Sentenza n. 153 del 2020

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SENTENZA N. 153

 

ANNO 2020

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente: Marta CARTABIA;

 

Giudici: Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), come introdotto dall’art. 6, comma 1, lettera c), del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148, promosso dal Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia-Romagna, sezione staccata di Parma, nel procedimento vertente tra R. P. e altro e il Comune di F. e altro, con ordinanza del 22 gennaio 2019, iscritta al n. 138 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell’anno 2019.

 

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito il Giudice relatore Giancarlo Coraggio nella camera di consiglio del 24 giugno 2020, svolta ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettera a);

 

deliberato nella camera di consiglio del 25 giugno 2020.

 

Ritenuto in fatto

 

1.− Con sentenza parziale, il Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia-Romagna, sezione staccata di Parma, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 103 e 113 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi).

 

1.1.− Il rimettente espone in punto di fatto che:

 

− i ricorrenti R. P. e M. A., proprietari di un appartamento al piano terreno di un immobile condominiale, hanno chiesto l’annullamento di due segnalazioni certificate d’inizio attività (SCIA) del 6 dicembre 2016 e 21 febbraio 2017, presentate dalla condomina M. S., nonché del verbale di sopralluogo effettuato il 31 ottobre 2017 presso il citato immobile e della comunicazione con cui il Comune di F. aveva loro trasmesso tale verbale;

 

− quest’ultimi atti erano stati adottati dall’amministrazione comunale a seguito della «segnalazione di presunto abuso edilizio e di irregolarità nella presentazione di SCIA edilizie», inoltrata dai ricorrenti il 26 ottobre 2017;

 

− nel merito, il ricorso si basa sui seguenti motivi: 1) il progetto edilizio contestato avrebbe previsto una sopraelevazione della gronda e del colmo di circa sedici centimetri, in contrasto con quanto prescritto dall’art. 80 del regolamento urbanistico ed edilizio (RUE) del Comune di F.; 2) la modificazione dell’altezza interna avrebbe comportato anche un aumento di quella esterna, in violazione dell’art. 2 della legge della Regione Emilia-Romagna 6 aprile 1998, n. 11 (Recupero ai fini abitativi dei sottotetti esistenti); 3) la distanza, inferiore a dieci metri, esistente tra il fabbricato oggetto dell’intervento e quello adiacente, avrebbe dovuto impedire ogni maggiore altezza, ai sensi dell’art. 9 del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spezi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi, da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della legge n. 765 del 1967); 4) la tesi secondo cui la maggiore altezza sarebbe legittima, data la possibilità di realizzare un cordolo strutturale di venticinque centimetri, sarebbe erronea, in quanto, da un lato, il decreto ministeriale 14 gennaio 2008 (Approvazione delle nuove norme tecniche per le costruzioni) impedirebbe di considerare l’inserimento del cordolo sommitale quale sopraelevazione solo a fini sismici, e, dall’altro, il richiamo al d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)» non consentirebbe di derogare alle altre normative edilizie; 5) le opere realizzate avrebbero potuto essere eseguite solo con l’autorizzazione di tutti i condomini; 6) l’intervento sarebbe una vera e propria sopraelevazione, non attuabile tramite SCIA ma autorizzabile solo una volta verificato il rispetto delle distanze e acquisite le necessarie certificazioni sismica e sulla sicurezza;

 

− il Comune di F. si è costituito in giudizio, instando per il rigetto del ricorso;

 

− il Collegio ha disposto una verificazione tecnica, che è giunta alle seguenti conclusioni: l) vi è stata una sopraelevazione media di quindici/sedici centimetri in gronda e di quattordici centimetri in colmo; 2) il progetto contrasta con l’art. 80 del RUE del Comune di F., nella versione vigente al momento della presentazione della SCIA n. 256 del 2016; 3) la modificazione dell’altezza interna ha comportato anche un aumento di quella esterna di circa venti centimetri; 4) la distanza esistente rispetto al fabbricato adiacente è inferiore a dieci metri, ma l’intervento di mero recupero della preesistenza non è assoggettato alle distanze minime previste dal d.m. n. 1444 del 1968; 5) la maggiore altezza accertata è contenuta nello spessore del cordolo sommitale realizzato, per cui l’intervento, ai fini sia dell’applicazione della normativa antisismica sia della sua classificazione edilizia, non si configura quale sopraelevazione e rimane nell’ambito della ristrutturazione; 6) sono state prodotte le necessarie attestazioni e certificazioni sismica e sulla sicurezza.

 

1.2.− Ciò premesso in punto di fatto, il rimettente afferma, innanzitutto, di condividere le considerazioni tecniche del verificatore, in virtù dell’accurata ricostruzione della fattispecie e della corretta metodologia seguita.

