Sentenza n. 171 del 2020

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SENTENZA N. 171

ANNO 2020

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente: Marta CARTABIA;

 

Giudici: Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,

 

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 4, della legge 5 marzo 2001, n. 57 (Disposizioni in materia di apertura e regolazione dei mercati), modificativo dell’art. 15, comma 1, della legge 10 ottobre 1990, n. 287 (Norme per la tutela della concorrenza e del mercato), promossi dal Consiglio di Stato, sezione sesta, con due ordinanze del 14 maggio 2019, iscritte, rispettivamente, ai numeri 146 e 147 del 2019 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2019.

 

Visti gli atti di costituzione della società Cave Rocca srl e dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM), nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell’udienza pubblica del 7 luglio 2020 il Giudice relatore Giuliano Amato;

 

uditi l’avvocato Michele Arcangelo Massari per Cave Rocca srl e l’avvocato dello Stato Paolo Gentili per l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) e per il Presidente del Consiglio dei ministri;

 

deliberato nella camera di consiglio del 7 luglio 2020.

 

Ritenuto in fatto

 

1.– Il Consiglio di Stato, sezione sesta, con due ordinanze del 14 maggio 2019 (reg. ord. n. 146 e n. 147 del 2019), di analogo tenore, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione – quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 4, della legge 5 marzo 2001, n. 57 (Disposizioni in materia di apertura e regolazione dei mercati).

 

1.1.− La disposizione censurata modifica l’art. 15, comma 1, della legge 10 ottobre 1990, n. 287 (Norme per la tutela della concorrenza e del mercato), che disciplina le diffide e le sanzioni irrogate dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM), in materia di intese restrittive della libertà di concorrenza e di abuso di posizione dominante. In particolare, riguardo alla quantificazione delle sanzioni amministrative pecuniarie, l’originaria previsione di una misura compresa tra l’uno e il dieci per cento – calcolata sul fatturato realizzato in ciascuna impresa o ente, in riferimento ai prodotti oggetto dell’intesa o dell’abuso di posizione dominante e nell’ultimo esercizio chiuso anteriormente alla notificazione della diffida – viene sostituita dall’indicazione del solo massimo edittale del dieci per cento, in rapporto però al fatturato globale realizzato dall’impresa nell’ultimo esercizio.

 

2.− Premette in fatto il giudice a quo che l’AGCM, con provvedimento del 29 luglio 2004, n. 13457, ha riscontrato l’esistenza di un’intesa vietata ai sensi dell’art. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130, operante dal 1999 alla fine del 2002, fra imprese produttrici di calcestruzzo preconfezionato e volta a ripartire le forniture destinate a vari cantieri edili nella zona di Milano. Di conseguenza, l’Autorità ha irrogato una sanzione amministrativa pecuniaria alle imprese partecipanti – tra cui rientravano anche Cave Rocca srl (per un importo pari a euro 800.000) e Monteverde Calcestruzzi spa (per euro 35.000) – ordinando di pagare tale sanzione entro novanta giorni dalla notifica dello stesso provvedimento, termine oltre il quale sarebbe stata dovuta la maggiorazione di cui all’art. 27, comma 6, della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale).

 

Con sentenza 2 dicembre 2005, n. 12835, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione prima, ha parzialmente annullato tale provvedimento, nella parte in cui le relative sanzioni non risultavano proporzionate ai limitati effetti dell’intesa, trattandosi d’infrazione da non qualificarsi come «molto grave», ma soltanto «grave». Il Consiglio di Stato, sezione sesta, con la sentenza 29 settembre 2009, n. 5864, ha confermato in sede d’appello la natura solo «grave» dell’intesa, riducendo altresì il periodo di durata a quello intercorrente tra settembre 1999 e dicembre 2000. Da qui la decisione ha altresì desunto la necessità di applicare le sanzioni ai sensi della formulazione originaria dell’art. 15, comma 1, della legge n. 287 del 1990, poiché l’intesa non si era protratta sino all’entrata in vigore della novella legislativa.

 

In ottemperanza a tale decisione l’AGCM, con deliberazione del 10 dicembre 2013, ha rideterminato le sanzioni in euro 339.858,35 per Cave Rocca srl (ossia l’1,5 per cento del fatturato specifico di riferimento) e in euro 35.000 per Monte Verde Calcestruzzi spa (confermando la sanzione, onde escludere una reformatio in peius del precedente provvedimento, sebbene l’uno per cento del fatturato specifico ammontasse a € 39.224). Restavano confermate, inoltre, le maggiorazioni per il ritardo, da calcolare sui nuovi importi, per il periodo compreso dal giorno successivo alla scadenza del termine in origine fissato per pagare la sanzione sino a quello di deposito della citata sentenza n. 5864 del 2009.

