Sentenza n. 123 del 2019

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SENTENZA N. 123

ANNO 2019

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giorgio LATTANZI;

Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale della legge della Regione Siciliana 8 febbraio 2018, n. 1 (Variazione di denominazione dei comuni termali), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso notificato il 17-24 aprile 2018, depositato in cancelleria il 27 aprile 2018, iscritto al n. 34 del registro ricorsi 2018 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell’anno 2018.

Udito nell’udienza pubblica del 2 aprile 2019 il Giudice relatore Nicolò Zanon;

udito l’avvocato dello Stato Danilo Del Gaizo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.− Con ricorso notificato il 17-24 aprile 2018 e depositato il 27 aprile 2018 il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, in riferimento all’art. 133, secondo comma, della Costituzione, «anche con riguardo» all’art. 14 del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione siciliana), convertito in legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2 (Conversione in legge costituzionale dello Statuto della Regione siciliana, approvato col decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455), questione di legittimità costituzionale della legge della Regione Siciliana 8 febbraio 2018, n. 1 (Variazione di denominazione dei comuni termali).

2.− Premette il ricorrente che la legge reg. Siciliana n. 1 del 2018 ha apportato modifiche all’art. 8 della legge della Regione Siciliana 23 dicembre 2000, n. 30 (Norme sull’ordinamento degli enti locali), relativo alle «Variazioni territoriali e di denominazione dei comuni». Tale disposizione prevedeva originariamente, e continua a prevedere, al secondo comma, che «[l]e variazioni di denominazione dei comuni consistenti nel mutamento, parziale o totale, della precedente denominazione, sono anch’esse soggette a referendum sentita la popolazione dell’intero Comune». L’art. 1, comma 1, lettera a), della legge reg. Siciliana n. 1 del 2018, ha aggiunto alla fine del comma sopra riportato le seguenti parole: «, fatta eccezione per i casi disciplinati dal comma 2-bis».

Lo stesso art. 1, comma 1, alla lettera b), ha introdotto, dopo il comma 2 dell’art. 8 della legge reg. Siciliana n. 30 del 2000, un comma 2-bis, così formulato: «Ai comuni sui cui territori insistono insediamenti e/o bacini termali è consentita l’aggiunta della parola “terme” alla propria denominazione, previa deliberazione del consiglio comunale adottata a maggioranza dei due terzi dei consiglieri. Entro sessanta giorni dalla pubblicazione della delibera nell’albo pretorio, i cittadini del comune interessato possono esprimere il proprio dissenso alla modifica di denominazione mediante la presentazione, alla sede dell’ente, di una petizione sottoscritta dagli elettori iscritti nelle liste elettorali del comune. La mancata sottoscrizione della petizione equivale all’adesione alla modifica di denominazione. La delibera del consiglio comunale acquista efficacia alla scadenza del termine di cui al presente comma, a condizione che non sia stata presentata una petizione sottoscritta da almeno un quinto degli elettori iscritti nelle liste elettorali del comune».

3.– Secondo il ricorrente, «[p]er effetto delle modifiche approvate», le variazioni delle denominazioni dei Comuni termali della Regione Siciliana, «consistenti nell’aggiunta della parola “terme” alla denominazione originaria», oltre ad essere approvate dal consiglio comunale con la maggioranza qualificata indicata dalla norma, «non sono più soggette a referendum preventivo, da indirsi obbligatoriamente e interessante la popolazione dell’intero comune». Da ciò conseguirebbe che gli abitanti del Comune la cui denominazione viene modificata non verrebbero consultati, ma potrebbero esprimere il proprio dissenso soltanto sottoscrivendo una petizione, da presentare entro sessanta giorni dalla pubblicazione nell’albo pretorio della relativa delibera. La mancata sottoscrizione della petizione, sulla base della semplice inerzia dei sottoscrittori, verrebbe equiparata ad una adesione alla modifica della denominazione. Inoltre, aggiunge l’Avvocatura generale dello Stato a sostegno della censura, la disposizione impugnata stabilisce che se la petizione non viene sottoscritta da un numero di cittadini superiore al quinto degli aventi diritto, la delibera diviene efficace.