 

Osserva poi il TAR che «le due SCIA edilizie presentate dalla controinteressata sono equiparate dalla legge ad atti di iniziativa privata e non ad atti costitutivi» di corrispondenti provvedimenti autorizzatori impliciti, sicché di essi non è possibile ottenere l’annullamento; e che, con gli altri due atti impugnati (il verbale di sopralluogo e la sua comunicazione ai ricorrenti), il Comune ha verificato la conformità dei lavori edilizi al progetto edilizio presentato, decidendo «di non intervenire in autotutela».

 

Resterebbe quindi da verificare se tali ultimi atti possano essere ritenuti veri e propri provvedimenti impugnabili.

 

Si dovrebbe considerare, al riguardo, che l’amministrazione resistente è intervenuta su sollecitazione dei terzi a compiere le verifiche di cui all’art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990, con cui è stata denunciata, «primariamente», un’altezza esterna superiore a quella originaria del fabbricato (non rilevando nel giudizio a quo le censure “privatistiche” relative alla mancata autorizzazione condominiale).

 

In risposta a tale segnalazione, i tecnici del Comune di F. hanno riscontrato la conformità delle opere realizzate ai titoli abilitativi e tale riscontro è stato condiviso dall’amministrazione comunale, sì che la manifestazione di volontà contenuta nella comunicazione inviata ai ricorrenti sarebbe un vero e proprio provvedimento di diniego dell’intervento richiesto.

 

Vi sarebbe, poi, un profilo di inerzia nella condotta dell’amministrazione, che ha rinviato ad ulteriori approfondimenti l’accertamento della conformità dello stato di fatto dichiarato a quello preesistente.

 

Rispetto a tale profilo il TAR, ai sensi dell’ultimo periodo del citato comma 6-ter dell’art. 19, potrebbe accertare la fondatezza della pretesa dei ricorrenti, con riqualificazione della domanda di annullamento, seppure nei limiti di cui all’art. 31, comma 3, dell’Allegato 1 (Codice del processo amministrativo) al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo).

 

1.3.− Nel merito, sarebbe corretta la contestazione secondo cui l’accertata modificazione dell’altezza interna dell’immobile avrebbe comportato anche un aumento di quella esterna di circa venti centimetri.

 

Tale maggiore altezza, tuttavia, come osservato dal verificatore, in quanto «contenuta nello spessore del cordolo sommitale realizzato», non integrerebbe una sopraelevazione, e quindi l’intervento, non comportando un aumento di volumetria, andrebbe qualificato come ristrutturazione edilizia, legittimamente realizzata a mezzo SCIA.

 

Né avrebbe alcun rilievo la distanza inferiore a dieci metri tra il fabbricato ristrutturato e quello adiacente, trattandosi di un intervento concretizzatosi «in un mero recupero della preesistenza», non assoggettato al divieto posto dal citato d.m. n. 1444 del 1968.

 

Sarebbe invece accertata la violazione dell’art. 80 del RUE vigente all’epoca della presentazione della SCIA, poiché il recupero a fini abitativi del sottotetto esistente sarebbe avvenuto tramite illegittima modificazione in aumento sia dell’altezza di gronda (tra i dieci e i tredici centimetri), sia dell’altezza di colmo (circa dieci centimetri).

 

Riepilogando, il rimettente ritiene di dovere respingere tutti i motivi di ricorso, fatta eccezione per quello afferente alla violazione della norma regolamentare, che vietava, all’epoca della presentazione della SCIA, la modificazione delle altezze di colmo e di gronda nel caso di interventi edilizi per il recupero dei sottotetti a fini abitativi.

 

Sarebbe dunque accertata l’illegittimità in parte qua della posizione negativa «o comunque di inerzia» tenuta dal Comune resistente sulla richiesta di verifica degli interessati, cui conseguirebbe l’obbligo dell’amministrazione di provvedere.

 

1.4.− Il TAR ritiene, a questo punto, di dovere specificare la natura e i limiti del contenuto concreto dell’obbligo posto a carico del Comune resistente e discendente dall’effetto conformativo della sentenza.

 

Si tratta, secondo il rimettente, di stabilire se l’accertamento giudiziale costringa l’amministrazione a rimuovere sic et simpliciter gli eventuali effetti dannosi dell’attività edilizia illegittimamente intrapresa, ai sensi del comma 3 dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990, oppure le imponga l’obbligo di adottare i provvedimenti previsti dal citato comma 3 soltanto in presenza delle condizioni previste dall’art. 21-novies della medesima legge.

