Sentenza n. 208 del 2019

CONSULTA ONLINE 

 

SENTENZA N. 208

ANNO 2019

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giorgio LATTANZI;

Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Luca ANTONINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, lettera a), della legge della Regione Emilia-Romagna 21 ottobre 2004, n. 23 (Vigilanza e controllo dell’attività edilizia ed applicazione della normativa statale di cui all’articolo 32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modifiche, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326), promosso dal Consiglio di Stato, nel procedimento vertente tra Libera Belletti e il Comune di Cesena, con sentenza non definitiva del 31 luglio 2018, iscritta al n. 153 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44 prima serie speciale, dell’anno 2018.

Visti l’atto di costituzione del Comune di Cesena nonché l’atto di intervento della Regione Emilia-Romagna;

udito nell’udienza pubblica del 3 luglio 2019 il Giudice relatore Silvana Sciarra;

uditi gli avvocati Benedetto Ghezzi per il Comune di Cesena e Giandomenico Falcon per la Regione Emilia-Romagna.

Ritenuto in fatto

1.‒ Il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza non definitiva del 31 luglio 2018, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, lettera a), della legge della Regione Emilia-Romagna 21 ottobre 2004, n. 23 (Vigilanza e controllo dell’attività edilizia ed applicazione della normativa statale di cui all’articolo 32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modifiche, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326), in riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione.

1.1.‒ Il rimettente premette in fatto di essere stato adito in appello avverso la sentenza con cui il Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia-Romagna aveva respinto il ricorso proposto per ottenere l’annullamento del provvedimento del Comune di Cesena di rigetto della domanda di condono edilizio, presentata il 10 novembre 2003, ai sensi dell’art. 32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2003, n. 326, in relazione a un intervento di «ristrutturazione edilizia consistente nella costruzione di un solaio intermedio in una porzione di attrezzatura agricola (…), con conseguente creazione di due unità abitative, una per piano, e realizzazione di un piano interrato», nonché per ottenere l’annullamento dell’ordinanza comunale (n. 20/527/EA/ac del 15 luglio 2009, notificata il 29 luglio 2009), con cui alla ricorrente era stata ordinata «la demolizione delle opere abusive e il ripristino dei luoghi allo stato autorizzato ripristinando l’uso del manufatto a servizio agricolo, attraverso altresì: la demolizione del solaio intermedio; la demolizione della scala; l’eliminazione della porzione in ampliamento (piano interrato)» entro il termine di novanta giorni dalla notificazione, con richiamo del provvedimento di diniego del condono.

Il Consiglio di Stato ricorda che, avverso la sentenza del TAR per l’Emilia-Romagna, la ricorrente aveva dedotto i seguenti motivi: a) l’erronea interpretazione dell’art. 32, comma 3, del d.l. n. 269 del 2003, che non attribuirebbe alle Regioni la potestà di definire le condizioni sostanziali di ammissibilità della sanatoria, che, invece, secondo la normativa statale, applicabile alla fattispecie in esame, sarebbero tutte soddisfatte; b) l’erronea reiezione della censura di eccesso di potere per travisamento dei fatti, con riferimento al preteso ampliamento della volumetria dell’immobile per effetto della realizzazione del piano interrato; c) l’erronea reiezione delle censure dedotte con i motivi aggiunti, con particolare riferimento all’erronea affermazione dell’aumento del carico urbanistico.

Il collegio rimettente precisa che il provvedimento di diniego del condono edilizio e la conseguente ordinanza di demolizione delle opere abusive troverebbero il loro fondamento in due “presupposti normativi”, costituiti, rispettivamente, dall’art. 33, comma 3, lettera b), della legge reg. Emilia-Romagna n. 23 del 2004, con riguardo al preteso ampliamento della cubatura superiore ai 100 metri cubi per effetto della realizzazione del piano interrato; e dall’art. 34, comma 2, lettera a), della medesima legge regionale n. 23 del 2004, con riguardo alla realizzazione di due unità abitative mediante la costruzione di un solaio intermedio.

Tuttavia, mentre le censure devolute in appello relative alla prima parte del provvedimento impugnato sono state accolte (per l’insussistenza del presupposto di fatto della realizzazione della nuova volumetria, eccedente la misura massima consentita di 100 metri cubi, asseritamente realizzata nel piano interrato), con conseguente annullamento del provvedimento impugnato in parte qua, per la definizione delle censure rivolte avverso la restante parte della motivazione del diniego di condono il Consiglio di Stato ritiene necessaria la rimessione alla Corte costituzionale dell’art. 34, comma 2, lettera a), della legge reg. Emilia-Romagna n. 23 del 2004.

