Sentenza n. 52 del 2020

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SENTENZA N. 52

 

ANNO 2020

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente: Marta CARTABIA;

 

Giudici: Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso dal Tribunale di sorveglianza di Firenze, nel procedimento a carico di R. D.S., con ordinanza del 21 marzo 2019, iscritta al n. 116 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2019.

 

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 12 febbraio 2020 il Giudice relatore Nicolò Zanon;

 

deliberato nella camera di consiglio del 12 febbraio 2020.

 

Ritenuto in fatto

 

1.– Il Tribunale di sorveglianza di Firenze, con ordinanza depositata il 21 marzo 2019 e iscritta al n. 116 del registro ordinanze 2019, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), «nella parte in cui non esclude dal novero dei reati ivi ricompresi quello di cui all’art. 630 c.p., allorché sia stata riconosciuta l’attenuante del fatto di lieve entità, ai sensi della sentenza della Corte Costituzionale n° 68 del 23 marzo 2012».

 

2.– Il tribunale rimettente si trova a decidere sulla richiesta di affidamento in prova al servizio sociale, avanzata ai sensi dell’art. 47 ordin. penit., da R. D.S., detenuto dal 30 giugno 2017 in esecuzione della pena di nove anni e otto mesi di reclusione, irrogata per i reati di sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 del codice penale) e lesioni personali (artt. 582, 585 e 576, numero 1, cod. pen.), commessi in concorso con altri (art. 110 cod. pen.).

 

Espone il collegio rimettente che, con la sentenza di condanna (divenuta definitiva il 26 giugno 2017), è stata riconosciuta, per il reato di sequestro di persona, «la diminuente dell’art. 311 c.p., come da sentenza della Corte Costituzionale n. 68 del 19-03-2012», in ragione della limitata durata nel tempo del sequestro (tre giorni), del luogo di restrizione (appartamento) e della parziale libertà di movimento delle persone offese (non soggette a strumenti di coercizione). È stata altresì riconosciuta l’attenuante del risarcimento del danno, ai sensi dell’art. 62, numero 6), cod. pen.

 

Riferisce il giudice a quo che il detenuto, a sostegno della propria istanza, ha prospettato la disponibilità di domicilio e lavoro in Roma, specificando inoltre che la durata della pena da espiare, in quanto non superiore ai quattro anni (essendo il fine pena fissato per il 16 dicembre 2022), rientrerebbe nei limiti previsti dal comma 3-bis dell’art. 47 ordin. penit.

 

Il rimettente rileva, tuttavia, che la condanna è stata inflitta per il reato di cui all’art. 630 cod. pen., contemplato dal comma 1 dell’art. 4-bis ordin. penit., che vieta la concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale in assenza di collaborazione con la giustizia. Collaborazione di cui, del resto, il detenuto non ha avanzato richiesta di accertamento, in quanto «in effetti non […] prestata», come riferisce sempre il giudice a quo. Neppure risulta chiesto l’accertamento della collaborazione cosiddetta impossibile o inesigibile.

 

Di qui, l’inammissibilità dell’istanza di affidamento in prova al servizio sociale.

 

2.1.– In punto di non manifesta infondatezza, il collegio rimettente richiama l’ordinanza della Corte di cassazione «del 21-09-2018 [recte: 16 novembre 2018], prima sezione, n. 51877 […], in materia in parte analoga», e ritiene di dover sollevare «la medesima questione di legittimità costituzionale, già prospettata dalla Corte di legittimità, pur riguardando il caso oggi ad oggetto l’accesso ad una misura alternativa e non ad un permesso premio», venendo sempre in rilievo il profilo «dell’´ostatività` del reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, pur nell’ipotesi attenuata della lieve entità».