 

Anche tale deliberazione dell’AGCM è stata impugnata innanzi al TAR Lazio, che, con le sentenze 25 febbraio 2015, n. 3341 e n. 3342, ha parzialmente annullato la stessa e rideterminato le sanzioni per Cave Rocca srl in euro 204.000 e per Monte Verde Calcestruzzi spa in euro 10.500, ritenendo applicabile la disciplina, asserita più favorevole, prevista dalla novella del 2001. Inoltre, è stata esclusa l’applicazione delle maggiorazioni, in assenza dei presupposti dell’esigibilità della sanzione principale. Siffatte decisioni sono state quindi appellate dall’AGCM innanzi al collegio rimettente, in particolare per la violazione del giudicato di cui alla sentenza del Consiglio di Stato n. 5864 del 2009, nonché in quanto non sarebbe stata prevista né imposta un’applicazione retroattiva delle nuove sanzioni.

 

2.1.− Ciò premesso, secondo il giudice rimettente l’art. 15, comma 1, della legge n. 287 del 1990, come modificato dall’art. 11, comma 4, della legge n. 57 del 2001, sarebbe illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., nella parte in cui non prevede la retroattività della norma più favorevole introdotta dalla novella legislativa.

 

2.1.1.− Le questioni sarebbero anzitutto rilevanti, perché le norme citate dovrebbero senz’altro trovare applicazione nel caso oggetto del giudizio (sul punto sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 174 del 2016 e n. 77 del 1983).

 

L’art. 11, comma 4, della legge n. 57 del 2001, infatti, nulla dice in ordine alla sua retroattività, che dovrebbe quindi essere esclusa ai sensi dell’art. 1 della legge n. 689 del 1981 (sul punto si richiama la sentenza di questa Corte n. 193 del 2016). Dunque, in caso di accoglimento delle questioni, l’appello promosso dall’AGCM andrebbe respinto in relazione ai motivi inerenti alla rideterminazione effettuata dal TAR Lazio.

 

A differenti conclusioni non potrebbe giungersi neppure considerando il motivo d’appello relativo all’intervenuto giudicato di cui alla citata sentenza del Consiglio di Stato n. 5864 del 2009. Infatti, sebbene il giudicato concerna anche la qualificazione giuridica dei fatti, a cui dunque è necessario attenersi per l’effetto conformativo del giudicato stesso (sul principio si richiama Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 6 agosto 2013, n. 4119), nel caso di specie dovrebbe farsi applicazione delle conclusioni della giurisprudenza di legittimità per le sanzioni penali (con particolare riferimento a Cassazione penale, sezioni unite, sentenze 7 maggio 2014, n. 18821 e 14 ottobre 2014, n. 42858). Secondo tale orientamento, il rapporto deve ritenersi esaurito non semplicemente quando su di esso si sia formato un giudicato, ma soltanto con l’esecuzione dell’ultimo frammento di pena. Pertanto, poiché la norma dichiarata incostituzionale sarebbe invalida fin dal momento in cui è venuta a esistere, tale invalidità potrebbe essere comunque fatta valere sin quando permane ancora l’esecuzione della sanzione da essa prevista, a prescindere dalla formazione di un giudicato. In caso contrario, infatti, si finirebbe per applicare una pena illegittima, che prescinderebbe dal principio di responsabilità personale e verrebbe meno alla sua funzione rieducativa.

 

Tali considerazioni varrebbero anche per il caso in esame, trattandosi di una sanzione amministrativa di sostanziale carattere penale.

 

La rilevanza delle questioni sussisterebbe, infine, anche sotto un altro profilo, ovvero per l’impossibilità di pervenire all’affermazione della retroattività della norma più favorevole per mezzo di un’interpretazione conforme a Costituzione. Ai fini del giudizio di costituzionalità, infatti, le norme andrebbero considerate secondo l’interpretazione datane dal diritto vivente (in tal senso si richiama la sentenza di questa Corte n. 120 del 1984), che sarebbe costante nel senso della non retroattività della norma sanzionatoria amministrativa più favorevole (sono richiamate Cassazione civile, sezione sesta, ordinanza 28 dicembre 2011, n. 29411 e sezione prima, sentenza 6 febbraio 1997, n. 1127).

 

2.1.2.− In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo richiama quanto affermato dalla giurisprudenza costituzionale nelle sentenze n. 63 del 2019 e n. 193 del 2016.

 

Ivi, questa Corte avrebbe evidenziato che un principio costituzionale di retroattività della norma sanzionatoria più favorevole (lex mitior), pur non espresso dall’art. 25 Cost., ma desumibile dall’art. 3 Cost., opera per le sanzioni penali, così qualificate in modo espresso dal legislatore, per cui è ragionevole che il medesimo fatto vada sanzionato nello stesso modo, senza che rilevi se commesso prima o dopo l’entrata in vigore della norma più favorevole (sono richiamate altresì le sentenze di questa Corte n. 236 del 2011, n. 72 del 2008 e n. 394 del 2006). Lo stesso principio, inoltre, si ricaverebbe dall’art. 7 CEDU, che, in virtù dell’art. 117, primo comma, Cost., assume rango costituzionale (si richiama a tal proposito la sentenza di questa Corte n. 236 del 2011).

 

Identico principio, alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (si richiamano le sentenze della grande camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, e 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi), dovrebbe affermarsi per la sanzione che, pur qualificata come amministrativa, protegga erga omnes beni della collettività ovvero comporti sanzioni di natura e severità sostanzialmente pari alla sanzione penale.

