuente», sia «perché dal mancato pagamento nei termini di legge è scaturita una specifica sanzione (tributaria) inflitta alla B. equiparabile, per quanto infra, ad una sanzione penale»;

 

che la decadenza dal regime della voluntary disclosure integrerebbe «una responsabilità oggettiva per fatto altrui senza possibilità di fornire alcuna prova a proprio favore»;

 

che, sulla base di tali premesse, gli artt. 5-quater, comma 1, lettera b), e 5-quinquies, comma 10, del d.l. n. 167 del 1990 contrasterebbero con:

 

a) l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, come interpretati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo (decisioni 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi; 21 febbraio 1984, Öztürk contro Germania; 1° febbraio 2005, Ziliberberg contro Moldavia);

 

b) l’art. 27 Cost., con riferimento al principio di personalità della pena, che «implica il divieto della responsabilità oggettiva, relativo a situazioni in cui gli elementi più significativi della fattispecie non siano coperti almeno dalla colpa dell’agente», perché determinerebbero l’attribuzione di una responsabilità oggettiva;

 

c) l’art. 3 Cost., con riferimento al principio di ragionevolezza che «esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso», perché equiparerebbero «un semplice ritardo nell’adempimento dei doveri tributari alla ben più grave omissione», peraltro configurando una «pena fissa»;

 

d) gli artt. 3 e 97 Cost., con riferimento, rispettivamente, ai principi di uguaglianza e di imparzialità dell’agire della pubblica amministrazione, perché, tenuto conto della riapertura dei termini per accedere alla procedura di collaborazione volontaria disposti dall’art. 7 del decreto-legge 22 ottobre 2016, n. 193 (Disposizioni urgenti in materia fiscale e per il finanziamento di esigenze indifferibili), convertito con modificazioni nella legge 1° dicembre 2016, n. 225, stabilirebbero per «il contribuente che avesse versato in ritardo il dovuto a titolo di voluntary disclosure […] un trattamento deteriore rispetto a colui la cui istanza fosse stata ritenuta inammissibile e/o improcedibile»;

 

e) l’art. 53 Cost., perché, «imponendo al contribuente che avesse inteso fruire del beneficio fiscale il rispetto di termini incongrui, non suscettibili di alcuna via di uscita», denoterebbero «un uso distorto dello strumento sanzionatorio», perseguendo «il fine di assicurare un prelievo di ricchezza» senza tener conto della capacità contributiva del soggetto agente;

 

che, ad avviso del rimettente, di tale disciplina non sarebbe possibile fornire un’interpretazione costituzionalmente orientata;

 

che, sulla scorta dei medesimi presupposti interpretativi, l’art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 472 del 1997, per il quale il contribuente non è assoggettato a sanzione solo «se dimostr[i] che il pagamento del tributo non è stato eseguito per fatto denunciato all’autorità giudiziaria e addebitabile esclusivamente a terzi», nella parte in cui non consente l’applicabilità dell’esimente ai casi di «responsabilità oggettiva per fatto altrui senza possibilità di fornire alcuna prova a proprio favore», violerebbe:

 

a) l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, come interpretati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo (decisioni 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi; 21 febbraio 1984, Öztürk contro Germania; 1° febbraio 2005, Ziliberberg contro Moldavia);

 

b) l’art. 27 Cost., con riferimento al principio di personalità della pena;

 

c) l’art. 3 Cost., con riferimento al principio di ragionevolezza;

 

che, ai fini della rilevanza, le disposizioni censurate sarebbero «l’unico ostacolo che si frappone all’accoglimento del ricorso» della B., in quanto «le ulteriori censure, ove accolte, comporterebbero solo una rimodulazione della sanzione»;

 

che, con atto depositato il 10 giugno 2019, si è costituita la contribuente, la quale, condividendo i presupposti interpretativi del rimettente, ritiene però che i dubbi di costituzionalità rilevanti nel giudizio a quo siano solo quelli riferiti alla disciplina della procedura di voluntary disclosure, in quanto nel ricorso introduttivo non è stata chiesta l’applicazione dell’esimente del censurato art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 472 del 1997;

 

che, diversamente da quanto concluso dal giudice a quo, sarebbe possibile pervenire a un’interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina censurata che consenta la rimessione in termini del contribuente, in applicazione del principio di cui all’art. 6, comma 1, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente) relativo alla effettiva conoscenza degli atti destinati al contribuente;

 

che, con atto depositato l’11 giugno 2019, è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili e, comunque, infondate;

 

che, premesso il carattere straordinario e prettamente premiale della disciplina della voluntary disclosure, ad avviso dell’Avvocatura l’inammissibilità conseguirebbe all’incongruenza tra motivazione e dispositivo, in quanto a fronte di una richiesta di pronuncia ablativa delle disposizioni censurate, dalla motivazione si evincerebbe una richiesta additivo-manipolativa;

 

che, in ogni caso, nel tentativo di sciogliere la menzionata incongruenza, da un lato l’intervento ablativo determinerebbe l’inammissibile effetto di rendere del tutto privo di conseguenze il ritardo nel pagamento delle somme dovute, ostacolando l’attivarsi di qualsiasi attività degli uffici volta al recupero delle somme già illegittimamente sottratte all’erario, e, dall’altro lato, in mancanza di soluzioni costituzionalmente obbligate, una pronuncia additiva sarebbe parimenti inammissibile;

 

che, nel merito, le questioni sarebbero comunque infondate poiché «la selezione delle conseguenze, latamente sanzionatorie, previste in caso di violazione, non può che essere riservata alla discrezionalità propria del legislatore, non sindacabile se non a fronte di patenti disparità di trattamento connotate da irrazionalità»;

 

che, peraltro, quanto alla questione formulata con riferimento all’art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 472 del 1997, il rimettente non si sarebbe per nulla confrontato con ordinanza n. 53 del 2002 di questa Corte, che ha dichiarato la manifesta infondatezza di analoghe questioni di illegittimità;

 

che, infine, quanto alle ulteriori questioni relative ai censurati artt. 5-quater e 5-quinquies, non sarebbe condivisibile la ricostruzione del rimettente volta a collocare sul piano sanzionatorio penale, anziché su quello della mera decadenza dal regime particolare, le conseguenze del mancato pagamento nel termine.

