Sentenza n. 3 del 2019

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SENTENZA N. 3

 

ANNO 2019

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

composta dai signori:

 

Presidente: Giorgio LATTANZI

 

Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 204 e 205, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Venezia, nel procedimento penale a carico di X. J. e Z. J., con ordinanza del 3 luglio 2017, iscritta al n. 165 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2017.

 

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 5 dicembre 2018 il Giudice relatore Giovanni Amoroso.

 

Ritenuto in fatto

 

1.– Con ordinanza del 3 luglio 2017 il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Venezia − premesso che l’ufficio recupero crediti aveva richiesto che il dispositivo di un decreto penale di condanna per i delitti di cui agli artt. 334 e 349 del codice penale, divenuto definitivo perché non opposto, fosse integrato, ai sensi dell’art. 130 del codice di procedura penale, con la pronuncia di condanna al pagamento delle spese di custodia di un autocarro sequestrato agli imputati e poi restituito alla legittima proprietaria senza che quest’ultima fosse gravata di tali spese − ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 205, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», nella parte in cui dispone che le spese del processo penale anticipate dall’erario sono recuperate nella misura fissa stabilita con decreto del Ministro della giustizia, e dell’art. 204 dello stesso d.P.R., nella parte in cui dispone che nel caso di decreto ai sensi dell’art. 460 del codice di procedura penale si procede al recupero delle spese per la custodia dei beni sequestrati.

 

Secondo il rimettente, tali disposizioni darebbero luogo a una irragionevole disparità di trattamento ponendo il pagamento delle spese per la custodia dei beni sequestrati a carico dei soli imputati condannati che abbiano optato per il procedimento per decreto (oltre che per l’applicazione della pena su richiesta delle parti, ipotesi parimenti contemplata dall’art. 204, ma non rilevante nel caso in esame), lasciando esenti da tale obbligo gli imputati condannati all’esito di giudizi celebrati con rito ordinario o con altri riti alternativi.

 

In premessa il rimettente osserva che le spese di custodia dei veicoli e, in genere, dei beni in sequestro, rientrano nell’ambito delle spese processuali, come si desume sia dall’art. 535 cod. proc. pen., che distingue dalle spese processuali solo quelle relative al mantenimento del condannato durante la custodia cautelare, sia dall’art. 150, comma 2, del d.P.R. n. 115 del 2002, ai sensi del quale «[l]a restituzione è concessa a condizione che prima siano pagate le spese per la custodia e la conservazione delle cose sequestrate». Tali disposizioni, inoltre, rivelerebbero la volontà del legislatore di collegare l’obbligo del pagamento all’accertamento della responsabilità penale dell’imputato, come, del resto, affermato dalla giurisprudenza di legittimità, che ha chiarito, in particolare, che il presupposto necessario e sufficiente perché sussista l’obbligo di pagamento delle spese processuali è la pronuncia di una sentenza di condanna (Corte di cassazione, sezione prima penale, 16 marzo 2016-21 novembre 2016, n. 49280).

 

In particolare, il rimettente, nel ricordare che il d.P.R. n. 115 del 2002 che disciplina la materia è un testo unico costituito da norme di natura legislativa e regolamentare e che l’art. 204 ha natura regolamentare, esclude la possibilità di ritenere inapplicabile la disposizione per effetto della prevalenza della fonte primaria costituita dall’art. 460, comma 5, cod. proc. pen., che prevede che «[i]l decreto penale di condanna non comporta la condanna al pagamento delle spese del procedimento». Ciò in base alla considerazione secondo cui l’art. 205 del d.P.R. n. 115 del 2002, disposizione primaria, nel rinviare a un decreto ministeriale per la determinazione delle spese processuali soggette a recupero «non può non avere richiamato, implicitamente ma chiaramente, anche la norma regolamentare del precedente art. 204». Del resto, aggiunge il giudice rimettente, la già richiamata giurisprudenza di legittimità si è espressa in tal senso, affermando che, in caso di decreto di condanna, l’obbligo al pagamento delle spese di custodia e conservazione dei beni sequestrati discende direttamente dalla legge, in base al combinato disposto degli artt. 204 e 150 del d.P.R. n. 115 del 2002.