Il rimettente ritiene, anzitutto, prive di fondamento le censure sollevate sulla base della pretesa applicabilità, alla fattispecie in esame, della disciplina statale in materia di condono straordinario ex art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, anziché della disciplina regionale di cui agli artt. 26 e seguenti della legge regionale n. 23 del 2004, dato che, a seguito della sentenza di questa Corte n. 196 del 2004, la stessa normativa statale (art. 32 del d.l. n. 269 del 2003) stabilisce che è la legge regionale a determinare la possibilità, le condizioni e le modalità per l’ammissibilità a sanatoria di tutte le tipologie di abuso edilizio di cui all’allegato 1, nonché eventualmente limiti volumetrici inferiori a quelli indicati nel decreto legge citato. Proprio in attuazione di tali previsioni – precisa il Consiglio di Stato – la Regione Emilia-Romagna ha adottato la disciplina del condono e disposto che essa trovi applicazione anche alle domande di condono già presentate ai sensi del d.l. n. 269 del 2003.

Pertanto, il Collegio rimettente ritiene che alla fattispecie sub iudice debba applicarsi l’art. 34, comma 2, lettera a), della legge reg. Emilia-Romagna n. 23 del 2004 e non la normativa statale.

Tuttavia, il Consiglio di Stato dubita della legittimità costituzionale della citata disposizione regionale in riferimento all’art. 3, primo comma, Cost. e solleva d’ufficio, ex art. 23, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), la relativa questione.

Innanzitutto, il collegio afferma che la questione è senz’altro rilevante, dato che sono poste, con i motivi di appello devoluti al presente grado, questioni che non possono essere decise indipendentemente dall’applicazione della citata disposizione regionale posta dall’amministrazione comunale a fondamento del provvedimento di diniego dell’istanza di condono.

In punto di non manifesta infondatezza, il Consiglio di Stato ritiene che la scelta operata dal legislatore regionale di limitare la sanatoria di interventi edilizi, comportanti un aumento delle unità immobiliari ubicate in edifici residenziali bi-familiari o mono-familiari, alle unità recuperate dalla trasformazione abitativa solo dei sottotetti e non anche di altri spazi interni, a «organismo edilizio rimasto invariato per sagoma e volumetria», sia arbitraria e ingiustificata, considerata la sostanziale omogeneità delle situazioni messe a confronto, sia sotto il profilo dell’incidenza sul carico urbanistico, sia sotto il profilo del risparmio di aree edificabili, costituenti notoriamente una risorsa scarsa.

Pertanto, solleva questione di legittimità costituzionale della citata disposizione regionale in riferimento all’art. 3, primo comma, Cost.

2.‒ Nel giudizio si è costituito il Comune di Cesena, parte del giudizio a quo, che ha chiesto di dichiarare inammissibile e comunque infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Consiglio di Stato.

Anche la Regione Emilia-Romagna, che è intervenuta nel giudizio, ha rivolto alla Corte costituzionale le medesime richieste.

In linea preliminare, la questione sarebbe inammissibile anzitutto per difetto di rilevanza.

Sia il Comune che la Regione sottolineano che le censure proposte dalla appellante attenevano alla pretesa applicabilità alla fattispecie in esame della legge statale vigente al momento della domanda di condono, che non avrebbe precluso la sanatoria di abusi consistenti nella realizzazione di nuove unità abitative.

In nessun grado e fase del giudizio sarebbe stata proposta l’eccezione relativa al recupero ai fini abitativi dei sottotetti e, pertanto, la norma regionale relativa sarebbe del tutto estranea e ininfluente rispetto alla decisione del giudice adito.

La questione sarebbe inammissibile, per entrambi gli enti territoriali, anche sotto un altro profilo.

Con essa, infatti, il rimettente chiederebbe alla Corte una pronuncia additiva senza tuttavia indicare il contenuto dell’addizione. Si tratterebbe di una richiesta generica e imprecisa, che non consentirebbe di delimitare quanto ammesso e quanto non ammesso, generando incertezza del diritto e futuro contenzioso.

Nel merito la questione sarebbe priva di fondamento. La differenza di trattamento tra il recupero dei sottotetti e la libera suddivisione degli spazi interni dell’edificio sarebbe pienamente giustificata, da un lato, dalla oggettiva differenza di rilievo urbanistico tra le due ipotesi, dall’altro dalla diversa natura e gravità dell’illecito originariamente posto in essere.