 

Considerato che la Commissione tributaria provinciale di Genova dubita della legittimità costituzionale: a) degli artt. 5-quater, comma 1, lettera b), e 5-quinquies, comma 10, del decreto-legge 28 giugno 1990, n. 167 (Rilevazione a fini fiscali di taluni trasferimenti da e per l’estero di denaro, titoli e valori), convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 1990, n. 227, introdotti dall’art. 1 della legge 15 dicembre 2014, n. 186 (Disposizioni in materia di emersione e rientro di capitali detenuti all’estero nonché per il potenziamento della lotta all’evasione fiscale. Disposizioni in materia di autoriciclaggio), nella parte in cui prevedono che il mancato pagamento nel termine comporta il venir meno degli effetti della procedura di collaborazione volontaria, per violazione degli artt. 3, 27, 53, 97 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848; b) dell’art. 6, comma 3, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472 (Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, a norma dell’articolo 3, comma 133, della legge 23 dicembre 1996, n. 662), per violazione degli artt. 3, 27 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU;

 

che le questioni sollevate dal rimettente sono afflitte da plurime ragioni di inammissibilità, in primo luogo per inadeguata ricostruzione del quadro normativo (sentenze n. 134 del 2018, ordinanza n. 115 del 2015; sentenze nn. 367 e 190 del 2010);

 

che il rimettente non considera adeguatamente che i censurati articoli della disciplina di voluntary disclosure sono stati introdotti nell’ambito di una procedura eccezionale rivolta a consentire, per un circoscritto periodo di tempo, ai contribuenti di riparare alle infedeltà dichiarative, presentando un’autodenuncia completa delle violazioni tributarie commesse, con conseguente obbligo di versare, entro termini perentori, imposte e interessi in misura piena, ottenendo, al contempo, una considerevole riduzione delle sanzioni amministrative e la non punibilità penale di alcuni connessi reati fiscali;

 

che risulta conseguentemente erronea l’affermazione del rimettente circa la natura sanzionatoria della censurata disciplina di voluntary disclosure;

 

che trattasi, invece, di mera disciplina della decadenza, in realtà essenziale ai fini di una corretta applicazione dell’eccezionale procedura e di non pregiudicare oltremodo l’ordinaria applicazione delle norme sanzionatorie poste a presidio dell’inderogabilità del dovere tributario (sentenza n. 288 del 2019);

 

che, stante quanto previsto dall’art. 1, comma 133, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)», che prevede che sia il contribuente stesso ad avanzare specifica richiesta, puntualmente sottoscritta, dell’esclusiva notifica a mezzo di posta elettronica certificata di tutti gli atti inerenti la procedura proprio presso l’indirizzo del professionista, non è in realtà configurabile nella fattispecie alcuna forma di responsabilità oggettiva;

 

che il rimettente, peraltro, omette completamente di confrontarsi con le motivazioni dell’ordinanza di manifesta infondatezza n. 53 del 2002, pronunciata da questa Corte su fattispecie similare in relazione alla censurata esimente prevista dall’art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 472 del 1997;

 

che, in secondo luogo, le censure sugli artt. 5-quater, comma 1, lettera b), e 5-quinquies, comma 10, del d.l. n. 167 del 1990, scontano una incongruenza tra motivazione e dispositivo, in quanto, a fronte di una richiesta di pronuncia ablativa, dalla motivazione si evince la richiesta di un intervento di tipo additivo-manipolativo;

 

che tale incongruenza non può essere sciolta da questa Corte, risolvendosi in un’ambiguità del petitum (ex plurimis, sentenze n. 220 del 2014, n. 220 del 2012 e n. 117 del 2011; ordinanze n. 184 del 2018, n. 269 del 2015, n. 335 e n. 21 del 2011);

 

che sarebbe, infatti, inammissibile una pronuncia meramente demolitoria, perché lascerebbe del tutto privo di disciplina il versamento tardivo, impedendo ogni possibilità di recupero delle somme illegittimamente sottratte all’erario, dando quindi «luogo ad un assetto non in linea con le coordinate generali del sistema» (sentenza n. 163 del 2014);

 

che, altresì, sarebbe inammissibile un intervento additivo, perché in presenza di una pluralità di opzioni dirette a ovviare al vulnus lamentato dal rimettente, tale intervento risulterebbe invadere lo spazio riservato al legislatore (sentenza n. 126 del 2015);

 

che, pertanto, le questioni sollevate sono manifestamente inammissibili.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

1) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5-quater, comma 1, lettera b), e 5-quinquies, comma 10, del decreto-legge 28 giugno 1990, n. 167 (Rilevazione a fini fiscali di taluni trasferimenti da e per l’estero di denaro, titoli e valori), convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 1990, n. 227, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 27, 53, 97 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Commissione tributaria provinciale di Genova con la ordinanza indicata in epigrafe;

 

2) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 3, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472 (Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, a norma dell'articolo 3, comma 133, della legge 23 dicembre 1996, n. 662), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 27 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, dalla Commissione tributaria provinciale di Genova con la ordinanza indicata in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 novembre 2020.

 

F.to:

 

Mario Rosario MORELLI, Presidente

 

Luca ANTONINI, Redattore

 

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

 

Depositata in Cancelleria il 3 dicembre 2020.