 

Ciò posto, il giudice rimettente denuncia la violazione dell’art. 3 Cost. in quanto, ai sensi delle disposizioni censurate, «l’imputato condannato all’esito del giudizio ordinario o all’esito del giudizio abbreviato non è tenuto al pagamento delle spese di custodia e conservazione dei beni in sequestro, che non sono ricomprese tra quelle che per legge devono essere recuperate per intero, mentre chi riporta sentenza di applicazione [della] pena, nel limite di anni due di pena detentiva soli o congiunti a pena pecuniaria, o decreto penale di condanna, esentati rispettivamente ex art. 445, comma 1, e art. 460, comma 5, dal pagamento delle spese del procedimento − che non devono dunque pagare nemmeno nella misura forfettaria stabilita dal decreto ministeriale – devono però pagare le spese di custodia e conservazione del bene».

 

Quanto alla rilevanza delle questioni di costituzionalità, il rimettente osserva che la possibilità di rigettare la richiesta di integrazione del decreto di condanna inoltrata dall’ufficio recupero crediti potrebbe discendere solo dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate.

 

2.– Con atto depositato il 12 dicembre 2017 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili e, comunque, manifestamente infondate.

 

In punto di ammissibilità, l’Avvocatura dello Stato sostiene che il giudice a quo «non indica chiaramente le norme su cui fonda le censure né esprime con precisione quali disposizioni trovino applicazione nel giudizio sottoposto al suo vaglio». In particolare, secondo l’Avvocatura, il rimettente ha censurato gli artt. 205 e 204 del d.P.R. n. 115 del 2002 assumendo che il primo richiami il secondo, non considerando, invece, che, il collegamento va ricercato tra gli artt. 204 e 150 del citato d.P.R., dal cui combinato disposto scaturisce l’obbligo di pagare le spese di conservazione e custodia dei beni sequestrati in caso di sentenza e di decreto ai sensi degli artt. 445 e 460 cod. proc. pen. Tale carenza dell’ordinanza precluderebbe a questa Corte la possibilità di esercitare un controllo sulla rilevanza delle questioni.

 

Nel merito, l’Avvocatura sostiene, comunque, la non fondatezza delle questioni sollevate dissentendo dal presupposto interpretativo da cui muove il rimettente. Dopo aver ricordato il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui l’esenzione dal pagamento delle spese processuali prevista dal codice di procedura penale nei casi di pena patteggiata e di decreto penale di condanna va riferita alle spese processuali in senso stretto e non si estende alle spese di custodia dei beni sequestrati (Corte di cassazione, sezione prima penale, 26 aprile 2007-21 maggio 2007, n. 19687), l’Avvocatura dello Stato evidenzia che, in realtà, nessuna disposizione normativa prevede l’esenzione dal pagamento di tali spese per il condannato all’esito di un giudizio ordinario o speciale diverso dal patteggiamento e dal decreto penale. Dunque, non sussiste alcuna disparità di trattamento.

 

Considerato in diritto

 

1.− Con ordinanza del 3 luglio 2017 il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Venezia dubita della legittimità costituzionale dell’art. 205, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», nella parte in cui dispone che le spese del processo penale anticipate dall’erario sono recuperate nei confronti di ciascun condannato nella misura fissa stabilita con decreto del Ministro della giustizia, e dell’art. 204 dello stesso d.P.R., nella parte in cui prevede che, nel caso di decreto di condanna emesso ai sensi dell’art. 460 del codice di procedura penale, si procede al recupero delle spese per la custodia dei beni sequestrati.

 

Assume il giudice rimettente che tali disposizioni violano l’art. 3 della Costituzione sotto il profilo della disparità di trattamento, in quanto «l’imputato condannato all’esito del giudizio ordinario o all’esito del giudizio abbreviato non è tenuto al pagamento delle spese di custodia e conservazione dei beni in sequestro, che non sono ricomprese tra quelle che per legge devono essere recuperate per intero, mentre [coloro che riportano] sentenza di applicazione [della] pena, nel limite di anni due di pena detentiva soli o congiunti a pena pecuniaria, o decreto penale di condanna, esentati rispettivamente ex art. 445, comma 1, e art. 460, comma 5, [cod. proc. pen.] dal pagamento delle spese del procedimento − che non devono dunque pagare nemmeno nella misura forfettaria stabilita dal decreto ministeriale – devono però pagare le spese di custodia e conservazione del bene».

 

2.− Preliminarmente non può essere accolta l’eccezione di inammissibilità sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato.