4.– Le disposizioni di semplificazione della procedura di variazione della denominazione dei Comuni della Regione Siciliana, prevista dalle norme introdotte dalla legge reg. Siciliana n. 1 del 2018, violerebbero, secondo il ricorrente, l’art. 133, secondo comma, Cost., che, nell’attribuire alla Regione il potere di istituire nuovi Comuni e modificare le proprie circoscrizioni e denominazioni, prescrive che debbano essere «sentite le popolazioni interessate».

La costante giurisprudenza della Corte costituzionale avrebbe, infatti, precisato in proposito che sussiste un obbligo di fare ricorso alla «indispensabile forma che il referendum consultivo riveste per appagare l’esigenza partecipativa delle popolazioni interessate» (sono menzionate le sentenze n. 279 del 1994, n. 107 del 1983 e n. 204 del 1981). Inoltre, la Corte costituzionale avrebbe anche di recente precisato che la disposizione costituzionale, nella parte in cui riconosce «il principio di autodeterminazione delle popolazioni locali», vincola anche «le Regioni a statuto speciale» (è richiamata la sentenza n. 21 del 2018).

Del resto, con specifico riferimento all’applicazione dell’art. 133, secondo comma, Cost., alla Regione Siciliana, la Corte costituzionale avrebbe affermato che la parte di tale norma, diretta a garantire la partecipazione popolare delle comunità locali nei confronti delle stesse Regioni condiziona anche la potestà legislativa esclusiva della Regione Siciliana nella materia, «essendo chiaramente uno dei principi di portata generale che connotano il significato pluralistico della nostra democrazia» (è richiamata la sentenza n. 453 del 1989).

Pur se la Regione Siciliana gode, ai sensi dell’art. 14, lettera o), del proprio statuto, di competenza esclusiva in materia di «regime degli enti locali e delle circoscrizioni relative», tale competenza deve esercitarsi «nei limiti delle leggi costituzionali dello Stato».

Sostiene ancora il ricorrente che, secondo la giurisprudenza costituzionale, le Regioni a statuto speciale – seppur libere di dare attuazione a tale principio nelle forme ritenute più opportune, anche equivalenti a quella tipica del referendum – devono comunque «assicurare, con pari forza, la completa libertà di manifestazione dell’opinione da parte dei soggetti chiamati alla consultazione, al riparo cioè da ogni condizionamento esterno nel momento del suo svolgimento e quindi con l’osservanza delle opportune forme di segretezza adeguate a tali fini» (è richiamata la sentenza n. 453 del 1989).

5.– Il ricorrente ritiene che la forma di consultazione introdotta dalla disposizione impugnata non soddisfi alcuna delle condizioni previste dall’art. 133, secondo comma, Cost. e rappresenti una deroga alla stessa normativa regionale adottata in materia di variazione territoriale e di denominazione dei Comuni dalla legge reg. Siciliana n. 30 del 2000, che ha previsto, all’art. 8, il referendum consultivo come unica forma idonea a soddisfare il principio di partecipazione della popolazione interessata.

La modalità di consultazione prevista dalla legge reg. Siciliana n. 1 del 2018, nonostante l’ambito di autonomia riconosciuto alle Regioni a statuto speciale nella materia de qua, sarebbe comunque in contrasto con la Costituzione, perché la previsione di una petizione nella quale è consentito solo di manifestare dissenso rispetto alla variazione della denominazione del Comune – petizione sottoscritta soltanto da una parte degli elettori – non potrebbe considerarsi equivalente allo svolgimento di un referendum, volto a consultare l’intera popolazione interessata alla variazione. Né la semplice inerzia della popolazione, alla quale la disposizione impugnata vorrebbe attribuire il significato di manifestazione del consenso, potrebbe equipararsi ad una adeguata espressione di volontà, in assenza dell’indizione di una consultazione pubblica e ufficiale quale quella prevista dall’art. 133, secondo comma, Cost.

6.– Osserva l’Avvocatura generale dello Stato che la presentazione della petizione costituisce oltretutto un accadimento meramente eventuale, siccome rimesso all’iniziativa dei suoi presentatori.