 

Nel caso di specie, l’art. 15, comma 1, della legge n. 287 del 1990, da un lato proteggerebbe beni rilevanti per tutta la collettività dei cittadini, come la concorrenza e la correttezza nelle relazioni di mercato, dall’altro prevedrebbe sanzioni della stessa natura di quelle pecuniarie penali, oltretutto per importi non trascurabili, con una notevole forza afflittiva.

 

Non rileverebbe neppure la circostanza per cui queste sanzioni sono applicate a imprese costituite in forma di persone giuridiche, poiché un pregiudizio al patrimonio della società verrebbe comunque sopportato dai soci e l’ordinamento nazionale avrebbe da lungo tempo abbandonato il concetto tradizionale della non responsabilità penale delle persone giuridiche, a cui attualmente sarebbero infatti applicabili sanzioni penali pecuniarie.

 

Si tratterebbe, in definitiva, di una norma recante una sanzione sostanzialmente penale, che dovrebbe essere disciplinata come tale, in particolare nel senso della retroattività della norma sanzionatoria più favorevole.

 

3.− Con due atti di contenuto sostanzialmente identico, depositati in cancelleria il 15 ottobre 2019, è intervenuto in entrambi i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque infondate.

 

3.1.− In primo luogo, la difesa statale asserisce l’inammissibilità delle questioni per difetto di motivazione sulla natura sostanzialmente penale delle sanzioni amministrative in esame.

 

Come è noto, argomenta infatti l’Avvocatura, la Corte di Strasburgo, nella sua costante giurisprudenza (a partire dalle già citata sentenza Engel e dalla sentenza della sezione seconda, 4 marzo 2014, Grande Stevens contro Italia), ha statuito che, al fine di stabilire la sussistenza di una «accusa in materia penale», occorre tener presenti tre criteri (noti come “criteri Engel”) e cioè: qualificazione giuridica della misura; natura della misura; natura e grado di severità della sanzione. In forza di questi criteri, peraltro definiti come alternativi e non cumulativi, affinché possa parlarsi di «accusa in materia penale» risulta sufficiente che il fatto in causa sia di natura «penale» rispetto alla Convenzione o abbia esposto l’interessato a una sanzione che, per natura e livello di gravità, rientri in linea generale nell’ambito della «materia penale». L’alternatività dei criteri ermeneutici enucleati, tra l’altro, non impedisce di adottare un approccio unitario, se l’analisi separata di ciascuno di essi non permette di arrivare a una conclusione chiara in merito alla sussistenza di una «accusa in materia penale» (sul punto si richiama Corte europea dei diritti dell’uomo, grande camera, sentenza 23 novembre 2006, Jussila contro Finlandia).

 

Nel caso di specie, i dati economici escluderebbero che la sanzione controversa si possa configurare come particolarmente afflittiva, contenendosi, sia nelle misure edittali, sia nella concreta misura inflitta, in limiti tipici di un sistema sanzionatorio sostanzialmente, non solo nominalmente, amministrativo. Sicché resterebbe del tutto immotivata l’affermazione del rimettente, secondo cui le sanzioni in discussione sarebbero particolarmente afflittive.

 

Né meglio spiegata sarebbe l’ulteriore affermazione che la sanzione in discussione «protegge beni rilevanti per tutta la collettività dei cittadini, come la concorrenza e la correttezza nelle relazioni di mercato». Questa circostanza, infatti, oltre a non trovarsi compresa tra i “criteri Engel”, sarebbe sottesa a ogni disciplina sanzionatoria, anche sostanzialmente (oltre che formalmente) amministrativa.

 

3.2.− In secondo luogo, le questioni sarebbero comunque inammissibili per irrilevanza.

 

Il Consiglio di Stato, infatti, riconoscerebbe l’esistenza di un giudicato interno, in forza del quale la norma sanzionatoria applicabile nella fase di rideterminazione della sanzione dovrebbe essere l’art. 15, comma 1, della legge n. 287 del 1990, nel testo anteriore alle modifiche di cui all’art. 11, comma 4, della legge n. 57 del 2001. Pertanto, rispetto alla questione della norma applicabile ratione temporis, il rapporto processuale sarebbe da considerare ormai esaurito. Né potrebbe applicarsi la giurisprudenza della Corte di cassazione in tema di applicazione di norme penali, che presupporrebbe, in primis, l’attribuzione di natura sostanzialmente penale alle sanzioni in questione, cosa non dimostrata dallo stesso giudice a quo. Inoltre, tale giurisprudenza si riferirebbe a una sanzione come quella detentiva, la cui applicazione non dipende dalla volontà del soggetto sanzionato, mentre sarebbe inapplicabile al caso di sanzioni amministrative pecuniarie, ché altrimenti si potrebbe impedire il completamento dell’esecuzione della sanzione rendendosi inadempienti al pagamento di una somma, nel contempo pretendendo che il rapporto esecutivo della sanzione si consideri ancora aperto.

 

3.3.− Nel merito le questioni sarebbero da considerarsi in ogni caso manifestamente infondate.