 

Il giudice rimettente è chiamato a rettificare il decreto penale, non opposto, integrandolo con la condanna degli imputati al pagamento delle spese di custodia e conservazione del bene in sequestro; rettifica consentita in generale a norma dell’art. 130 cod. proc. pen. con riferimento alla sentenza di condanna che non abbia provveduto circa le spese (art. 535, comma 4, cod. proc. pen.) e plausibilmente ritenuta, dal giudice rimettente, possibile anche per integrare il decreto di condanna divenuto definitivo (così come si è affermato in giurisprudenza in caso di omessa statuizione in ordine alle spese di custodia dei beni sequestrati nella sentenza di applicazione della pena su richiesta: Corte di cassazione, sezione terza penale, 31 marzo 2016-7 luglio 2016, n. 28239). A tal fine il giudice deve fare applicazione delle disposizioni censurate che disciplinano il recupero delle spese processuali, sicché è di tutta evidenza la rilevanza dei dubbi di legittimità costituzionale che investono tale normativa in ragione della dedotta e asserita disparità di trattamento rispetto alla fattispecie della sentenza di condanna, la quale invece – assume il rimettente − non potrebbe contenere analoga condanna dell’imputato al pagamento delle spese di custodia e conservazione dei beni in sequestro.

 

Né l’ammissibilità delle questioni può ritenersi revocata in dubbio – come sostiene l’Avvocatura generale − per non aver il giudice rimettente compreso nella normativa censurata anche l’art. 150 del d.P.R. n. 115 del 2002, atteso che tale disposizione disciplina la restituzione dei beni sequestrati e non attiene alla possibilità, o no, di condanna dell’imputato al pagamento delle stesse; sicché non incide sulla rilevanza delle questioni di costituzionalità, ma appartiene solo al complessivo quadro normativo di riferimento.

 

3.− Le questioni sono ammissibili anche nella parte in cui investono, in particolare, l’art. 204 del d.P.R. n. 115 del 2002. È vero che tale disposizione – contenuta in un testo unico cosiddetto “misto”, quale il citato d.P.R., che raccoglie disposizioni normative sia primarie che subprimarie – ha origine in una norma regolamentare e conserva tale natura. Ma il suo contenuto fa corpo con il successivo art. 205, recante una norma di rango primario, e nel complesso le due disposizioni disciplinano congiuntamente aspetti del recupero delle spese processuali.

 

Questa Corte ha più volte affermato che «ove la regolamentazione censurata di illegittimità costituzionale sia rappresentata, nella sostanza, dal combinato disposto di una norma primaria e di una subprimaria e se la prima “risulta in concreto applicabile attraverso le specificazioni formulate nella fonte secondaria”, è possibile il sindacato di costituzionalità sulla norma primaria tenendo conto che quella subprimaria ne costituisce un “completamento del contenuto prescrittivo”» (sentenza n. 200 del 2018).

 

Anche nella fattispecie in esame sussiste questo nesso stretto di specificazione qualificata che lega la norma primaria (art. 205) e quella subprimaria (art. 204) perché entrambe le disposizioni censurate concorrono a disciplinare il recupero delle spese di giustizia in ordine al quale il giudice rimettente è chiamato a pronunciarsi.

 

4.− Nel merito le questioni non sono fondate nei termini che seguono.

 

5.− La regolamentazione delle spese di giustizia fa perno innanzi tutto sulla disposizione contenuta nel comma 1 dell’art. 535 cod. proc. pen., secondo cui «[l]a sentenza di condanna pone a carico del condannato il pagamento delle spese processuali»; norma questa che – novellata dall’art. 67, comma 2, lettera a), della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), che ha soppresso le parole «relative ai reati cui la condanna si riferisce», così ampliandone la portata − esprime una regola affatto generale secondo cui in ogni caso sul condannato grava anche l’obbligo di pagare le spese processuali che sono anticipate dallo Stato (ai sensi dell’art. 4 del d.P.R. n. 115 del 2002).

 

A questa regola, apporta un’eccezione, con riferimento al procedimento per decreto, il comma 5 dell’art. 460 cod. proc. pen. – come sostituito dall’art. 37, comma 2, lettera b), della legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice di procedura penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense) – prevedendo, in chiave incentivante di questo rito speciale che «[i]l decreto penale di condanna non comporta la condanna al pagamento delle spese del procedimento». Invece nella sua formulazione originaria il comma 2 della stessa disposizione prevedeva che «[c]on il decreto di condanna il giudice […] pone a carico del condannato le spese del procedimento», così inizialmente allineandosi alla regola generale del richiamato art. 535, comma 1.

