Ordinanza n. 202 del 2018

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ORDINANZA N. 202

ANNO 2018

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Giorgio                LATTANZI                                        Presidente

- Aldo                    CAROSI                                               Giudice

- Marta                   CARTABIA                                               ”

- Giuliano               AMATO                                                     ”

- Silvana                 SCIARRA                                                  ”

- Daria                    de PRETIS                                                 ”

- Nicolò                  ZANON                                                     ”

- Franco                  MODUGNO                                              ”

- Augusto Antonio BARBERA                                                ”

- Giovanni              AMOROSO                                               ”

- Francesco             VIGANÒ                                                   ”

- Luca                     ANTONINI                                                ”

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 545, commi terzo, quarto e ottavo, del codice di procedura civile, promossi dal Tribunale ordinario di Chieti e dal Tribunale ordinario di Trento, in funzione di giudici dell’esecuzione, con ordinanze del 14 e del 6 febbraio 2017, iscritte rispettivamente ai nn. 106 e 143 del registro ordinanze 2017 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 34 e 42, prima serie speciale, dell’anno 2017.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 26 settembre 2018 il Giudice relatore Aldo Carosi.

Ritenuto che il Tribunale ordinario di Chieti, in funzione di giudice dell’esecuzione, con ordinanza del 14 febbraio 2017, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 545, terzo e quarto comma, del codice di procedura civile in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, nella parte in cui non prevedono l’impignorabilità assoluta di quella parte della retribuzione necessaria a garantire al lavoratore i mezzi indispensabili alle sue esigenze di vita, nonché per la disparità di trattamento che si verrebbe a determinare tra il pignoramento della retribuzione effettuato alla fonte presso il datore di lavoro e quello effettuato sulle stesse somme confluite sul conto corrente anteriormente al pignoramento;

che, secondo quanto riferito dal giudice a quo, le questioni sono sorte nell’ambito di una procedura esecutiva promossa da Banca Coopcredito scarl, ai danni di L. L., debitore della somma di euro 3.879,66, per compensi professionali, in seguito alla sua condanna a rifondere alla controparte le spese di giudizio come stabilito nella sentenza del Tribunale ordinario di Chieti n. 61 del 2013;

che il terzo pignorato, datore di lavoro dell’esecutato, ha reso dichiarazione positiva del suo obbligo di corrispondere al medesimo uno stipendio mensile di euro 538,00 (al netto delle ritenute previste dalla legge);

che il rimettente dubita della legittimità costituzionale dell’art. 545, terzo e quarto comma, cod. proc. civ., nella parte in cui non prevedono l’impignorabilità assoluta di quella parte della retribuzione necessaria a garantire al lavoratore i mezzi indispensabili alle sue esigenze di vita e in relazione al diverso trattamento riservato al pignoramento di somme dovute a titolo di pensioni o di indennità che tengono luogo a pensioni, per effetto sia della sentenza n. 506 del 2002 di questa Corte, sia della sopravvenienza dell’art. 13, comma 1, lettera l), del decreto-legge 27 giugno 2015, n. 83 (Misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell’amministrazione giudiziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2015, n. 132, il quale ha aggiunto, tra l’altro, all’art. 545 cod. proc. civ, un settimo comma, secondo il quale «[l]e somme da chiunque dovute a titolo di pensione, di indennità che tengono luogo di pensione o di altri assegni di quiescenza, non possono essere pignorate per un ammontare corrispondente alla misura massima mensile dell’assegno sociale, aumentato della metà. La parte eccedente tale ammontare è pignorabile nei limiti previsti dal terzo, quarto e quinto comma nonché dalle speciali disposizioni di legge»;

che lo stesso giudice rimettente deduce anche la violazione del principio di eguaglianza, per la disparità di trattamento che si verrebbe a determinare tra il pignoramento della retribuzione effettuato alla fonte presso il datore di lavoro e quello effettuato sulle stesse somme confluite sul conto corrente anteriormente al pignoramento, come previsto dal medesimo art. 545, ottavo comma, primo periodo – parimenti introdotto dall’art. 13, comma 1, lettera l), del d.l. n. 83 del 2015, come convertito –, il quale dispone che «[l]e somme dovute a titolo di stipendio, salario, altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, nonché a titolo di pensione, di indennità che tengono luogo di pensione, o di assegni di quiescenza, nel caso di accredito su conto bancario o postale intestato al debitore, possono essere pignorate, per l’importo eccedente il triplo dell’assegno sociale, quando l’accredito ha luogo in data anteriore al pignoramento»;

che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, sostenendo l’inammissibilità e, comunque, la non fondatezza delle questioni sollevate;

che il Tribunale ordinario di Trento, in funzione di giudice dell’esecuzione, con ordinanza del 6 febbraio 2017 ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 545, quarto e ottavo comma, cod. proc. civ., in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 4 e 36 Cost., nella parte in cui non prevedono l’impignorabilità assoluta della retribuzione al di sotto del minimo vitale, nonché per la disparità di trattamento che si verrebbe a determinare tra il pignoramento della retribuzione effettuato alla fonte presso il datore di lavoro e quello effettuato sulle stesse somme confluite sul conto corrente successivamente al pignoramento;

che, secondo quanto riferito dal giudice a quo, le questioni sono sorte nell’ambito di una procedura esecutiva promossa da M. M. nei confronti di L. P. con pignoramento presso terzi per un credito di euro 19.101,28;