 

Andrebbe infatti confermato il punto di vista espresso da questa Corte nella sentenza n. 193 del 2016, secondo cui l’art. 7 CEDU non impone a livello costituzionale interno la retroattività delle modifiche migliorative in materia di sanzioni amministrative, ma lascia tale decisione alla discrezionalità legislativa.

 

Ciò troverebbe conferma anche nella sentenza di questa Corte n. 223 del 2018, che avrebbe soltanto affermato, nei casi in cui in concreto il trattamento sanzionatorio amministrativo risulti più gravoso di un previgente trattamento penale, l’applicazione di quest’ultimo in forza del principio di irretroattività delle modifiche in peius. La sentenza non avrebbe in alcun modo affrontato, invece, la diversa questione se l’art. 7 CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, cioè comprensivo anche del principio di retroattività delle modifiche in melius, debba valere anche nell’ipotesi di semplice successione di sanzioni tutte indiscutibilmente qualificate come amministrative.

 

Né potrebbe avere rilievo, come sembra ritenere il rimettente, la sentenza di questa Corte n. 63 del 2019, concernente le modifiche in materia di confisca amministrativa per equivalente, considerata misura di «elevatissima carica afflittiva», e non semplici modifiche alla misura e alla base applicativa di una sanzione pecuniaria da sempre prevista nell’ordinamento. Il giudice a quo avrebbe allora dovuto indagare se, come statuito proprio da siffatta pronuncia, nella fattispecie «sussistano ragioni cogenti di tutela di controinteressi di rango costituzionale, tali da resistere al medesimo “vaglio positivo di ragionevolezza”, al cui metro debbono essere in linea generale valutate le deroghe al principio di retroattività in mitius nella materia penale».

 

Nella specie, rendere la disciplina antitrust aperta a modifiche retroattive indebolirebbe indubbiamente il quadro di riferimento che essa rappresenta per le imprese e favorirebbe comportamenti orientati all’aspettativa di modifiche. Inoltre, e correlativamente, la finalità specifica delle sanzioni antitrust sarebbe il ripristino di corrette condizioni di concorrenza alterate dall’illecito. Perciò sarebbe conforme all’equilibrio del sistema che il ripristino avvenga facendo riferimento all’epoca prossima a quella dell’accertamento dell’illecito e alla normativa vigente in quel periodo, che stabilisce i parametri del ripristino delle corrette condizioni di concorrenza. Tenere conto della normativa dettata in periodi successivi scinderebbe, infatti, il momento di riferimento (l’anno precedente la notificazione della diffida) e il criterio legale di ripristino, che sarebbe quello previsto in relazione a periodi successivi.

 

Riguardo alla modifica dell’art. 15 della legge n. 287 del 1990, inoltre, dovrebbe considerarsi che la stessa, se da un lato conterrebbe elementi di attenuazione del regime sanzionatorio, come l’abolizione del minimo edittale dell’uno per cento, dall’altro recherebbe un significativo inasprimento, nella parte in cui modifica la base di calcolo della sanzione, trasferendola dal solo fatturato specifico all’intero fatturato dell’impresa responsabile dell’illecito.

 

La necessità di tenere conto organicamente di entrambi questi aspetti nell’applicazione, necessariamente unitaria e non parcellizzabile, della nuova disposizione, giustificherebbe, quindi, la scelta legislativa di non stabilirne la retroattività. Non sarebbe infatti prevedibile, in concreto, se nei singoli casi l’impatto applicativo della nuova disposizione si traduca effettivamente in un trattamento sanzionatorio più tenue.

 

4.− Con due memorie d’identico contenuto, depositate in cancelleria il 15 ottobre 2019, si è costituita in entrambi i giudizi l’AGCM, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, parte appellante nei giudizi a quo, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili per difetto di rilevanza e comunque non fondate.

 

4.1.− Premessa una ricostruzione delle vicende all’origine dei giudizi, si eccepisce, in primo luogo, il difetto di rilevanza delle questioni, alla luce dell’intervenuta sentenza del Consiglio di Stato n. 5864 del 2009, in forza della quale i rapporti si sarebbero esauriti, essendosi formato un giudicato.

 

Le ordinanze di rinvio, d’altronde, costituirebbero decisioni isolate rispetto a quanto parallelamente statuito dal Consiglio di Stato su ricorso delle altre imprese coinvolte nella stessa intesa restrittiva della concorrenza. Invero, già con sentenza 26 luglio 2018, n. 4577, il Consiglio di Stato, sezione sesta, aveva accolto gli appelli dell’AGCM nell’ambito del medesimo contenzioso, affermando l’irrilevanza di un’eventuale questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 4, della legge n. 57 del 2001. La medesima conclusione è poi stata ribadita dal Consiglio di Stato, sezione sesta, nelle sentenze 18 marzo 2019, n. 1762 e n. 1761, parimenti rese nell’ambito del contenzioso in questione. La singolarità e contraddittorietà delle ordinanze di rimessione rispetto alle parallele decisioni adottate dal Consiglio di Stato evidenzierebbe, dunque, l’illegittimità delle stesse nella parte in cui reputano rilevanti le questioni.