 

Analoga eccezione è apportata dall’art. 445, comma 1, cod. proc. pen. per l’ipotesi di applicazione della pena su richiesta (cosiddetto patteggiamento), prevedendo che la sentenza «non comporta la condanna al pagamento delle spese del procedimento».

 

Si tratta, in entrambe le ipotesi, di un regime di favore (di tipo «premiale»: sentenza n. 219 del 2004) – della cui giustificatezza il giudice rimettente non dubita − previsto per questi due procedimenti speciali, semplificati e rapidi, che consentono di perseguire finalità acceleratorie e deflattive del processo penale.

 

Tale deroga di favore trova però, a sua volta, una limitazione nel censurato art. 204 che, al comma 3, prevede che nel caso di sentenza di applicazione della pena su richiesta (ai sensi dell’artt. 445 cod. proc. pen.) e di decreto di condanna (ai sensi dell’art. 460 cod. proc. pen.) si procede al recupero delle spese per la custodia dei beni sequestrati.

 

Pertanto, si ha che, a fronte della regola generale per cui tutti i condannati sono tenuti al pagamento delle spese processuali e quindi sono obbligati anche al pagamento delle spese di custodia dei beni sequestrati, espressamente indicate dall’art. 5 del d.P.R. n. 115 del 2002 tra le spese ripetibili, vi è un regime derogatorio di favore previsto per i condannati con decreto penale (o a seguito di applicazione della pena su richiesta) che sono esonerati dal pagamento delle spese del procedimento, ma non anche di quelle per la custodia dei beni sequestrati.

 

Questa regolamentazione si completa con l’art. 150, comma 2, del d.P.R. n. 115 del 2002 che prevede che la restituzione è concessa a condizione che prima siano pagate le spese per la custodia e la conservazione delle cose sequestrate, salvo che siano stati pronunciati provvedimento di archiviazione, sentenza di non luogo a procedere o sentenza di proscioglimento ovvero che le cose sequestrate appartengano a persona diversa dall’imputato o che il decreto di sequestro sia stato revocato.

 

6.− Il presupposto interpretativo da cui muove il giudice rimettente per fondare le sollevate questioni di legittimità costituzionale riguarda la quantificazione delle spese processuali.

 

Originariamente – secondo l’iniziale formulazione dell’art. 205 del d.P.R. n. 115 del 2002 − le spese processuali erano recuperate per intero, ad eccezione dei diritti e delle indennità di trasferta spettanti all’ufficiale giudiziario e delle spese di spedizione per la notificazione degli atti a richiesta dell’ufficio, che invece erano recuperati nella misura fissa stabilita con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro della giustizia. Quindi, le spese per la custodia dei beni sequestrati, non rientrando tra quelle recuperate in misura fissa, erano liquidate per intero, sia allorché poste a carico “in generale” del condannato (ai sensi dell’art. 535, comma 1, cod. proc. pen.), sia quando anche il condannato per decreto ex art. 460 cod. proc. pen. (o a seguito di applicazione della pena su richiesta ex art. 445 cod. proc. pen.) ne era obbligato al pagamento.

 

Sotto questo profilo specifico, la disciplina di queste spese (quelle di custodia dei beni sequestrati) allineava, parificandole, la situazione ordinaria del condannato, in generale tenuto al pagamento delle spese processuali, e quella del condannato per decreto (o a seguito di patteggiamento) che invece, come trattamento di favore, non era tenuto, per il resto, al pagamento delle spese stesse; ciò secondo una scelta discrezionale del legislatore: anche se «[n]essuna norma della Costituzione impone […] che lo Stato esiga dal condannato il rimborso delle spese del processo penale […], quella delle spese processuali è materia nella quale il legislatore, salvo il limite della ragionevolezza, è dotato della più ampia discrezionalità» (sentenza n. 98 del 1998).