 

Secondo il rimettente, il dato normativo deporrebbe inequivocabilmente nel secondo senso: in forza dell’art. 31, comma 3, dell’Allegato 1 al d.lgs. n. 104 del 2010 (d’ora in avanti: cod. proc. amm.), non sarebbe possibile accertare anche la fondatezza della pretesa fatta valere in giudizio dai ricorrenti, residuando in capo all’amministrazione ulteriori margini di discrezionalità.

 

Decorso, cioè, il termine per l’adozione dei provvedimenti di cui al comma 3, primo periodo, dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990, l’amministrazione competente potrebbe adottare i provvedimenti volti alla rimozione degli effetti dannosi soltanto in presenza delle condizioni previste dall’art. 21-novies per l’annullamento di ufficio.

 

Tale orientamento, seguito dal Consiglio di Stato in plurimi arresti, sarebbe preferibile rispetto a quello secondo cui il potere sollecitato dal terzo è sempre quello inibitorio, non avendo quest’ultima tesi un fondamento normativo testuale nell’attuale art. 19 della legge n. 241 del 1990.

 

Il Collegio afferma, al riguardo, di condividere le perplessità espresse dal TAR Toscana, con l’ordinanza 11 maggio 2017, n. 667, di rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990, a causa dell’assenza di una previsione espressa del termine entro cui il terzo deve sollecitare il potere inibitorio dell’amministrazione.

 

Il problema, tuttavia, non riguarderebbe soltanto il suddetto termine, ma anche il tipo di procedimento attivato dal terzo, ossia le cosiddette verifiche spettanti all’amministrazione.

 

Quanto al termine, non vi sarebbe alcuna soluzione, tra quelle proposte in giurisprudenza, fondata su un adeguato riferimento normativo.

 

In particolare, non sarebbero idonee a risolvere il problema in questione: 1) la tesi secondo cui il termine per presentare «l’istanza sollecitatoria» è lo stesso che la norma assegna all’amministrazione per l’esercizio del potere inibitorio ufficioso, in quanto il dies a quo di tale ultimo termine coincide con il ricevimento della segnalazione da parte dell’amministrazione, fase, questa, cui è del tutto estraneo il terzo; 2) la tesi che sostiene che la facoltà del controinteressato di proporre l’istanza inibitoria è soggetta al termine decadenziale di sessanta giorni, in quanto vi è diversità ontologica tra la disciplina invocata (attinente alla proposizione di un atto processuale) e l’ambito di attività in esame (sollecitazione di poteri amministrativi); 3) la tesi che richiama il termine annuale di cui all’art. 31, comma 2, cod. proc. amm., poiché anche in questo caso si confonde un termine processuale con uno amministrativo.

 

Quanto alla sollecitazione del potere di verifica, secondo il rimettente, sarebbe erronea la tesi secondo cui si tratta dell’impulso all’avvio di un procedimento avente ad oggetto un potere inibitorio analogo a quello di cui all’art. 19, comma 3, della legge n. 241 del 1990, per due ordini di ragioni: in primo luogo, l’amministrazione beneficerebbe inammissibilmente di una sorta di rimessione in termini, essendo nel frattempo definitivamente superato il limite temporale entro cui intervenire con il potere repressivo (trenta giorni); in secondo luogo, sarebbe introdotto in via pretoria un correttivo normativo per permettere al terzo controinteressato di sostituirsi all’amministrazione, tramite l’utilizzo di un potere non previsto dall’ordinamento.

 

Il dato testuale e la sottesa ratio legis indurrebbero, invece, ad individuare, in materia di SCIA edilizia, un diverso sistema di tutela del terzo.

 

A seguito dell’intervento del legislatore − che ha introdotto la norma censurata con l’art. 6, comma 1, lettera c), del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148 − sarebbe pacifico, innanzitutto, che la segnalazione certificata, in adesione alla tesi già sostenuta dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà luogo ad un titolo costitutivo, ma è un atto privato volto a comunicare l’intenzione di intraprendere un’attività direttamente ammessa dalla legge, sulla quale, però, l’amministrazione conserva un potere di controllo più penetrante di quello ordinariamente esercitato.

 

Sarebbe connaturata a tale «nuova prospettazione giuridica una correlativa rimodulazione della tutela dei terzi dinanzi al Giudice amministrativo»: l’assenza di un provvedimento amministrativo, con il residuare di un mero potere di controllo ex post da parte dell’ente pubblico, comporterebbe la possibilità per il terzo di avviare una controversia concernente l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, in aggiunta o in luogo degli ordinari rimedi esperibili dinanzi al giudice ordinario a tutela della proprietà e del possesso.