 

Ciò troverebbe conferma anche nella perplessa motivazione delle ordinanze di rinvio, che, pur premettendo la possibile irrilevanza delle questioni in virtù dell’intervenuto giudicato, si discostano da tali considerazioni in base all’applicazione al caso di specie di un orientamento giurisprudenziale consolidatosi nella diversa materia penale. Tale operazione sarebbe quantomeno forzata e discutibile. Anzitutto, perché seppure la più recente giurisprudenza della Corte di Strasburgo abbia affermato la natura «para-penale» delle sanzioni antitrust, essa lo avrebbe fatto al fine di derivarne l’applicabilità in tale materia dell’art. 6 CEDU; dunque, siffatta affermazione non comporterebbe la possibilità di mutuare nella materia delle sanzioni amministrative tutti i principi e le regole valevoli in quella penale. Inoltre, l’applicazione che il giudice del rinvio fa del principio penalistico del non esaurimento del rapporto non terrebbe conto dell’immediata esecutività del provvedimento sanzionatorio adottato dall’AGCM, con la conseguenza che la relativa ammenda dovrebbe essere pagata a seguito della sua adozione, non residuando così spazi per sostenere che l’esecuzione dell’ultimo frammento di pena non sia ancora esaurita.

 

Il Consiglio di Stato, invece, sacrificherebbe il principio di certezza del diritto e di stabilità dei rapporti giuridici a valori che esso stesso definisce diversi, salvo poi riconoscerne apoditticamente pari rango costituzionale, poiché la pena altrimenti prescinderebbe dal principio di responsabilità personale e verrebbe meno la sua funzione educativa. Considerazioni non condivisibili, in quanto le sanzioni sarebbero state rideterminate in virtù delle circostanze di fatto che avevano connotato la specifica situazione soggettiva delle due imprese. Inoltre, per Cave Rocca srl la predetta sanzione è stata ricalcolata dall’AGCM in misura notevolmente inferiore a quella inizialmente irrogata, restando comunque confermata per Monte Verde Calcestruzzi spa, in modo da assicurare a essa una pur minima funzione dissuasiva ed efficacia deterrente. Tratti che, secondo pacifica giurisprudenza nazionale ed eurounitaria, «devono connotare la sanzione antitrust, specie laddove sia stata accertata una violazione di elevata gravità» (sono richiamate le sentenze del Consiglio di Stato, sezione sesta, 21 dicembre 2017, n. 5998 e n. 5997).

 

4.2.− Nel merito le questioni non soddisferebbero il requisito della non manifesta infondatezza.

 

4.2.1.− In primo luogo, esse si fonderebbero su un presupposto non veritiero. Come osservato dal Consiglio di Stato nelle citate sentenze n. 1762 e n. 1761 del 2019, nonché nella sentenza n. 4577 del 2018, reputare che il nuovo art. 15, comma 1, della legge n. 287 del 1990 sia più favorevole del vecchio tradirebbe un «errore metodologico». Infatti, raffrontando i due regimi, ci si avvedrebbe della diversa base di computo delle sanzioni, che nella nuova disciplina va rapportata all’intero fatturato dell’impresa e non più solo al fatturato dei prodotti oggetto dell’intesa. Pertanto, se da un lato la modifica del 2001 elimina il limite minimo percentuale della sanzione, dall’altro lato la nuova versione esige che la sanzione venga determinata su una base di computo assai più ampia del passato.

 

4.2.2.− In secondo luogo, nemmeno potrebbe dirsi che le questioni oggetto di rinvio possano essere circoscritte alla retroattività della sola eliminazione del limite minimo edittale. La prospettazione di una retroattività solo «parziale» di una norma sarebbe erronea in punto di diritto, non potendosi scomporre e ricomporre le norme di legge. A far ciò, infatti, si perverrebbe al paradossale risultato cui sarebbe giunto il TAR Lazio nelle sentenze poi appellate dall’AGCM, in cui si sarebbe operata una sorta di «interpolazione» tra i due regimi. Invece, anche in materia di successione nel tempo di leggi penali, una volta individuata la disposizione complessivamente più favorevole, il giudice dovrebbe applicare questa nella sua integralità. Diversamente, infatti, si legittimerebbe l’applicazione di una norma di carattere intertemporale non prevista dal legislatore, in violazione così del principio di legalità (è richiamata Cassazione penale, sezione quarta, sentenza 28 ottobre 2005, n. 47339).

 

4.2.3.− In estremo subordine, pure se si considerasse la disciplina introdotta dall’art. 11, comma 4, della legge n. 57 del 2001 di maggior favore, le questioni sarebbero comunque infondate in riferimento alla mancata previsione della retroattività di tale disciplina.