Mentre il condono dei sottotetti corrisponderebbe in modo ragionevole alla finalità di risparmio del suolo, la legittimazione ex post di qualunque tipo di intervento atto a moltiplicare le unità immobiliari sarebbe un avallo postumo a ogni forma di edilizia abusiva senza alcuna prevedibilità circa il livello di incisione sul carico urbanistico.

3.‒ All’udienza pubblica le parti hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni formulate nelle difese scritte.

Considerato in diritto

1.‒ Il Consiglio di Stato, con sentenza non definitiva del 31 luglio 2018, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione, dell’art. 34, comma 2, lettera a), della legge della Regione Emilia-Romagna 21 ottobre 2004, n. 23 (Vigilanza e controllo dell’attività edilizia ed applicazione della normativa statale di cui all’articolo 32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modifiche, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326), adottata in applicazione della normativa statale che ha introdotto il cosiddetto “terzo condono” edilizio.

In particolare, il Collegio rimettente ritiene che la citata disposizione regionale detti una disciplina arbitraria e ingiustificata, nella parte in cui limita le eccezioni al divieto di condono di interventi di ristrutturazione edilizia, che comportino un aumento delle unità immobiliari, all’ipotesi delle sole unità immobiliari «ottenute attraverso il recupero ai fini abitativi dei sottotetti, in edifici residenziali bifamiliari e monofamiliari». Tale eccezione dovrebbe essere estesa ‒ secondo il rimettente ‒ all’ipotesi in cui le unità immobiliari nuove siano prodotte per effetto della trasformazione abitativa anche di altri spazi interni «ad organismo edilizio rimasto invariato per sagoma e volumetria», in considerazione della ritenuta sostanziale omogeneità delle situazioni messe a confronto, sia sotto il profilo dell’incidenza sul carico urbanistico, sia sotto il profilo del risparmio di aree edificabili.

2.‒ In linea preliminare, si deve rilevare che non influisce sulla rituale instaurazione del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale la circostanza che la questione sia stata sollevata dal Consiglio di Stato con una sentenza non definitiva, con cui, contemporaneamente, ha accolto, con “sentenza parziale”, uno dei motivi di appello, con conseguente annullamento in parte qua del provvedimento impugnato, e, con “contestuale ordinanza di rimessione”, ha ritenuto la decisione dei restanti motivi condizionata alla previa proposizione della questione di costituzionalità.

Il provvedimento adottato ha caratteristiche peculiari, poiché alla sentenza non definitiva si affianca un’ordinanza di rimessione, quest’ultima in relazione ai motivi di ricorso non decisi. La forma prescelta non è tale da incidere sull’autonomia di ciascun provvedimento e sulla idoneità dell’ordinanza a instaurare validamente il giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale. Il giudice a quo ha, infatti, disposto la sospensione del procedimento e la trasmissione del fascicolo a questa Corte, nel rispetto dell’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) (sentenze n. 86 del 2017, n. 94 del 2009; e, in casi simili, sentenza n. 452 del 1997; ordinanza n. 153 del 2002).

3.‒ Ancora in via preliminare, occorre esaminare l’eccezione di inammissibilità, proposta sia dal Comune di Cesena che dalla Regione Emilia-Romagna, per difetto di rilevanza della questione.

Il dubbio di legittimità costituzionale riguarderebbe, infatti, una norma regionale del tutto estranea al giudizio a quo e quindi ininfluente rispetto alla decisione del giudice adito. Ciò deriverebbe dalla circostanza che le censure proposte dall’appellante, attenendo all’erronea interpretazione dell’art. 32, comma 3, del d.l. n. 269 del 2003 come convertito, e alla conseguente pretesa inapplicabilità della legge regionale, in favore della normativa statale, non preclusiva della sanatoria di abusi consistenti nella realizzazione di nuove unità abitative, non implicherebbero l’applicazione della norma regionale di cui all’art. 34, comma 2, lettera a), della legge reg. Emilia-Romagna n. 23 del 2004, là dove individua come unica eccezione al divieto di condono di interventi di ristrutturazione edilizia che diano forma a nuove unità immobiliari quella inerente a unità immobiliari «ottenute attraverso il recupero ai fini abitativi dei sottotetti, in edifici residenziali bifamiliari e monofamiliari».

3.1.‒ L’eccezione è priva di fondamento.