 

Secondo il rimettente, dunque, le iniziative spettanti al terzo «si riflettono interamente nei poteri esercitabili dall’amministrazione: se entro trenta giorni dal deposito della SCIA edilizia l’amministrazione non si è attivata, i terzi hanno azione, entro i termini di prescrizione ordinaria, per l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di verificare e manifestare (tramite provvedimento espresso) la sussistenza o meno delle condizioni previste dall’art. 21-nonies della L. n. 241 del 1990».

 

Sotto altro profilo, il TAR afferma che la norma censurata introdurrebbe per legge una ipotesi di inerzia sanzionabile della pubblica amministrazione, ai sensi dell’art. 31, commi 1, 2 e 3, cod. proc. amm: si rientrerebbe, cioè, in uno degli «altri casi previsti dalla legge», in cui «chi vi ha interesse può chiedere l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere».

 

Sarebbe stato previsto, cioè, un caso di obbligatorietà della risposta pubblica rispetto alla sollecitazione dei poteri «di autotutela» da parte del privato e l’obbligo di provvedere, una volta accertato, non potrebbe che portare ad un esercizio del potere conforme alle norme che lo regolano.

 

Ove, pertanto, come nel caso di specie, sia decorso, alla data della sollecitazione del terzo, il termine entro cui l’amministrazione avrebbe potuto vietare la prosecuzione dell’attività edilizia intrapresa e ordinare la rimozione dei suoi effetti dannosi, l’accertamento dell’obbligo di provvedere non potrebbe che costituire il presupposto per l’esercizio del potere di annullamento di cui all’art. 21-novies della legge n. 241 del 1990.

 

Correlativamente, il giudice non potrebbe «conformare l’amministrazione» ad una specifica condotta, né tanto meno condannarla all’emissione di un determinato provvedimento, dovendosi limitare ad accertare la sussistenza dell’inerzia e la necessità di un riesame da parte della stessa pubblica amministrazione.

 

Confermerebbe tale ricostruzione la circostanza che il legislatore abbia espressamente riconosciuto ai terzi interessati «esclusivamente» la possibilità di esperire l’azione di accertamento, con preclusione, dunque, non solo di quella di annullamento, ma anche di quella di condanna al rilascio di un provvedimento, ai sensi dell’art. 34, comma 1, lettera c), cod. proc. amm.

 

Questa soluzione avrebbe il pregio di depotenziare i dubbi di legittimità costituzionale sollevati dal TAR Toscana in relazione alla mancata previsione di un termine decadenziale per l’esercizio del potere sollecitatorio da parte del terzo, in quanto l’intervento repressivo dell’amministrazione dovrebbe sottostare ai rigorosi limiti temporali e motivazionali di cui all’art. 21-novies della legge n. 241 del 1990, in modo da non lasciare il privato esposto sine die a quell’intervento.

 

Così rettamente interpretata, tuttavia, la nuova disciplina recata dall’art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990 farebbe sorgere dubbi di legittimità costituzionale, perché non idonea a tutelare in modo efficace la sfera giuridica del terzo.

 

Quest’ultimo, infatti, avrebbe innanzitutto l’onere, prima di agire in giudizio, di presentare apposita «istanza sollecitatoria» alla pubblica amministrazione, così subendo una procrastinazione dell’accesso alla tutela giurisdizionale, in spregio ai princìpi di cui agli artt. 24, 103 e 113 Cost.

 

Inoltre e soprattutto, l’istanza − qualora, come normalmente accade, siano già decorsi trenta giorni dall’invio della segnalazione di cui il terzo non ha diretta conoscenza −, sarebbe diretta ad attivare non il potere inibitorio di natura vincolata (che si estingue decorso il termine perentorio di legge) ma il cosiddetto potere di autotutela, cui fa riferimento l’art. 19, comma 4, della legge n. 241 del 1990.

 

Tale ultimo potere, tuttavia, è ampiamente discrezionale, in quanto postula la ponderazione comparativa, da parte dell’amministrazione, degli interessi in conflitto, «con precipuo riferimento al riscontro» di un interesse pubblico concreto e attuale che non coincide con il mero ripristino della legalità violata, con il corollario che nel giudizio conseguente al silenzio o al rifiuto di intervento dell’amministrazione, il giudice amministrativo non potrebbe che limitarsi ad una mera declaratoria dell’obbligo di provvedere, senza poter predeterminare il contenuto del provvedimento da adottare.

 

Evidente sarebbe, allora, la compressione dell’interesse del terzo ad ottenere una pronuncia che impedisca lo svolgimento di un’attività illegittima mediante un precetto giudiziario puntuale e vincolante, che non subisca l’intermediazione aleatoria dell’esercizio di un potere discrezionale.

 

Di qui il dubbio di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990, per violazione degli artt. 3, 24, 103 e 113 Cost., nella parte in cui consente ai terzi lesi da una SCIA edilizia illegittima di esperire «esclusivamente» l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3, cod. proc. amm., e ciò soltanto dopo aver sollecitato l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione.