 

Anche il Tribunale di sorveglianza di Firenze – riportandosi «integralmente» alle motivazioni contenute nella citata ordinanza della Corte di cassazione – prospetta la violazione degli artt. 3 e 27 Cost. in conseguenza dell’inclusione, fra i reati cosiddetti ostativi alla concessione della misura alternativa alla detenzione nella specie richiesta, del reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, nei casi in cui sia stata riconosciuta la speciale attenuante della lieve entità del fatto, come da sentenza della Corte costituzionale n. 68 del 2012.

 

Il rimettente ricostruisce l’origine del regime ostativo introdotto dall’art. 4-bis ordin. penit., rinvenendola nella necessità – soddisfatta con l’emanazione delle «leggi dell’emergenza dei primi anni ’90» – di introdurre restrizioni rispetto a «delitti di particolare allarme sociale», quali i «reati associativi più gravi (associazione di tipo mafioso e associazione finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti)» e quelli commessi «con finalità o metodo mafioso», oltre al reato di cui all’art. 630 cod. pen. Tutte queste fattispecie sarebbero caratterizzate «dal necessario o almeno normale inserimento del reo in compagini criminose di gruppo o comunque collegate con organizzazioni criminali».

 

Per effetto di successivi interventi legislativi ripetuti negli anni – ricorda ancora il rimettente – è stato ampliato l’elenco dei reati «ostativi o parzialmente tali», disegnando una disciplina che avrebbe superato le censure di illegittimità costituzionale in forza dell’effetto «mitigatore» della collaborazione e della sua «estensione alle accezioni di impossibilità, inesigibilità, irrilevanza».

 

Tuttavia, il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale dell’inserimento della fattispecie di cui all’art. 630 cod. pen., «nell’ipotesi della lieve entità del fatto», tra i delitti per cui vi sarebbe «presunzione pressoché assoluta di pericolosità sociale, come se anche detto reato fosse espressione di criminalità esercitata in forma organizzata o comunque particolarmente pervasiva e quindi tale da giustificare l’esclusione tout court dai benefici penitenziari in assenza di collaborazione».

 

Il Tribunale di sorveglianza di Firenze ricorda che, con legge 30 dicembre 1980, n. 894 (Modifiche all’articolo 630 del codice penale), per il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione è stato previsto un notevole inasprimento della risposta sanzionatoria, in ragione dell’allarme sociale cagionato dal fenomeno dei sequestri di persona, «perpetrati in Italia dalla criminalità organizzata». Una «[t]ale severità di inquadramento» – sospettata di contrasto con il quadro costituzionale rispetto a fatti «meno rilevanti, per caratteristiche oggettive di tempo, di azione, di numero di partecipi, determinanti la restrizione della libertà della vittima per breve durata o con profitti patrimoniali di entità contenuta» – è stata oggetto di una declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 630 cod. pen., nella parte in cui non prevedeva che la pena da esso comminata fosse diminuita quando, per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risultasse di lieve entità (sentenza n. 68 del 2012), sulla falsariga di quanto previsto per la «parallela fattispecie di cui all’art. 289 bis c.p. sulla base dell’art. 311 c.p.».

 

Secondo il rimettente, il riconoscimento dell’attenuante della lieve entità del fatto, oltre a determinare una diminuzione di pena, implica «logicamente una valutazione di minore pericolosità degli autori o almeno un’attenuazione della presunzione di pericolosità», tale da rendere ingiustificato un regime di maggior rigore anche in punto di esecuzione penale.

 

Il Tribunale di sorveglianza di Firenze, in definitiva, ritiene che l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. contrasti con l’art. 3 Cost., nella parte in cui parifica irragionevolmente un condannato per sequestro di persona a scopo di estorsione di «lieve entità» ai condannati «di ben superiore pericolosità pur nell’ambito dello stesso titolo di reato».

 

Sostiene, altresì, che la norma censurata violi l’art. 27 Cost., nella parte in cui preclude «al medesimo condannato» l’accesso alla misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, «impedendo anziché favorire quel progressivo reinserimento nella società» che realizza lo scopo rieducativo della pena, pur a fronte di un già intervenuto risarcimento del danno.