Ciò risulterebbe incompatibile con la natura obbligatoria della consultazione, richiesta dalla giurisprudenza costituzionale.

Ancora, mancherebbe del tutto il carattere preventivo della consultazione stessa, cui avrebbe fatto riferimento la Corte costituzionale nelle sentenze n. 453 del 1989 e n. 36 del 2011, stabilendo che la consultazione integra un elemento costitutivo del procedimento di variazione, a garanzia del principio di autodeterminazione e partecipazione popolare: infatti, la legge regionale impugnata condizionerebbe alla scadenza del termine entro il quale devono verificarsi le attività previste in capo ai sottoscrittori non il vero e proprio perfezionamento della delibera comunale, ma la sua mera efficacia.

7.– Infine, la modalità di consultazione introdotta dalla norma impugnata non garantirebbe neppure le «opportune forme di segretezza», richieste dalla giurisprudenza costituzionale al fine di porre al riparo da ogni condizionamento esterno la popolazione interessata. Ciò in quanto sarebbe palese e univocamente attribuibile la manifestazione di volontà dei sottoscrittori della petizione e, per esclusione, sarebbe tale anche quella degli elettori che non la sottoscrivono, la cui condotta inerte verrebbe considerata di adesione alla modifica di denominazione dei Comuni.

Del resto, sostiene l’Avvocatura generale dello Stato, alla petizione potrebbero estendersi i rilievi espressi dalla Corte costituzionale nella già citata sentenza n. 453 del 1989, che ha respinto la tesi della equiparabilità di istanze di cittadini dirette a promuovere iniziative di variazione territoriale alla consultazione prevista dall’art. 133, secondo comma, Cost., osservando che è «evidente che la sottoscrizione di dette istanze costituisce un modo di espressione dell’opinione che non offre garanzie circa la libertà di ciascuno in relazione a possibili condizionamenti esterni», e che altro è il momento dell’iniziativa, altro quello della consultazione vera e propria delle popolazioni interessate.

8.– La Regione Siciliana non si è costituita in giudizio.

Considerato in diritto

1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, promuove questione di legittimità costituzionale della legge della Regione Siciliana 8 febbraio 2018, n. 1 (Variazione di denominazione dei comuni termali), per violazione dell’art. 133, secondo comma, della Costituzione, «anche con riguardo» all’art. 14 del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione siciliana), convertito in legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2 (Conversione in legge costituzionale dello Statuto della Regione siciliana, approvato col decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455).

Il ricorso è proposto nei confronti dell’intera legge regionale, la quale consta, peraltro, di due soli articoli: l’art. 1, che apporta modifiche all’art. 8 della legge della Regione Siciliana 23 dicembre 2000, n. 30 (Norme sull’ordinamento degli enti locali), in materia di «variazioni di denominazioni di comuni termali», e l’art. 2, che disciplina l’entrata in vigore della legge stessa.

Osserva, in particolare, il ricorrente che l’art. 1 della legge reg. Siciliana n. 1 del 2018, modifica quanto originariamente disposto dall’art. 8 della legge reg. Siciliana n. 30 del 2000 in tema di variazioni territoriali e di denominazione dei Comuni.

Quest’ultimo articolo stabilisce, in via generale, che alle variazioni territoriali dei Comuni si provvede con legge, previo referendum da svolgere presso le popolazioni interessate (comma 1), coinvolgendole «nella loro interezza» (comma 3), referendum valido solo se vota la metà più uno degli aventi diritto (comma 7). Prevede, inoltre, che anche le variazioni di denominazione dei Comuni, consistenti nel mutamento, parziale o totale, della precedente denominazione – sempre da approvare, s’intende, con legge regionale – sono soggette a referendum, «sentita la popolazione dell’intero comune» (comma 2).