Di recente questa Corte ha ribadito che «nel giudizio di costituzionalità, ai fini dell’apprezzamento della rilevanza, ciò che conta è la valutazione che il giudice a quo deve effettuare in ordine alla possibilità che il procedimento pendente possa o meno essere definito indipendentemente dalla soluzione della questione sollevata, potendo la Corte interferire su tale valutazione solo se essa, a prima vista, appaia assolutamente priva di fondamento (sentenza n. 71 del 2015)» (sentenza n. 122 del 2019).

Nella specie, non risulta ictu oculi priva di fondamento e quindi implausibile la motivazione svolta dal giudice rimettente in punto di rilevanza.

Quest’ultimo, infatti, dopo aver esposto le ragioni per cui ritiene infondati i profili di censura inerenti alla pretesa applicabilità alla fattispecie sub iudice della disciplina statale di cui al decreto-legge n. 269 del 2003, afferma di dover applicare la previsione di cui all’art. 34, comma 2, lettera a), della legge reg. Emilia-Romagna n. 23 del 2004, «addotta dall’amministrazione comunale quale seconda, autonoma ragio  ne di diniego» del condono. Di conseguenza argomenta che le questioni che si pongono alla sua valutazione per effetto dei «motivi d’appello devoluti al presente grado […] non possono essere decise indipendentemente dall’applicazione della citata disposizione di legge regionale, posta dall’amministrazione comunale a fondamento del provvedimento di diniego dell’istanza di condono».

In effetti l’art. 34, comma 2, lettera a), della legge reg. Emilia-Romagna n. 23 del 2004, là dove vieta il rilascio del titolo in sanatoria per gli interventi di ristrutturazione edilizia (conformi alla legislazione urbanistica ma che contrastino con le prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti alla data del 31 marzo 2003), che «comportino aumento delle unità immobiliari», fatta eccezione solo per quelle «ottenute attraverso il recupero ai fini abitativi dei sottotetti, in edifici residenziali bifamiliari e monofamiliari», contribuisce a definire i limiti di applicabilità del divieto, posto a fondamento della parte impugnata del provvedimento di rigetto dell’istanza di condono. È, pertanto, evidente che l’eventuale accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Consiglio di Stato inciderebbe sull’esito del giudizio principale.

4.‒ Sia la Regione Emilia-Romagna sia il Comune di Cesena propongono un’ulteriore eccezione di inammissibilità della questione sollevata, sull’assunto che il rimettente chiederebbe a questa Corte una pronuncia additiva senza, tuttavia, indicare il contenuto dell’addizione. Si tratterebbe di una richiesta generica e imprecisa, che non consentirebbe di delimitare quanto ammesso e quanto non ammesso, generando incertezza del diritto e futuro contenzioso.

4.1.‒ Anche tale eccezione non è fondata.

Dal tenore complessivo della motivazione dell’ordinanza di rimessione emerge con sufficiente chiarezza che l’art. 34, comma 2, lettera a), della legge reg. Emilia-Romagna n. 23 del 2004 è censurato nella parte in cui non contempla, accanto all’eccezione al divieto di condono di interventi di ristrutturazione edilizia, che comportino aumento delle unità immobiliari per effetto del recupero dei sottotetti a fini abitativi, anche quella degli interventi di ristrutturazione che determinino un aumento delle unità immobiliari risultanti dalla trasformazione abitativa di altri spazi interni diversi dai sottotetti, «ad organismo edilizio rimasto invariato per sagoma e volumetria». Secondo il rimettente, considerata la sostanziale omogeneità delle situazioni messe a raffronto, sia sotto il profilo dell’incidenza sul carico urbanistico, sia sotto il profilo del risparmio di aree edificabili, la limitazione delle eccezioni al divieto di condono posto dal citato art. 34 alle sole ipotesi inerenti alla creazione di nuove unità abitative risultanti dal recupero dei sottotetti e non anche di altri spazi interni, che non alterino volume e sagoma dell’immobile, sarebbe in contrasto con i principi di ragionevolezza e parità di trattamento. In tal modo, finirebbero per essere trattate diversamente ipotesi del tutto assimilabili.

Il petitum è, quindi, «ben chiaro, mentre solo la sua indeterminatezza o ambiguità comporterebbero l’inammissibilità della questione (ex pluribus, sentenza n. 32 del 2016; ordinanze n. 227 e n. 177 del 2016 e n. 269 del 2015)» (sentenza n. 180 del 2018).

5.‒ Nel merito, la questione non è fondata.

La norma censurata è contenuta nella legge regionale n. 23 del 2004, con cui la Regione Emilia-Romagna è intervenuta a dare attuazione a quanto previsto dall’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, convertito, con modifiche, nella legge n. 326 del 2003.