 

Il citato art. 205, però, è stato novellato dall’art. 67, comma 3, lettera e), numero 2), della legge n. 69 del 2009, che ha previsto che le spese del processo penale anticipate dall’erario sono recuperate nei confronti di ciascun condannato, senza vincolo di solidarietà, nella misura fissa stabilita con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze. Sono, invece, recuperate per intero le spese per la consulenza tecnica e per la perizia, per la pubblicazione della sentenza penale di condanna, per la demolizione di opere abusive e per la riduzione in pristino dei luoghi, nonché quelle relative alle prestazioni previste dall’art. 96 del decreto legislativo 1º agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche), e quelle funzionali all’utilizzo delle prestazioni medesime.

 

Questa nuova regolamentazione ha poi trovato attuazione nel decreto del Ministro della giustizia 10 giugno 2014, n. 124 (Regolamento recante disposizioni in materia di recupero delle spese del processo penale), che ha previsto distintamente il recupero forfettizzato e quello per intero o per quota. In particolare, l’art. 1 ha prescritto che le spese del processo penale anticipate dall’erario sono recuperate nella misura fissa stabilita nella «Tabella A» allegata allo stesso decreto. L’art. 2 ha stabilito che le spese del processo penale anticipate dall’erario per la consulenza tecnica e per la perizia, per la pubblicazione della sentenza penale di condanna e per la demolizione di opere abusive e la riduzione in pristino dei luoghi, di cui all’art. 205, comma 2, ultimo periodo, del d.P.R. n. 115 del 2002, sono recuperate dal condannato nella loro interezza.

 

7.− La criticità, evidenziata dal giudice rimettente e assunta a presupposto interpretativo delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, sorge proprio a seguito della nuova formulazione dell’art. 205, perché da una parte il recupero delle spese di custodia dei beni sequestrati non è espressamente previsto nella Tabella A del d.m. n. 124 del 2014, sì da non risultare determinato in modo forfettario secondo il criterio dell’art. 1 dello stesso decreto (come già in passato nella precedente formulazione dell’art. 205); ma d’altra parte tali spese non rientrano neppure nell’enumerazione di quelle previste dal successivo art. 2 per le quali il recupero è fissato per l’intero o per quota.

 

Orbene, in disparte l’ipotesi in cui il condannato richieda, ottenendola, la restituzione delle cose in sequestro – la quale è sempre condizionata, ai sensi dell’art. 150 citato, al previo pagamento delle spese di custodia –, nel caso invece in cui il bene in sequestro sia restituito ad altri aventi diritto non obbligati a tale previo pagamento – così come si è verificato nella specie per quanto riferisce il giudice rimettente – si pone il problema della sorte di tali spese. Peraltro, analogo interrogativo si porrebbe anche in caso di confisca delle cose in sequestro, ma il rimettente espressamente esclude questa fattispecie dalle questioni di costituzionalità perché non rilevante nel giudizio a quo.

 

Tale carenza normativa induce il giudice rimettente a trarre dalla novellazione dell’art. 205 una conseguenza solo apparentemente coerente, ma in realtà asistematica e illogica.

 

Si ha, infatti, che dalla mancata espressa previsione del criterio, forfettario (art. 1 del citato decreto ministeriale) o per intero (art. 2 del suddetto decreto), per quantificare le spese di custodia e conservazione delle cose in sequestro il rimettente fa discendere una regola di generalizzato esonero dall’obbligo per il condannato di pagare tali spese, così operando un’indebita commistione tra il quantum debeatur, che per una indubbia carenza normativa, è rimasto non espressamente normato, e l’an debeatur, che continua invece a trovare un preciso riferimento normativo nella già richiamata regola generale dell’art. 535, comma 1, cod. proc. pen.

 

In generale, nel giudizio incidentale di costituzionalità, anche se il presupposto interpretativo da cui muove il giudice rimettente va verificato alla stregua di un mero canone di plausibilità, deve invece privilegiarsi l’interpretazione adeguatrice della disposizione censurata ogni qual volta ciò consenta di evitare la violazione di un parametro costituzionale.

 

Ed è ciò che è possibile fare nella fattispecie in esame.