Ebbene, l’impugnato art. 1, comma 1, lettera a), della legge reg. Siciliana n. 1 del 2018 stabilisce che a tale ultima previsione siano aggiunte le parole «, fatta eccezione per i casi disciplinati dal comma 2-bis»; la successiva lettera b) del medesimo comma 1 introduce poi, al ricordato art. 8, comma 2, della legge reg. Siciliana n. 30 del 2000, un comma 2-bis così formulato: «Ai comuni sui cui territori insistono insediamenti e/o bacini termali è consentita l’aggiunta della parola “terme” alla propria denominazione, previa deliberazione del consiglio comunale adottata a maggioranza dei due terzi dei consiglieri. Entro sessanta giorni dalla pubblicazione della delibera nell’albo pretorio, i cittadini del comune interessato possono esprimere il proprio dissenso alla modifica di denominazione mediante la presentazione, alla sede dell’ente, di una petizione sottoscritta dagli elettori iscritti nelle liste elettorali del comune. La mancata sottoscrizione della petizione equivale all’adesione alla modifica di denominazione. La delibera del consiglio comunale acquista efficacia alla scadenza del termine di cui al presente comma, a condizione che non sia stata presentata una petizione sottoscritta da almeno un quinto degli elettori iscritti nelle liste elettorali del comune».

Ritiene, dunque, il ricorrente che la disposizione così introdotta si ponga in contrasto con quanto previsto dall’art. 133, secondo comma, Cost. – ai sensi del quale la Regione, «sentite le popolazioni interessate», può con sue leggi modificare le denominazioni dei Comuni – anche in relazione a quanto disposto dall’art. 14 dello statuto reg. Siciliana, che alla lettera o) riconosce alla Regione stessa potestà legislativa esclusiva quanto al «regime degli enti locali e delle circoscrizioni relative», però «nei limiti delle leggi costituzionali dello Stato».

L’Avvocatura generale dello Stato afferma che la introdotta deroga al ricorso alla consultazione referendaria, per la sola ipotesi dell’aggiunta della parola «terme» alla denominazione del Comune, non soddisferebbe alcuna delle condizioni ricavabili dalla predetta disposizione costituzionale, come interpretata dalla giurisprudenza di questa Corte.

Infatti, la modalità di consultazione prescelta per il mutamento di denominazione – una petizione da sottoscrivere dai cittadini del Comune, se dissenzienti rispetto alla proposta di modifica – renderebbe il coinvolgimento della popolazione comunale solo eventuale e non più obbligatorio, non riguarderebbe l’intera popolazione interessata, determinerebbe una consultazione non già preventiva ma successiva rispetto all’approvazione della proposta, non garantirebbe, infine, le opportune forme di segretezza che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, dovrebbero porre i partecipanti alla consultazione, nel momento del suo svolgimento, al riparo da ogni condizionamento esterno.

2.– Come risulta dal resoconto stenografico della seduta del 31 gennaio 2018 dell’Assemblea Regionale Siciliana (Seguito della discussione del disegno di legge n. 75/A: «Variazione di denominazione dei comuni termali»), l’approvazione della disposizione impugnata è stata mossa dalla «esigenza di dare un percorso diverso a quei comuni che contengono nel proprio territorio un insediamento termale», evitando i «gravosi» costi economici di un referendum.

In nome di esigenze di semplificazione, celerità e risparmio, viene così introdotta – nell’ambito di un ordinamento regionale che, per i mutamenti di denominazione dei Comuni come per le loro variazioni territoriali, prevede il referendum quale modalità di consultazione delle popolazioni interessate (art. 8 della legge reg. Siciliana n. 30 del 2000) – una puntuale deroga alla disciplina generale, per la sola ipotesi in cui un Comune, sul territorio del quale insistano insediamenti o bacini termali, intenda aggiungere la parola “terme” alla propria precedente denominazione.

Deve essere anche sottolineato, benché non costituisca oggetto d’impugnativa, che, proprio per effetto del tenore della deroga introdotta dalla disposizione impugnata, non è chiaro se la modificazione della denominazione originaria del Comune, consistente nell’aggiunta della parola «terme», debba continuare ad essere disposta con legge regionale (come del resto prescrive per ogni modificazione di denominazione l’art. 133, secondo comma, Cost.), all’esito di un complessivo procedimento, in cui l’approvazione della deliberazione del consiglio comunale costituisce solo fase preliminare; o se, invece, la modificazione in parola possa conseguire alla sola approvazione della citata deliberazione del consiglio comunale interessato, a maggioranza dei due terzi, che «acquista efficacia» dopo sessanta giorni dalla sua pubblicazione (salvo che entro tale termine sia presentata una petizione da parte dei cittadini del Comune dissenzienti, in numero non inferiore a un quinto degli elettori iscritti nelle liste elettorali del Comune stesso).