Quest’ultimo, che ha introdotto «la previsione e la disciplina di un nuovo condono edilizio esteso all’intero territorio nazionale, di carattere temporaneo ed eccezionale», ha subìto, per effetto della sentenza n. 196 del 2004 di questa Corte, «una radicale modificazione, soprattutto attraverso il riconoscimento alle Regioni del potere di modulare l’ampiezza del condono edilizio in relazione alla quantità e alla tipologia degli abusi sanabili» (sentenza n. 49 del 2006).

In particolare, si è riconosciuto che il ruolo del legislatore regionale, «specificativo – all’interno delle scelte riservate al legislatore nazionale – delle norme in tema di condono, contribuisce senza dubbio a rafforzare la più attenta e specifica considerazione di quegli interessi pubblici, come la tutela dell’ambiente e del paesaggio, che sono – per loro natura – i più esposti a rischio di compromissione da parte delle legislazioni sui condoni edilizi» (sentenza n. 49 del 2006).

È per questo che la legislazione regionale è chiamata a determinare le condizioni e le modalità per la sanatoria di tutte le tipologie di abuso edilizio (di cui all’Allegato 1 del d.l. n. 269 del 2003), nonché l’eventuale individuazione di limiti volumetrici inferiori a quelli indicati dalla normativa statale (in specie dal comma 26 del citato art. 32 del d.l. n. 269 del 2003), con riguardo agli interventi edilizi abusivi condonabili.

Per dare attuazione a tali indicazioni, la Regione Emilia-Romagna ha provveduto, con l’art. 34, a identificare tassativamente le condizioni per la sanatoria di interventi di ristrutturazione edilizia «conformi alla legislazione urbanistica ma che contrastino con le prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti alla data del 31 marzo 2003» (comma 2) e quindi abusivi. Fra tali condizioni ha espressamente indicato, alla lettera a), la necessità che simili interventi non comportino aumenti delle unità immobiliari, «fatte salve quelle ottenute attraverso il recupero ai fini abitativi dei sottotetti, in edifici residenziali bifamiliari e monofamiliari».

La previsione di quest’ultima eccezione riflette un orientamento già espresso nella precedente legge della Regione Emilia-Romagna 6 aprile 1998, n. 11 (Recupero a fini abitativi dei sottotetti esistenti), volto a promuovere tale recupero in vista dell’obiettivo di «contenere il consumo di nuovo territorio attraverso un più efficace riutilizzo dei volumi esistenti» (art. 1), peraltro «nel rispetto delle caratteristiche tipologiche e morfologiche degli immobili e delle prescrizioni igienico-sanitarie riguardanti le condizioni di agibilità». In questa linea il legislatore regionale ha, per maggiore chiarezza, in seguito esplicitato il concetto di «volumi esistenti», precisando che per «sottotetto si intende lo spazio compreso tra l’intradosso della copertura non piana dell’edificio e l’estradosso del solaio del piano sottostante» (comma 2 del citato art. 1, inserito dall’art. 1, comma 1, della legge regionale 30 maggio 2014, n. 5, recante «Modifiche alla legge regionale 6 aprile 1998, n. 11 “Recupero a fini abitativi dei sottotetti esistenti”»). Il che esclude ogni intervento diverso dalla mera nuova destinazione a fini abitativi del sottotetto preesistente.

La peculiarità della fattispecie del recupero dei sottotetti a fini abitativi è stata, d’altronde, già sottolineata da questa Corte che, chiamata a scrutinare norme regionali volte a consentire il recupero a fini abitativi di quelli già esistenti, anche ove realizzati in contrasto con gli strumenti urbanistici comunali, le ha ritenute legittime, sul piano costituzionale, a condizione che fossero rispettati tutti i limiti fissati dal legislatore statale in tema di distanze, tutela del paesaggio, igiene e salubrità (sentenze n. 282 e n. 11 del 2016).