 

2.2.– In punto di rilevanza, il rimettente evidenzia che «in astratto» ricorrerebbero gli altri presupposti per la concessione del beneficio, quali la pena residua «nella soglia di legge» e la presenza di ulteriori elementi valutabili in fatto (ivi compreso l’avvenuto integrale risarcimento del danno). Tuttavia, «di fronte al titolo di reato commesso», rientrante tra quelli cosiddetti ostativi, in assenza di collaborazione e in mancanza di alcuna prospettazione o offerta di collaborazione, il detenuto non può avere accesso alla misura alternativa richiesta «e quindi l’istanza appare inammissibile tout court, senza che possano svilupparsi ulteriori considerazioni nel merito».

 

3.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la non fondatezza delle questioni sollevate.

 

L’interveniente ha ricordato che questioni analoghe, per quanto riferite alla concessione dei permessi premio e non dell’affidamento in prova al servizio sociale, erano state sollevate dalla Corte di cassazione e che le stesse sono state dichiarate non fondate dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 188 del 2019.

 

Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, la Corte costituzionale, nella pronuncia da ultimo citata, avrebbe rilevato come la disposizione censurata sia stata oggetto di numerose modifiche, che, anche se tra loro disomogenee, sarebbero tutte ispirate all’esigenza di collegare l’inasprimento del trattamento sanzionatorio all’allarme sociale «derivante dal puro titolo di reato», in base a valutazioni rientranti nella discrezionalità legislativa. Inoltre, l’attenuante della lieve entità del fatto commesso rileverebbe «semmai ai fini della determinazione della misura della pena, ma non invece ai fini delle modalità della sua espiazione».

 

Il legislatore avrebbe, dunque, esercitato in maniera non arbitraria il potere discrezionale di cui dispone in materia di politica penitenziaria.

 

Neppure sarebbe violato l’art. 27 Cost., «essendovi precise ragioni nella differenziazione dei trattamenti penitenziari», tali da non ledere alcun principio di progressività di trattamento e flessibilità della pena.

 

Considerato in diritto

 

1.– Il Tribunale di sorveglianza di Firenze dubita della conformità agli artt. 3 e 27 della Costituzione dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), «nella parte in cui non esclude dal novero dei reati ivi ricompresi quello di cui all’art. 630 c.p., allorché sia stata riconosciuta l’attenuante del fatto di lieve entità, ai sensi della sentenza della Corte Costituzionale n° 68 del 23 marzo 2012».

 

2.– In punto di rilevanza delle questioni sollevate, il giudice a quo riferisce di essere investito dell’istanza di affidamento in prova al servizio sociale da parte di un detenuto in possesso di tutti i requisiti cui ordinariamente l’art. 47 ordin. penit. subordina la concessione della misura in questione. Osserva, dunque, che l’unico ostacolo all’accoglimento dell’istanza consisterebbe nell’inclusione del reato di sequestro di persona a scopo di estorsione tra i delitti cosiddetti ostativi, secondo l’elenco contenuto nella disposizione censurata, anche nell’ipotesi in cui sia stata riconosciuta l’attenuante del fatto di lieve entità. Pertanto, in assenza di collaborazione con la giustizia – «in effetti non […] prestata» (come pure riferisce il rimettente) – e in mancanza della richiesta di accertamento della collaborazione cosiddetta impossibile o inesigibile, il procedimento dovrebbe inevitabilmente chiudersi con una dichiarazione di inammissibilità dell’istanza.

 

2.1.– In punto di non manifesta infondatezza, il collegio rimettente prospetta una violazione degli artt. 3 e 27 Cost.

 

Sostiene, in particolare, che il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, ove sia stata riconosciuta la speciale attenuante della lieve entità del fatto, sarebbe disomogeneo rispetto ai «delitti di particolare allarme sociale» che giustificarono l’introduzione del regime di particolare rigore contemplato dall’art. 4-bis ordin. penit. nella sua versione originaria.