 

Tale retroattività, infatti, sarebbe in contrasto con quanto previsto dall’art. 1 della legge n. 689 del 1981 e la conclusione non muterebbe anche laddove la questione di legittimità costituzionale fosse stata più correttamente formulata con riferimento a siffatta disposizione, la quale, come osservato dalla citata pronuncia del Consiglio di Stato n. 5864 del 2009, esclude, in virtù del principio di legalità, l’applicabilità della legge posteriore, anche laddove più favorevole. Principio confermato anche nella più recente giurisprudenza costituzionale (di cui già alle ordinanze n. 245 del 2003 e n. 140 del 2002), che ha precisato l’inapplicabilità generalizzata alle sanzioni amministrative del principio penalistico della retroattività in bonam partem (art. 2, comma 2, del codice penale), perché «se la retroattività non può essere esclusa “solo” perché la pena più mite non era prevista al momento della commissione del reato, è legittimo concludere che la soluzione può essere diversa quando le ragioni per escluderla siano altre e consistenti» (sentenza n. 236 del 2011).

 

Ciò troverebbe conferma altresì nell’orientamento del giudice comunitario, secondo cui «il rispetto del canone generale dell’irretroattività esige che le sanzioni inflitte ad un’impresa per un’infrazione in materia corrispondano a quelle che erano stabilite al momento in cui l’infrazione è stata commessa» (così Tribunale di primo grado, quarta sezione, sentenza 20 marzo 2002, causa T-23/99, LR af 1998 A/S ed altri). E anche il principio di legalità di cui all’art. 7 della CEDU imporrebbe che le sanzioni irrogate corrispondano a quelle che erano fissate all’epoca in cui la violazione è stata commessa, escludendo la retroattività della legge più sfavorevole, ma non conterrebbe un espresso principio generale di retroattività della legge più favorevole (in tal senso, si richiama Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, sentenza 28 giugno 2005, cause riunite C-189/02 P, C-202/02 P, da C-205/02 P a C-208/02 P e C-213/02 P, Dansk Rorindustri A/S ed altri; in senso conforme, sezione quinta, sentenza 18 luglio 2013, causa C-501/11 P, Schindler Holding Ltd ed altri).

 

In ogni caso, anche laddove si ritenga che da tale disposizione convenzionale discenda il principio dell’applicazione retroattiva della norma più favorevole, esso sarebbe derogabile e, in particolare, non potrebbe travolgere il giudicato (si richiama ancora la sentenza n. 236 del 2011).

 

5.− Nel giudizio relativo all’ordinanza iscritta al r.o. n. 146 del 2019, con atto depositato il 14 ottobre 2019, si è costituita la società Cave Rocca srl, parte appellata nel giudizio a quo, chiedendo l’accoglimento delle questioni sollevata dal Consiglio di Stato.

 

5.1.− Premessa una ricostruzione dei fatti, la difesa della parte privata ribadisce le conclusioni dell’ordinanza di rimessione in punto di rilevanza, nonché, nel merito, riguardo alla natura punitiva e afflittiva della sanzione in esame, con conseguente retroattività della lex mitior, come chiarito da ultimo dalla citata sentenza n. 63 del 2019.

 

Dal che deriverebbe la necessità di rideterminare la sanzione in ossequio al principio di proporzionalità, diretta espressione del generale canone di ragionevolezza ex art. 3 Cost. (si richiama sul punto la sentenza di questa Corte n. 220 del 1995). Al diritto antitrust interno, infatti, andrebbero applicati i principi di diritto europeo, tra cui rientrerebbe il fondamentale principio della proporzionalità della sanzione, sancito dall’art. 5 TFUE (recte: Trattato sull’Unione europea, firmato a Mastricht il 7 febbario 1992, entrato in vigore il 1° novembre 1993), che osterebbe alla previsione di un minimo edittale, quando nel caso concreto ciò impedisca l’applicazione proporzionale della pena.

 

In conclusione, posto che il TAR avrebbe ritenuto abnorme la quantificazione da parte dell’AGCM della sanzione a carico di Cave Rocca srl, rideterminando la stessa, ove si dovesse negare efficacia retroattiva alla modifica apportata dalla novella del 2001 all’originario testo dell’art. 15 della legge n. 287 del 1990, si finirebbe per avallare il risultato di una forzosa quantificazione della sanzione in una misura eccedente a quella ritenuta, in concreto, proporzionata e ragionevole.

 

6.− In prossimità dell’udienza del 22 aprile 2020 la società Cave Rocca srl ha presentato una memoria, integrando quanto già esposto nelle difese di cui all’atto di costituzione in giudizio.

 

6.1.− In primo luogo, la difesa della parte privata contesta le argomentazioni del Presidente del Consiglio dei ministri relative all’asserita impossibilità di applicare al caso di specie l’art. 7 della CEDU, così come i principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 63 del 2019, con specifico riferimento al regime della lex mitior.

 

La sanzione di cui all’art. 15, comma 1, della legge n. 287 del 1990, infatti, sarebbe sempre stata una sanzione amministrativa della stessa natura delle sanzioni pecuniarie penali, con un elevato grado di severità. In riferimento alla stessa, pertanto, troverebbe appunto applicazione, ai sensi della citata sentenza, l’art. 7 CEDU.