3.– Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l’art. 133, secondo comma, Cost. è certamente destinato alle Regioni a statuto ordinario, che devono adempiere l’obbligo di sentire le popolazioni interessate mediante ricorso al referendum (sentenze n. 2 del 2018, n. 214 del 2010, n. 237 del 2004, n. 94 del 2000, n. 279 del 1994, n. 107 del 1983 e n. 204 del 1981). La disposizione costituzionale in parola, si è anche affermato, vincola le stesse Regioni a statuto speciale, nella parte in cui riconosce il principio di necessaria consultazione delle popolazioni locali, principio radicato nella tradizione storica (sentenza n. 279 del 1994) e connaturato all’articolato disegno costituzionale delle autonomie in senso pluralista (sentenza n. 453 del 1989).

Con specifico riferimento alla Regione Siciliana, questa stessa Corte ha già stabilito che tale principio, «di portata generale» e caratterizzante «il significato pluralistico della nostra democrazia», condiziona anche la potestà legislativa esclusiva regionale nella materia qui in esame (ancora sentenza n. 453 del 1989). Del resto, come opportunamente osserva l’Avvocatura generale dello Stato, l’art. 14, lettera o), dello statuto reg. Siciliana, pur attribuendo alla Regione stessa potestà legislativa esclusiva in materia di «regime degli enti locali e delle circoscrizioni relative», prevede che tale competenza sia esercitata «nei limiti delle leggi costituzionali dello Stato».

Ancora di recente (sentenza n. 21 del 2018, sulla scorta di quanto già riconosciuto dalla citata sentenza n. 453 del 1989), la giurisprudenza costituzionale ha precisato che le Regioni a statuto speciale restano peraltro libere di dare attuazione al principio in questione nelle forme procedimentali ritenute più opportune.

Nel caso ora in esame, si tratta perciò di stabilire se la specifica modalità di consultazione della popolazione interessata, prescelta dalla disposizione impugnata, sia idonea a soddisfare il principio costituzionale sancito dall’art. 133, secondo comma, Cost.

4.– La risposta deve essere negativa e la questione è perciò fondata.

In disparte ogni considerazione sulla possibilità, per la legge regionale – e particolarmente per la legge di una Regione a statuto speciale – di prevedere l’adozione, nella materia in esame, di forme di consultazione alternative al referendum, certo è che la particolare disciplina della petizione, apprestata dalla disposizione impugnata, non costituisce procedura idonea a soddisfare il principio costituzionale in parola.

Al cospetto della deliberazione di variazione della denominazione del Comune, adottata dal consiglio comunale a maggioranza dei due terzi dei consiglieri, il comma 2-bis dell’art. 8 della legge reg. Siciliana n. 30 del 2000, comma inserito dall’art. 1, comma 1, lettera b), della legge reg. Siciliana n. 1 del 2018, stabilisce che i cittadini «possono» esprimere il proprio dissenso sulla modifica, presentando appunto, entro sessanta giorni dalla pubblicazione della deliberazione, una petizione presso la sede del Comune.

Se sottoscritta da almeno un quinto degli elettori del Comune, la presentazione della petizione ha l’effetto di impedire che la deliberazione di modifica approvata dal consiglio comunale acquisti efficacia.

La giurisprudenza di questa Corte ha già affermato (sentenze n. 2 del 2018 e n. 453 del 1989) che la presentazione di istanze, richieste o petizioni non garantisce il rispetto del principio di autodeterminazione, soprattutto perché un conto è il momento dell’iniziativa, altro è quello della consultazione vera e propria dell’intera popolazione interessata, da condurre secondo modalità che garantiscano a tutti e a ciascuno adeguata e completa informazione e libertà di valutazione.