In particolare, con riguardo a norme regionali analoghe a quella posta dalla legge regionale ora in esame, anche la giurisprudenza amministrativa si è più volte pronunciata, rilevando come «non una qualsiasi parte di edificio immediatamente inferiore al tetto può ritenersi un “sottotetto” sfruttabile ai fini abitativi, ma solo quella parte che, a seconda dell’altezza, della praticabilità del solaio, delle modalità di accesso, dell’esistenza o meno di finestre e di vani interni, integra un volume già di per sé utilizzabile, praticabile ed accessibile, quantomeno come deposito o soffitta» (Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento, sentenza 19 gennaio 2017, n. 20). Pertanto, «presupposto per il recupero abitativo dei sottotetti è che sia identificabile come già esistente un volume sottotetto passibile di recupero, ovvero di riutilizzo a fini abitativi, in quanto avente caratteristiche dimensionali (altezza, volume e superficie) e funzionali (utilizzabile), tali da risultare già praticabile ed abitabile» (Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento, sentenza 19 gennaio 2017, n. 20; così anche Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione seconda, sentenza 2 aprile 2010, n. 970).

Alla luce di tali indicazioni emerge che l’intento del legislatore regionale è solo quello di consentire l’utilizzo, a fini abitativi, di uno spazio, il sottotetto, già esistente, la cui destinazione abitativa determina la “riconversione” del medesimo in una unità immobiliare, in vista, come si è già ricordato, di «contenere il consumo di nuovo territorio attraverso un più efficace riutilizzo dei volumi esistenti» (art. 1 della legge reg. n. 11 del 1998).

Appare, pertanto, evidente la non comparabilità di tale fattispecie con quella oggetto del giudizio principale ‒ cui il rimettente chiede di estendere la sanatoria ‒ che non contempla il riutilizzo di uno spazio preesistente “trasformato” in unità abitativa, ma la creazione, mediante la realizzazione di un solaio all’interno di un’attrezzaia agricola, di due nuove unità immobiliari.

Né si può instaurare una corretta comparazione con generiche ipotesi di trasformazione a fini abitativi di «spazi interni diversi dai sottotetti», «ad organismo edilizio rimasto invariato per sagoma e volumetria», ipotesi che non escludono la creazione di più spazi mediante la frammentazione dello spazio interno originario, con conseguente moltiplicazione delle unità immobiliari.

A una tale conclusione si perviene anche senza voler considerare la differente incidenza dei richiamati interventi in termini di “carico urbanistico” e cioè di «fabbisogno di dotazioni territoriali di un determinato immobile o insediamento in relazione alla sua entità e destinazione d’uso» (così nell’Allegato A all’Intesa, ai sensi dell’articolo 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, tra il Governo, le Regioni e i Comuni concernente l’adozione del regolamento edilizio-tipo di cui all’articolo 4, comma 1-sexies del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380). Quest’ultima valutazione, anche in caso di non incremento di volume o di superficie utile, impone comunque «scelte di tipo qualitativo circa il livello sostenibile di popolazione insediabile o di offerta ricettiva compatibile» con un certo tessuto abitativo (Cons. Stato, sezione quarta, sentenza 13 novembre 2018, n. 6403), scelte che non possono non spettare agli enti territoriali competenti.

Inoltre, la norma censurata, come si è visto, è norma “eccezionale” rispetto al divieto generale di condono degli interventi di ristrutturazione edilizia che comportino un aumento delle unità immobiliari. Proprio in considerazione di tale eccezionalità essa «non può essere assunta come utile termine di raffronto ai fini del giudizio sulla corretta osservanza, da parte del legislatore, del principio di eguaglianza» (sentenza n. 298 del 1994 e più recentemente sentenza n. 20 del 2018). È risalente – e tuttavia sempre incisivo – l’orientamento di questa Corte da cui si ricava che, «in presenza di norme generali e di norme derogatorie, in tanto può porsi una questione di legittimità costituzionale per violazione del principio di eguaglianza, in quanto si assuma che queste ultime, poste in relazione alle prime, siano in contrasto con tale principio; viceversa, quando si adotti come tertium comparationis la norma derogatrice, la funzione del giudizio di legittimità costituzionale non può essere se non il ripristino della disciplina generale, ingiustificatamente derogata da quella particolare, non l’estensione ad altri casi di quest’ultima (cfr. ord. n. 666 del 1988, ord. n. 582 del 1988, sent. n. 383 del 1992)» (sentenza n. 298 del 1994).

Le ragioni fin qui enunciate conducono a ritenere priva di fondamento la questione di legittimità costituzionale sollevata.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, lettera a), della legge della Regione Emilia-Romagna 21 ottobre 2004, n. 23 (Vigilanza e controllo dell’attività edilizia ed applicazione della normativa statale di cui all’articolo 32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modifiche, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326), sollevata, in riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione, dal Consiglio di Stato, con l’atto indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 luglio 2019.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Silvana SCIARRA, Redattore

Filomena PERRONE, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 26 luglio 2019.