 

In quella versione figuravano i «reati associativi più gravi (associazione di tipo mafioso e associazione finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti)» e quelli commessi «con finalità o metodo mafioso» (oltre allo stesso reato di cui all’art. 630 cod. pen., nella sua forma non circostanziata), tutti contraddistinti «dal necessario o almeno normale inserimento del reo in compagini criminose di gruppo o comunque collegate con organizzazioni criminali». Un tale carattere, a parere del rimettente, sarebbe estraneo al reato di sequestro di persona laddove sia riconosciuta l’attenuante della lieve entità del fatto. In presenza di questa attenuante non si giustificherebbe, pertanto, la «presunzione pressoché assoluta di pericolosità sociale»: infatti, oltre a determinare una diminuzione di pena, l’attenuante in parola implicherebbe «logicamente una valutazione di minore pericolosità degli autori o almeno un’attenuazione della presunzione di pericolosità».

 

Contrasterebbe, dunque, con l’art. 3 Cost. l’irragionevole parificazione fra il trattamento del condannato per sequestro di persona a scopo di estorsione di «lieve entità» e quello previsto per soggetti «di ben superiore pericolosità pur nell’ambito dello stesso titolo di reato».

 

La violazione dell’art. 27 Cost., invece, sarebbe conseguenza dell’impedimento frapposto «al medesimo condannato» all’accesso alla misura alternativa dell’affidamento in prova, che ostacolerebbe il suo necessario «progressivo reinserimento nella società».

 

3.– Le questioni non sono fondate.

 

3.1.– Come ricorda l’Avvocatura generale dello Stato, le medesime questioni, sollevate sulla base di censure del tutto sovrapponibili a quelle odierne, sono state dichiarate non fondate con la sentenza n. 188 del 2019, depositata in data successiva al provvedimento di rimessione qui in esame.

 

Agli effetti del presente scrutinio non rileva la circostanza che, nel giudizio incidentale già definito, fosse presa in considerazione la preclusione concernente un permesso premio e non la concessione di una misura alternativa alla detenzione, richiesta invece nell’odierno giudizio principale. Nella prospettiva del rimettente, infatti, a risultare in contrasto con i parametri costituzionali evocati è l’inclusione – tra i delitti cosiddetti ostativi all’accesso ai benefici penitenziari – del reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, in quanto (e solo in quanto) assistito dal riconoscimento dell’attenuante del fatto di lieve entità. In altre parole, il rimettente richiama l’attenzione sulla qualità del fatto ostativo, non sulle caratteristiche della misura preclusa.

 

Pur rilevando che le numerose modifiche intervenute negli anni, rispetto al nucleo della disciplina originaria, hanno variamente ampliato il catalogo dei reati ricompresi nella disposizione censurata, in virtù di scelte di politica criminale tra loro disomogenee, la sentenza n. 188 del 2019 ha chiarito che «[a]l tempo presente, l’unica adeguata definizione della disciplina di cui all’art. 4-bis ordin. penit. consiste nel sottolinearne la natura di disposizione speciale, di carattere restrittivo, in tema di concessione dei benefici penitenziari a determinate categorie di detenuti o internati, che si presumono socialmente pericolosi unicamente in ragione del titolo di reato per il quale la detenzione o l’internamento sono stati disposti (sentenza n. 239 del 2014)».

 

Con valutazione che va oggi ribadita, è stato così ritenuto «incongruo l’argomento del giudice a quo, secondo il quale se la fattispecie di reato è assistita dall’attenuante di lieve entità, essa dovrebbe essere, per ciò solo, espunta dal catalogo di cui all’art. 4-bis ordin. penit., sul presupposto che il riconoscimento di quella attenuante priverebbe di ogni validità, sul piano logico e statistico, la presunzione del collegamento del condannato con organizzazioni criminali».