L’adempimento attraverso cui si “sentono” le popolazioni interessate costituisce una fase obbligatoria, che deve avere autonoma evidenza nel procedimento di variazione territoriale o di modifica della denominazione del Comune (ex multis, sentenze n. 36 del 2011, n. 237 del 2004 e n. 47 del 2003): mentre la disposizione impugnata prevede che, se nessuna petizione viene presentata, la deliberazione del Consiglio comunale «acquista efficacia», cioè è idonea a produrre i propri effetti giuridici nell’ordinamento.

Il legislatore siciliano ha ritenuto di ovviare alla mancata previsione di una reale fase di consultazione dei cittadini stabilendo che «la mancata sottoscrizione della petizione equivale all’adesione alla modifica di denominazione». Si tratta di una inammissibile attribuzione di significato ad una semplice inerzia, alla quale non può evidentemente essere riconosciuto alcun valore giuridico, meno che mai quello di adesione alla modifica, all’esito di una assai singolare “consultazione tacita”.

A sua volta singolare, e in parte persino contraddittoria con tale ultima previsione, risulta, a ben vedere, l’attribuzione di un effetto di “veto” alla presentazione di una petizione, sottoscritta da almeno un quinto di elettori dissenzienti rispetto alla deliberazione adottata dal consiglio comunale: scelta che assegna un incongruo potere di blocco a una minoranza, pur a fronte dell’asserito significato adesivo alla proposta di modifica, assegnato al comportamento di coloro (la maggioranza) che tale petizione non abbiano sottoscritto.

Né, ai fini del rispetto del principio contenuto nell’art. 133, secondo comma, Cost., rileva che il consiglio comunale interessato adotti la deliberazione di modifica della denominazione a maggioranza dei due terzi dei consiglieri, poiché l’interesse garantito dall’obbligo di consultazione è riferito direttamente alle popolazioni e non ai loro rappresentanti elettivi (analogamente sentenza n. 94 del 2000).

5.– Alla luce del principio di cui all’art. 133, secondo comma, Cost. e nel contesto caratterizzato dalla disciplina generale recata dalla legge reg. Siciliana n. 30 del 2000, la puntuale deroga introdotta dalla disposizione impugnata si rivela dunque costituzionalmente illegittima.

Da una parte, le affermate esigenze di celerità, semplificazione procedurale e risparmio di risorse finanziarie potrebbero valere al cospetto di qualunque modifica della denominazione di un Comune, non solo per quelle volte ad aggiungere la parola «terme» alla denominazione originaria; dall’altra, tuttavia, ogni proposta tesa al mutamento di denominazione deve, in principio, consentire il coinvolgimento dell’intera popolazione interessata, poiché si tratta sempre di incidere su «un elemento non secondario dell’identità dell’ente esponenziale della collettività locale» (sentenza n. 237 del 2004, con riferimento a una proposta di “mera integrazione” della denominazione originaria, su iniziativa del consiglio comunale).

Anche di recente questa Corte ha ribadito che la denominazione di un Comune connota l’identità della popolazione facente parte dell’ente territoriale, poiché la toponomastica ha una fondamentale funzione comunicativa e simbolica, tesa a valorizzare nelle denominazioni le tradizioni del territorio (sentenza n. 210 del 2018, sia pur riferita al particolare contesto linguistico della Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol).

Infine, pur non essendo oggetto di censura da parte dell’Avvocatura generale dello Stato, aggrava l’illegittimità costituzionale della disciplina impugnata l’ambiguità della previsione secondo cui la delibera del consiglio comunale, che adotta questa specifica tipologia di modifica della denominazione comunale, «acquista efficacia» alla scadenza del termine previsto per la presentazione della petizione, nulla essendo chiarito rispetto alla necessità che sia una legge regionale a provvedere definitivamente.

6.– Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge reg. Siciliana n. 1 del 2018. L’art. 2 della medesima legge, che si limita a disciplinare l’entrata in vigore della norma veicolata dall’art. 1, non può che seguire la medesima sorte.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge della Regione Siciliana 8 febbraio 2018, n. 1 (Variazione di denominazione dei comuni termali).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 aprile 2019.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Nicolò ZANON, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 maggio 2019.