 

1.5.− In punto di rilevanza, il rimettente osserva che la decisione sulle questioni di legittimità costituzionale sollevate è indispensabile per accertare anche la fondatezza della pretesa fatta valere in giudizio dai ricorrenti, nel senso di conformare la successiva attività dell’amministrazione ad un obbligo ineludibile di rimozione degli eventuali effetti dannosi derivanti dall’attività edilizia intrapresa.

 

In caso di rigetto delle questioni, il rimettente non potrebbe pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio, né condannare l’amministrazione al rilascio del provvedimento richiesto, residuando in capo al Comune resistente ulteriori margini di discrezionalità insiti nelle valutazioni da effettuare in sede di «autotutela».

 

In caso di accoglimento della questione, invece, il rimettente potrebbe pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio, rientrandosi in un caso di attività vincolata o comunque non residuando ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e/o la necessità di adempimenti istruttori successivi alla pronuncia.

 

1.6.− In conclusione, il TAR ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del comma 6-ter dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990 per violazione degli artt. 3, 24, 103 e 113 Cost., «nella misura in cui impedisce ai terzi lesi da una SCIA edilizia illegittima di ottenere dal Giudice amministrativo una pronuncia di accertamento della fondatezza della pretesa dedotta in giudizio, con conseguente condanna o comunque effetto conformativo all’adozione dei corrispondenti provvedimenti, anche nel caso in cui sia decorso il termine concesso all’amministrazione per azionare il potere inibitorio di cui al comma 3 dell’art. 19» della legge n. 241 del 1990.

 

1.7.− In dispositivo, il rimettente, riqualificata la domanda di annullamento in «azione di accertamento» ai sensi dell’art. 31 cod. proc. amm., la respinge parzialmente, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione, e solleva le illustrate questioni di legittimità costituzionale.

 

2.− Con memoria depositata il 24 ottobre 2017, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, eccependo l’inammissibilità e la non fondatezza delle questioni sollevate dal rimettente.

 

2.1.− Quanto all’inammissibilità, il Presidente del Consiglio dei ministri osserva che, secondo il giudice a quo, la norma censurata sarebbe incostituzionale per via della mancata previsione di un rimedio azionabile avverso le altrui iniziative edilizie illecite, senza la necessità di un preventivo coinvolgimento dell’amministrazione.

 

Quello invocato dal rimettente sarebbe, pertanto, un intervento additivo o manipolativo, afferente alla conformazione degli istituti processuali, ossia ad una materia di esclusivo appannaggio del legislatore, sottratta al sindacato costituzionale.

 

Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, la liberalizzazione delle attività ora riconducibili all’ambito di operatività della SCIA rappresenta l’esito di un bilanciamento tra gli interessi contrapposti che fanno capo, rispettivamente, al segnalante e al terzo, nella cui sfera giuridica sono destinati a riverberarsi gli effetti dell’attività del primo.

 

La scelta operata in materia di SCIA, se, da un lato, soddisferebbe l’esigenza del segnalante di intraprendere i lavori quanto prima, dall’altro, finirebbe con l’esporlo al rischio che, a lavori già iniziati, l’amministrazione intervenga con provvedimenti che ne inibiscano la prosecuzione.

 

Il legislatore, dunque, avrebbe predisposto un meccanismo atto a recuperare quella stabilità della situazione soggettiva del segnalante inevitabilmente pregiudicata dall’assenza di un provvedimento amministrativo ex ante.

 

In questo stesso solco si collocherebbe la scelta di affidare la tutela del terzo leso alla sola azione di cui all’art. 31 cod. proc. amm.

 

Il legislatore, cioè, avrebbe effettuato un bilanciamento tra la tutela del legittimo affidamento del segnalante − il quale, decorsi trenta giorni dalla presentazione della SCIA, può ragionevolmente attendersi che non vi siano ostacoli alla prosecuzione dei lavori – e quella del terzo, cui è attribuita un’azione che gli consente in ogni caso di ottenere un provvedimento espresso dell’amministrazione.

 

2.2.− Le questioni sarebbero anche infondate nel merito.

 

L’opinione del rimettente nascerebbe da una errata valutazione della effettiva ampiezza della tutela assicurata al terzo dalla disposizione censurata.

 

L’art. 19, comma 3, della legge n. 241 del 1990 prevede la facoltà per la pubblica amministrazione di vietare la prosecuzione dell’attività e disporre il ripristino della situazione precedente, ovvero, ove possibile, di intimare al privato l’adozione delle misure necessarie a conformare l’attività intrapresa alla normativa vigente.