 

Secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata del novellato art. 205, cui occorre accedere perché non sia violato il principio di eguaglianza come denunciato dal giudice rimettente, l’ampia estensione delle ipotesi di forfettizzazione delle spese processuali non può significare – per una (assunta) inferenza a contrario − esonero del condannato dal pagamento di quelle spese per le quali non sia espressamente prevista né tale forfettizzazione secondo il disposto dell’art. 1 del citato d.m., né il recupero per intero o per quota secondo l’art. 2 del medesimo decreto. Si avrebbe, altrimenti, un ingiustificato regime differenziato, nel senso che in generale le spese di custodia dei beni sequestrati non sarebbero, per il condannato, oggetto dell’obbligo di pagamento, laddove – inspiegabilmente e irragionevolmente – lo sarebbero nelle ipotesi di condanna per decreto penale o di applicazione della pena su richiesta. Solo in queste ipotesi il condannato sarebbe gravato dall’obbligo di pagarle con palese contraddittorietà rispetto alla già richiamata disciplina speciale di favore che espressamente esonera il condannato per decreto (o in caso di patteggiamento) dall’obbligo di pagare le spese di giustizia.

 

Invece, la perdurante regola generale, che rimane pur sempre quella (ai sensi dell’art. 535, comma 1, cod. proc. pen.) che pone a carico di tutti i condannati l’obbligo del pagamento delle spese processuali con le sole eccezioni della condanna per decreto e del patteggiamento, consente un’interpretazione adeguatrice del novellato art. 205 nel senso che tale disposizione, letta congiuntamente al precedente art. 204 e agli artt. 1 e 2 del citato decreto ministeriale, ha solo ampliato, seppur notevolmente, il catalogo delle spese processuali forfettizzate, ma non ha alterato la regola generale, la quale – con le limitate due eccezioni suddette – è operante senza essere scalfita dalla mancata espressa previsione del quantum debeatur limitatamente alle spese di conservazione delle cose in sequestro.

 

Il primo comma dell’art. 205 va letto alla luce dell’art. 1 del d.m. n. 124 del 2014: vi è una serie nominata di spese processuali, elencate della Tabella A del decreto ministeriale, che sono quantificate in misura fissa; ma proprio perché sono elencate le ipotesi nominate soggette a tale criterio, questo non può assurgere a regola generale, che non si concilia con la tecnica dell’enumerazione.

 

Il secondo comma dello stesso art. 205 pure contiene un’elencazione, ma – letta tale disposizione in combinato disposto con l’art. 535, comma 1, cod. proc. pen. e con la già richiamata regola generale che vuole che le spese processuali siano a carico del condannato – deve ritenersi (con interpretazione adeguatrice) che si tratta di elencazione non tassativa. Quindi il criterio residuale è quello del recupero delle spese processuali, quali esse siano, ossia per l’intero, sicché le spese di custodia delle cose in sequestro, non essendo contenute nell’elenco delle spese forfettizzate (di cui all’art. 1 del citato d.m.), non possono che gravare, per l’intero, a carico dell’imputato.

 

Una conferma dell’interpretazione adeguatrice è nella regola, posta dall’art. 2, comma 2, del d.m. n. 124 del 2014, secondo cui fino all’emanazione del decreto ministeriale previsto dall’art. 205, comma 2-bis, del d.P.R. n. 115 del 2002, il recupero delle spese relative alle prestazioni previste dall’art. 96 del d.lgs. n. 259 del 2003 e di quelle funzionali all’utilizzo delle prestazioni medesime è operato nella loro interezza. Ossia, il recupero per l’intero costituisce criterio generale di chiusura, operante fino a quando non ne sia previsto uno diverso.

 

Del resto – a ulteriore conferma dell’interpretazione accolta – c’è che quando è il condannato a ottenere la restituzione delle cose in sequestro, deve prima pagare le spese di custodia – secondo il chiaro dettato del citato art. 150 del d.P.R. n. 115 del 2002 – e ciò non può fare altrimenti che per l’intero e non già in misura fissa (forfettizzata).

 

8.− In conclusione, va corretto, in chiave di interpretazione adeguatrice, il presupposto dal quale muove il giudice rimettente: anche il condannato, in generale, è tenuto al pagamento delle spese di custodia dei beni in sequestro, sicché non sussiste la denunciata disparità di trattamento con riguardo al condannato per decreto che parimenti è tenuto allo stesso obbligo di pagamento.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 204 e 205, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», sollevate, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Venezia con l’ordinanza indicata in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 dicembre 2018.

 

F.to:

 

Giorgio LATTANZI, Presidente

 

Giovanni AMOROSO, Redattore

 

Roberto MILANA, Cancelliere

 

Depositata in Cancelleria il 9 gennaio 2019.