 

La formulazione successiva alla novella legislativa avrebbe senz’altro natura più favorevole, essendo tenuto il giudice amministrativo, nella rideterminazione in concreto della sanzione, a rispettare soltanto il limite massimo legislativamente previsto. L’eliminazione del minimo edittale, in tal modo, consentirebbe di calibrare l’ammontare della somma dovuta dal destinatario della sanzione in una misura congrua rispetto alla condotta dallo stesso tenuta.

 

In ciò consisterebbe l’indiscutibile portata migliorativa della nuova disciplina, non trattandosi di «scomporre e ricomporre» norme di legge o di «interpolare» il regime previgente e quello vigente, bensì di consentire una rideterminazione della sanzione nella misura che in concreto risulti ragionevole e proporzionata.

 

6.2.− In secondo luogo, infondata sarebbe l’eccezione d’inammissibilità per irrilevanza delle questioni sollevata dall’AGCM, in virtù dell’intervenuto giudicato di cui alla decisione del Consiglio di Stato n. 5864 del 2009.

 

Il giudicato, infatti, atterrebbe alla qualificazione dell’infrazione commessa, ritenuta “grave” e non “molto grave”, nonché alla durata della stessa infrazione.

 

Inoltre, come osservato dall’ordinanza di rimessione, il rapporto tra Cave Rocca srl e AGCM non potrebbe considerarsi esaurito. La società, infatti, non ha pagato la sanzione rideterminata con il provvedimento del 10 dicembre 2013, la cui esecutività è stata sospesa dal giudice di primo grado, che ha poi rideterminato la somma dovuta in euro 204.000,00. Solo tale somma, non quella di euro 339.858,39 pretesa dall’AGCM, è stata pagata. Pertanto, non vi sarebbe stata né una completa esecuzione della sanzione, né un inadempimento.

 

Inoltre, il rapporto processuale sarebbe comunque tuttora pendente innanzi al giudice rimettente, dunque anche in tal senso non potrebbe ritenersi esaurito.

 

Considerato in diritto

 

1.– Il Consiglio di Stato, con due ordinanze di analogo tenore, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione – in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 4, della legge 5 marzo 2001, n. 57 (Disposizioni in materia di apertura e regolazione dei mercati).

 

1.1.− La disposizione censurata modifica l’art. 15, comma 1, della legge 10 ottobre 1990, n. 287 (Norme per la tutela della concorrenza e del mercato), che disciplina le diffide e le sanzioni irrogate dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM), in materia di intese restrittive della libertà di concorrenza e di abuso di posizione dominante. In particolare, per le sanzioni amministrative pecuniarie, la forbice compresa fra l’uno e il dieci per cento del fatturato realizzato in ciascuna impresa o ente – in riferimento ai prodotti oggetto dell’intesa o dell’abuso di posizione dominante e nell’ultimo esercizio chiuso anteriormente alla notificazione della diffida – viene sostituita dal solo massimo edittale del dieci per cento del fatturato globale realizzato dall’impresa nell’ultimo esercizio.

 

2.− Secondo il giudice a quo tale disposizione sarebbe illegittima per violazione degli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., nella parte in cui non prevede la retroattività della norma introdotta dalla novella legislativa, ritenuta dal rimettente più favorevole.

 

2.1.− La sanzione di cui all’art. 15, comma 1, della legge n. 287 del 1990, infatti, da un lato, proteggerebbe beni rilevanti per tutta la collettività dei cittadini, come la concorrenza e la correttezza nelle relazioni di mercato, dall’altro, prevedrebbe sanzioni della stessa natura di quelle pecuniarie penali, oltretutto per importi non trascurabili, con una notevole forza afflittiva.

 

Si tratterebbe, quindi, di una sanzione che, sulla base dei criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (a partire dalla sentenza della grande camera 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi), avrebbe natura sostanzialmente penale. Pertanto, troverebbe applicazione, alla luce della più recente giurisprudenza costituzionale (di cui alla sentenza n. 63 del 2019), il principio della retroattività della norma sanzionatoria più favorevole, come elaborato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo (in particolare dalla sentenza della grande camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia).

 

3.− Le due ordinanze di rimessione pongono questioni identiche in relazione alla disposizione censurata e ai parametri costituzionali evocati e, pertanto, i giudizi vanno riuniti per essere congiuntamente esaminati e decisi con unica pronuncia.

 

4.− In via preliminare deve essere esaminata l’eccezione d’inammissibilità sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato per difetto di rilevanza delle questioni, in quanto i rapporti oggetto d’esame nel giudizio a quo sarebbero ormai esauriti, in virtù del giudicato di cui alla sentenza del Consiglio di Stato, sezione sesta, 29 settembre 2009, n. 5864.

 

4.1.− L’eccezione è fondata.

 

4.1.1.− Va premesso che le sanzioni irrogate in origine dall’AGCM a Cave Rocca srl e Monteverde Calcestruzzi spa, in quanto parti di un’intesa restrittiva del mercato, erano state quantificate secondo la vigente formulazione dell’art. 15, comma 1, della legge n. 287 del 1990, introdotta dall’art. 11, comma 4, della legge n. 57 del 2001, poiché l’intesa, qualificata come «molto grave», si sarebbe protratta sino al 2002.