 

Tali poteri devono essere esercitati entro il termine di sessanta giorni dalla comunicazione (trenta, per la SCIA edilizia), decorso il quale, l’amministrazione può disporre l’annullamento d’ufficio, purché ricorrano le condizioni indicate dall’art. 21-novies della stessa legge n. 241 del 1990.

 

I terzi interessati, dal canto loro, non possono impugnare direttamente la SCIA, trattandosi di un atto privato, ma il censurato comma 6-ter dell’art. 19 attribuisce ad essi la facoltà di «sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi l, 2 e 3 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104».

 

Le verifiche cui si riferisce la norma sarebbero non solo e non tanto quelle finalizzate all’adozione di provvedimenti inibitori di cui al comma 3 dell’art. 19, ma soprattutto, ove si versi in ipotesi di SCIA edilizia, quelle richiamate dal comma 6-bis, ai sensi del quale restano «ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, e dalle leggi regionali».

 

Il richiamo sarebbe, in particolare, all’art. 27, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, a mente del quale il dirigente o il responsabile comunale incaricato della vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, in tutti i casi di difformità dalle norme di legge e di regolamento e dalle prescrizioni degli strumenti urbanistici, provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi.

 

Alla luce della disposizione appena citata, sarebbe incontestabile il carattere vincolato dei poteri di controllo dell’amministrazione sull’attività oggetto di SCIA edilizia, per i quali la normativa di settore non commina decadenze.

 

Nulla osta, dunque, secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, ad una pronuncia giurisdizionale che, all’esito di un giudizio promosso dal terzo ai sensi dell’art. 31 cod. proc. amm., accerti la fondatezza della pretesa azionata e condanni l’amministrazione a rimuovere sic et simpliciter gli effetti dannosi della SCIA illegittima.

 

Considerato in diritto

 

1.− Con sentenza parziale, il Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia-Romagna, sezione staccata di Parma, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 103 e 113 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), ai sensi del quale «[l]a segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104».

 

Secondo il rimettente, la norma censurata vìola gli invocati parametri costituzionali, in primo luogo, perché l’avere subordinato l’azione del terzo controinteressato alla presentazione di una previa «istanza sollecitatoria» nei confronti della pubblica amministrazione si risolve in una procrastinazione dell’accesso alla tutela giurisdizionale; e, in secondo luogo, perché − «qualora, come normalmente accade», l’istanza del terzo sia inoltrata quando siano già decorsi trenta giorni dalla presentazione della segnalazione certificata d’inizio attività (SCIA) edilizia − il potere dell’amministrazione, ai sensi dell’art. 19, comma 4, della legge n. 241 del 1990, non è di natura vincolata ma «in autotutela» e discrezionale, con la conseguenza che, ai sensi dell’art. 31, comma 3, dell’Allegato 1 (Codice del processo amministrativo) al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), il giudice amministrativo deve limitarsi ad una mera declaratoria dell’obbligo di provvedere, senza potere predeterminare il contenuto del provvedimento da adottare, così non assicurando una tutela piena ed effettiva della posizione giuridica del terzo.

 

2.− In via preliminare, va rilevato che l’atto di promovimento delle odierne questioni di legittimità costituzionale è una sentenza non definitiva, con cui il giudice a quo – dopo avere riqualificato la domanda di annullamento degli atti impugnati in «azione di accertamento» del silenzio della pubblica amministrazione sull’istanza di attivazione dei poteri di verifica delle SCIA presentate dalla controinteressata – ha rigettato cinque dei sei motivi di ricorso.

 

Nonostante l’atto di promovimento abbia la veste formale di sentenza anziché di ordinanza, le questioni, da questa angolazione, sono ammissibili, dal momento che, in relazione al residuo motivo di gravame, «il giudice a quo – dopo la positiva valutazione concernente la rilevanza e la non manifesta infondatezza […] – ha disposto, la sospensione del procedimento principale e la trasmissione del fascicolo alla cancelleria di questa Corte; sicché a tal[e] att[o], anche se assunt[o] con la forma di sentenza, deve essere riconosciuta sostanzialmente natura di ordinanza, in conformità a quanto previsto dall’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87» (sentenza n. 256 del 2010; nello stesso senso, tra le tante, sentenze n. 208 del 2019, n. 86 del 2017, n. 151 e 94 del 2009, e n. 452 del 1997).

 

3.− Vi sono, tuttavia, ragioni di inammissibilità fondate e, in primo luogo, quella di difetto di rilevanza.

 

4.− Va premesso che l’art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990 è stato già scrutinato da questa Corte con la sentenza n. 45 del 2019, che, in quella occasione, ritenne la questione ammissibile, ma – occorre subito precisare – in un contesto diverso.