 

Come noto, la previsione di attenuanti, anche diverse da quelle della lievità del fatto, consente di adeguare la pena al caso concreto, ma non riguarda necessariamente l’oggettiva pericolosità del comportamento descritto dalla fattispecie astratta.

 

In ogni caso, anche la concessione dell’attenuante considerata dal rimettente è rilevante ai soli fini della determinazione della pena proporzionata al caso concreto, mentre, nella logica dell’attuale art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., essa non risulta invece idonea a incidere, di per sé sola, sulla coerenza della scelta legislativa di ricollegare al sequestro con finalità estorsive un trattamento più rigoroso in fase di esecuzione, quale che sia la misura della pena inflitta nella sentenza di condanna.

 

D’altra parte, gli elementi che giustificano il riconoscimento della più volte citata attenuante – natura, specie, mezzi, modalità o circostanze dell’azione, oppure particolare tenuità del danno o del pericolo – non sono necessariamente in contraddizione, anche sul piano empirico, con l’adesione o la partecipazione del condannato a pericolose organizzazioni criminali, stabili e strutturate.

 

Significativa, infine, è la circostanza che, nell’elenco di cui all’art. 4-bis ordin. penit., figurano, ab origine, i reati commessi con finalità di terrorismo, tra cui il reato previsto dall’art. 289-bis cod. pen. (Sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione), fattispecie la cui invocazione quale tertium comparationis ha determinato, con la sentenza n. 68 del 2012 di questa Corte, la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 630 cod. pen., nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita quando il fatto risulta di lieve entità.

 

In sostanza, il reato di sequestro a scopo di terrorismo e di eversione «“nasce” comprensivo dell’attenuante di lieve entità di cui all’art. 311 cod. pen., riferita specificamente ai delitti contro la personalità dello Stato, per consentire al giudice di rendere le pertinenti previsioni sanzionatorie, tutte di eccezionale asprezza, adeguate e proporzionate al reato commesso nel caso concreto. Ebbene, se l’espressa e contestuale previsione dell’art. 311 cod. pen. in riferimento al sequestro a scopo di terrorismo o eversione non ha impedito l’inserimento del reato nell’elenco di cui all’art. 4-bis ordin. penit., non si vede perché, ora, l’estensione dell’attenuante della lieve entità all’“omologo” reato di cui all’art. 630 cod. pen., conseguente alla sentenza n. 68 del 2012, dovrebbe comportare, per necessità costituzionale, l’espunzione della fattispecie del sequestro estorsivo, in tale specifico caso, dal medesimo elenco» (sentenza n. 188 del 2019).

 

3.2.– Con sentenza n. 253 del 2019, depositata successivamente all’ordinanza di rimessione qui considerata, l’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975 è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui, con riferimento a tutti i delitti ricompresi nella disposizione censurata, non prevede che ai condannati per quei medesimi delitti possano essere concessi permessi premio, anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter della medesima legge n. 354 del 1975, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.

 

Tale pronuncia non incide sul destino delle questioni poste dall’odierno rimettente. Quest’ultimo, infatti, non contesta la compatibilità costituzionale della preclusione assoluta all’accesso a taluni benefici penitenziari, disegnata dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. per il condannato che non collabori con la giustizia. Censura bensì, come visto, l’inclusione nell’elenco dei reati ostativi di una singola fattispecie di reato, in quanto assistita dall’attenuante della lieve entità del fatto.

 

Si tratta di una strategia argomentativa già ritenuta non fondata (sentenza n. 188 del 2019), del tutto diversa da quella che ha ispirato le questioni di legittimità costituzionale accolte da questa Corte nella citata sentenza n. 253 del 2019.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Firenze, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 febbraio 2020.

 

F.to:

 

Marta CARTABIA, Presidente

 

Nicolò ZANON, Redattore

 

Roberto MILANA, Cancelliere

 

Depositata in Cancelleria il 12 marzo 2020.