 

In seguito al contenzioso maturato sul provvedimento dell’AGCM, il Consiglio di Stato, con la citata sentenza, confermando quanto deciso dal giudice di prime cure, ha accertato una violazione del mercato solo «grave» e limitata al periodo 1999-2000, con la conseguente inapplicabilità – da esso stesso affermata – delle nuove sanzioni introdotte dalla novella del 2001.

 

L’AGCM, pertanto, con deliberazione del 10 dicembre 2013, in ottemperanza alla decisione del Consiglio di Stato, ha rideterminato le sanzioni originariamente applicate, quantificandole non sul fatturato generale ma su quello specifico – così come previsto dall’originaria formulazione dell’art. 15, comma 1, della legge n. 287 del 1990 – nonché riducendone l’importo, in virtù della qualificazione della violazione del mercato soltanto come «grave».

 

4.1.2.− Ciò precisato, le ordinanze di rimessione riconoscono l’esistenza di un giudicato interno, in forza del quale la norma sanzionatoria applicabile nella fase di rideterminazione dovrebbe essere, appunto, quella precedente alla novella del 2001. Dal che potrebbe desumersi l’irrilevanza di un’eventuale declaratoria d’illegittimità costituzionale della disposizione censurata, poiché il giudicato precluderebbe in ogni caso l’applicazione retroattiva della sanzione più favorevole.

 

Nondimeno, secondo il giudice a quo, tale argomento sarebbe superabile alla luce dei principi elaborati dalla Corte di cassazione in tema di esecuzione delle sanzioni penali (con particolare riferimento a Cassazione penale, sezioni unite, sentenze 7 maggio 2014, n. 18821 e 14 ottobre 2014, n. 42858). Secondo tale orientamento, infatti, il rapporto deve ritenersi esaurito, non semplicemente quando su di esso si sia formato un giudicato, ma soltanto con l’esecuzione dell’ultimo «frammento di pena». Dunque, sino a quando l’esecuzione della pena è in atto, il rapporto non potrebbe ritenersi esaurito e una dichiarazione d’illegittimità costituzionale della sanzione in corso di esecuzione potrebbe comunque produrre i propri effetti. Ne deriverebbe che una declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art. 11, comma 4, della legge n. 57 del 2001, nella parte in cui non si applica retroattivamente, sarebbe rilevante nei giudizi a quo, non essendosi ancora del tutto esaurita la fase esecutiva della sanzione amministrativa pecuniaria.

 

4.1.3.− Nella giurisprudenza della Corte di cassazione richiamata dal giudice a quo, tuttavia, la possibilità d’incidere sul giudicato penale è riferita alle sanzioni penali coercitive e recanti limitazioni della libertà personale, venendo in gioco valori costituzionali che devono ragionevolmente prevalere sul principio dell’intangibilità del giudicato.

 

Siffatti profili non sono presenti nel caso di una sanzione amministrativa pecuniaria. Essa non mette in gioco beni essenziali come la libertà personale e se un «frammento» della stessa risulta ancora non eseguito, ciò dipende dalla volontà dell’interessato.

 

D’altronde, il sistema penale prevede una fase esecutiva della sanzione, in cui garante della legalità della pena è il giudice dell’esecuzione, cui compete di ricondurre la pena inflitta a legittimità. Per le sanzioni amministrative pecuniarie, invece, sia la loro irrogazione, sia la relativa fase esecutiva obbediscono a principi ben diversi, poiché il giudice preposto è investito della sola cognizione del titolo esecutivo (sentenza n. 43 del 2017).

 

Ne deriva che la declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art. 11, comma 4, della legge n. 57 del 2001 non potrebbe produrre effetti, atteso l’intervenuto esaurimento dei rapporti di cui ai giudizi a quibus in virtù del giudicato di cui alla sentenza del Consiglio di Stato n. 5864 del 2009, concernente la gravità e la durata dell’infrazione determinata dall’intesa restrittiva e, conseguentemente, la normativa applicabile ratione temporis.

 

Così, del resto, hanno deciso tutte le altre pronunce della giurisprudenza amministrativa relative al contenzioso sulla medesima intesa (Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenze 18 marzo 2019, n. 1762 e n. 1761 e 26 luglio 2018, n. 4577).

 

4.2.− Di conseguenza, le questioni devono essere dichiarate inammissibili per difetto di rilevanza, restando assorbiti anche gli ulteriori profili d’inammissibilità eccepiti dalla difesa statale e dall’AGCM.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi,

 

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 4, della legge 5 marzo 2001, n. 57 (Disposizioni in materia di apertura e regolazione dei mercati), modificativo dell’art. 15, comma 1, della legge 10 ottobre 1990, n. 287 (Norme per la tutela della concorrenza e del mercato), sollevate dal Consiglio di Stato, sezione sesta, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione – quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 – con le ordinanze indicate in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2020.

 

F.to:

 

Marta CARTABIA, Presidente

 

Giuliano AMATO, Redattore

 

Roberto MILANA, Cancelliere

 

Depositata in Cancelleria il 28 luglio 2020.