 

L’azione esercitata davanti al giudice amministrativo, infatti, era quella avverso il silenzio della pubblica amministrazione, ai sensi dell’art. 31 del d.lgs. n. 104 del 2010 (d’ora in avanti: cod. proc. amm.), prevista dalla norma in esame come unica tutela del terzo in caso di inerzia sulla sua istanza di sollecitazione.

 

4.1.− Sebbene le questioni allora poste dal TAR Toscana avessero ad oggetto un presunto difetto di tutela del segnalante, nella sentenza si è esaminato anche il profilo della tutela del controinteressato, trattandosi di aspetti necessariamente connessi, poiché l’intera disciplina della SCIA è volta alla ricerca di un equilibrio fra l’interesse del segnalante al consolidamento della propria situazione giuridica e quello dei controinteressati lesi dall’attività segnalata.

 

Questa Corte ha quindi chiarito che «[l]e verifiche cui è chiamata l’amministrazione ai sensi del comma 6-ter sono […] quelle già puntualmente disciplinate dall’art. 19 [della legge n. 241 del 1990], da esercitarsi entro i sessanta o trenta giorni dalla presentazione della SCIA (commi 3 e 6-bis), e poi entro i successivi diciotto mesi (comma 4, che rinvia all’art. 21-novies). Decorsi questi termini, la situazione soggettiva del segnalante si consolida definitivamente nei confronti dell’amministrazione, ormai priva di poteri, e quindi anche del terzo. Questi, infatti, è titolare di un interesse legittimo pretensivo all’esercizio del controllo amministrativo, e quindi, venuta meno la possibilità di dialogo con il corrispondente potere, anche l’interesse si estingue» (sentenza n. 45 del 2019).

 

Con specifico riferimento alla situazione giuridica soggettiva del terzo, si è poi aggiunto che essa va riguardata «in una prospettiva più ampia e sistemica che tenga conto dell’insieme degli strumenti apprestati» a sua tutela: «[i]n particolare, nella prospettiva dell’interesse legittimo, il terzo potrà attivare, oltre agli strumenti di tutela già richiamati, i poteri di verifica dell’amministrazione in caso di dichiarazioni mendaci o false attestazioni, ai sensi dell’art. 21, comma 1, della legge n. 241 del 1990 […]. Esso avrà inoltre la possibilità di agire in sede risarcitoria nei confronti della PA in caso di mancato esercizio del doveroso potere di verifica (l’art. 21, comma 2-ter, della legge n. 241 del 1990 fa espressamente salva la connessa responsabilità del dipendente che non abbia agito tempestivamente, ove la segnalazione certificata non fosse conforme alle norme vigenti). Al di là delle modalità di tutela dell’interesse legittimo, poi, rimane il fatto giuridico di un’attività che si assuma illecita, nei confronti della quale valgono le ordinarie regole di tutela civilistica del risarcimento del danno, eventualmente in forma specifica».

 

Nella sentenza n. 45 del 2019 si è infine affermato che «[t]utto ciò […] non esclude l’opportunità di un intervento normativo sull’art. 19, quantomeno ai fini, da una parte, di rendere possibile al terzo interessato una più immediata conoscenza dell’attività segnalata e, dall’altra, di impedire il decorso dei relativi termini in presenza di una sua sollecitazione, in modo da sottrarlo al rischio del ritardo nell’esercizio del potere da parte dell’amministrazione e al conseguente effetto estintivo di tale potere».

 

5.− Nel giudizio a quo, invece, non è l’azione avverso il silenzio che entra in gioco, malgrado il tentativo del rimettente di dimostrarlo.

 

6.− Il TAR riferisce, in proposito, di essere stato investito dell’azione di annullamento di due SCIA, del conseguente verbale di sopralluogo effettuato dall’amministrazione comunale e della comunicazione di tale verbale ai ricorrenti, ma (dopo aver correttamente rilevato che le segnalazioni, in quanto «atti privati», «non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili») ritiene di dover riqualificare l’azione proposta come di «accertamento ex art. 31» cod. proc. amm., assumendo che, in forza dell’art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990, gli interessati avessero solo questo tipo di tutela.

 

6.1.− La prospettazione è implausibile.

 

Il fatto che l’amministrazione, su sollecitazione dei controinteressati, abbia positivamente riscontrato la legittimità delle opere si è tradotto in un diniego che, secondo le regole generali, non poteva che essere impugnato con l’ordinaria azione di annullamento, come infatti è avvenuto.

 

La reale natura dell’azione esercitata comporta che le questioni sollevate, avendo tutte per presupposto un silenzio dell’amministrazione, sono estranee al thema decidendum del giudizio principale e pertanto sono inammissibili per difetto di rilevanza.

 

7.− La conclusione non muta alla luce della circostanza che il rimettente, in un passaggio dell’ordinanza, fa riferimento al silenzio dell’amministrazione sull’istanza dei ricorrenti di accertamento della conformità dello stato di fatto dichiarato a quello originariamente esistente, e quindi dell’esistenza di dichiarazioni mendaci, dal momento che avverso tale silenzio i ricorrenti non hanno spiegato alcun motivo di ricorso, sicché esso è estraneo al thema decidendum del giudizio a quo.

 

8.− Il difetto di rilevanza sussiste, peraltro, anche ove si ritenga che il TAR, attraverso l’art. 19, comma 6-ter, abbia inteso, in realtà, censurare l’art. 19, comma 4, cui il primo implicitamente rimanda (unitamente ai commi 3 e 6-bis) ed in forza del quale, decorso il termine di cui all’art. 19, comma 3, l’intervento (non «in autotutela» ma) conformativo, inibitorio o repressivo dell’amministrazione, quand’anche sollecitato dal terzo, è subordinato alla positiva valutazione discrezionale della presenza delle condizioni previste dall’art. 21-novies (interesse pubblico ulteriore rispetto al ripristino della legalità, bilanciamento fra gli interessi coinvolti e, per i provvedimenti ampliativi della sfera giuridica dei privati, esercizio del potere entro il termine massimo di diciotto mesi).

 

L’amministrazione, infatti, con il provvedimento impugnato non solo non ha esaminato la dedotta difformità dalla legge e dal regolamento delle opere realizzate, limitandosi, con motivazione incongrua – ad avviso del TAR − ad affermare la loro conformità alla SCIA, ma nemmeno ha operato alcuna valutazione discrezionale (come pure avrebbe dovuto, essendo decorsi, al momento della sollecitazione, i trenta giorni di cui all’art. 19, comma 6-bis).

 

Correlativamente, i ricorrenti nel giudizio a quo hanno lamentato l’illegittimità del diniego per violazione non dell’art. 19, comma 4, della legge n. 241 del 1990 ma delle norme edilizie e (quanto al motivo residuo) del regolamento comunale, e non hanno chiesto, contestualmente all’azione di annullamento, di accertare la fondatezza della pretesa e di ordinare all’amministrazione di adottare un provvedimento di rimozione delle opere, ai sensi dell’art. 34, comma 1, lettera c), cod. proc. amm., secondo cui «[l]’azione di condanna al rilascio di un provvedimento richiesto è esercitata, nei limiti di cui all’articolo 31, comma 3, contestualmente all’azione di annullamento del provvedimento di diniego o all’azione avverso il silenzio».

 

8.1.− Anche dell’art. 19, comma 4, quindi, il rimettente non deve fare applicazione per decidere sulla domanda proposta dai terzi controinteressati.

 

9.− Vi è poi un altro profilo d’inammissibilità che attiene al petitum delle questioni sollevate.

 

In alcuni passaggi dell’ordinanza di rimessione il TAR, senza censurare la prima parte della disposizione, che afferma la natura privatistica delle segnalazioni d’inizio attività, sembra mirare ad una modifica del secondo periodo, volta all’introduzione, a tutela del terzo, di un’azione sganciata dalla previa sollecitazione dell’intervento dell’amministrazione e che consenta al giudice, in ogni caso, di accertare la fondatezza (o meno) della pretesa.

 

In altri passaggi, tuttavia, il rimettente sembra più radicalmente richiedere una caducazione totale dell’art. 19, comma 6-ter, o quanto meno del suo secondo periodo, che consenta, a tutela del terzo, la riespansione dell’azione di accertamento – quale azione che il codice del processo amministrativo residualmente assicurerebbe, ove non vi siano altre azioni a tutela della posizione giuridica dedotta in giudizio – ovvero finanche il ritorno al complesso meccanismo delineato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la nota sentenza 29 luglio 2011, n. 15, e alla pluralità di azioni da esso previste.

 

10.− Le questioni sono dunque inammissibili anche perché l’ordinanza di rimessione ha un petitum incerto e contraddittorio, che oscilla tra una pronuncia caducatoria ed una manipolativa e creativa (tra le più recenti, sentenze n. 21 e n. 7 del 2020, n. 239 del 2019; ordinanza n. 250 del 2019), in un ambito, quello processuale, notoriamente riservato alla discrezionalità del legislatore.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 103 e 113 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia-Romagna, sezione staccata di Parma, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 giugno 2020.

 

F.to:

 

Marta CARTABIA, Presidente

 

Giancarlo CORAGGIO, Redattore

 

Roberto MILANA, Cancelliere

 

Depositata in Cancelleria il 20 luglio 2020.