che il terzo pignorato, la G. G. snc, ha reso dichiarazione positiva del suo obbligo di corrispondere all’esecutato uno stipendio mensile di circa euro 900,00, al netto delle ritenute previste dalla legge;

che, dovendo applicarsi il regime di pignorabilità degli stipendi e altri emolumenti riguardanti il rapporto di lavoro, ai sensi dell’art. 545, quarto comma, cod. proc. civ., lo stipendio di L. P. sarebbe pignorabile fino a un quinto, per cui residuerebbero al debitore euro 720,00 da destinare alla sua sopravvivenza, non risultando agli atti che questi disponga di altre fonti di sostentamento;

che, pertanto, secondo il giudice a quo, l’art. 545, quarto comma, cod. proc. civ., nella parte in cui non prevede l’impignorabilità assoluta di quella parte della retribuzione necessaria a garantire al lavoratore i mezzi indispensabili alle sue primarie esigenze di vita e una retribuzione «in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla famiglia una esistenza libera e dignitosa», violerebbe gli artt. 1, 2, 3 e 36 Cost., con particolare riferimento alle esigenze di un reddito minimo che gli consenta di sostenere le spese necessarie al suo stesso sostentamento in vita e in condizioni adeguate a consentirgli la stessa produzione di un reddito;

che, inoltre, secondo il Tribunale ordinario di Trento, l’introduzione del nuovo ottavo comma nell’art. 545 cod. proc. civ. determinerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento delle retribuzioni, a seconda che siano pignorati i crediti retributivi (ai sensi dell’art. 545, quarto comma, cod. proc. civ.) o, invece, le somme relative una volta che le medesime siano confluite nel conto corrente bancario o postale, e tanto in ragione del combinato disposto dei commi settimo e ottavo dell’art. 545 cod. proc. civ., che limiterebbe la base di calcolo del quinto alla differenza tra quanto percepito e il minimo vitale stabilito dal settimo comma del medesimo articolo;

che, prosegue il rimettente, tale ingiustificata disparità si avvertirebbe ancor più per le retribuzioni di importo meno elevato, come quella percepita dall’esecutato (pari a circa euro 900,00), tenuto conto che l’art. 12 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, impone che siano corrisposti con il versamento in conto corrente bancario o postale solo gli stipendi superiori a euro 1.000,00, sicché soltanto qualora il loro pagamento avvenga con tali modalità il lavoratore potrebbe approfittare del trattamento maggiormente favorevole riservato appunto alle somme versate in conto corrente;

che, pertanto, il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale dell’art. 545, ottavo comma, cod. proc. civ., nella parte in cui non prevede che gli stessi limiti posti alla pignorabilità delle somme versate in conto corrente (per effetto del pagamento pro rata di retribuzioni o di pensioni), contemporaneamente o successivamente al pignoramento, debbano valere anche per il pignoramento dei crediti retributivi presso il datore di lavoro, per i quali invece restano vigenti le limitazioni di cui all’art. 545, quarto comma, cod. proc. civ.;

che anche in questo giudizio ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo l’inammissibilità e, comunque, l’infondatezza delle questioni sollevate.

Considerato che il Tribunale ordinario di Chieti, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 545, terzo e quarto comma, del codice di procedura civile, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, nella parte in cui non prevedono l’impignorabilità assoluta di quella parte della retribuzione necessaria a garantire al lavoratore i mezzi indispensabili alle sue esigenze di vita, nonché per la disparità di trattamento che si verrebbe a determinare tra il pignoramento della retribuzione effettuato alla fonte presso il datore di lavoro e quello effettuato sulle stesse somme confluite sul conto corrente anteriormente al pignoramento;

che, secondo il rimettente, sussisterebbe una disparità di trattamento in relazione al diverso regime riservato al pignoramento di somme dovute a titolo di pensioni o di indennità che tengono luogo a pensioni, per effetto sia della sentenza n. 506 del 2002 di questa Corte, sia della sopravvenienza dell’art. 13, comma 1, lettera l), del decreto-legge 27 giugno 2015, n. 83 (Misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell’amministrazione giudiziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2015, n. 132, il quale ha aggiunto, tra l’altro, all’art. 545 cod. proc. civ un settimo comma, secondo il quale «[l]e somme da chiunque dovute a titolo di pensione, di indennità che tengono luogo di pensione o di altri assegni di quiescenza, non possono essere pignorate per un ammontare corrispondente alla misura massima mensile dell’assegno sociale, aumentato della metà. La parte eccedente tale ammontare è pignorabile nei limiti previsti dal terzo, quarto e quinto comma nonché dalle speciali disposizioni di legge»;

che lo stesso rimettente deduce anche la violazione del principio di eguaglianza, per la disparità di trattamento che si verrebbe a determinare tra il pignoramento della retribuzione effettuato alla fonte presso il datore di lavoro e quello effettuato sulle stesse somme confluite sul conto corrente bancario o postale anteriormente al pignoramento come previsto dal medesimo art. 545, ottavo comma, primo periodo – parimenti introdotto dall’art. 13, comma 1, lettera l), del d.l. n. 83 del 2015 – il quale dispone che «[l]e somme dovute a titolo di stipendio, salario, altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, nonché a titolo di pensione, di indennità che tengono luogo di pensione, o di assegni di quiescenza, nel caso di accredito su conto bancario o postale intestato al debitore, possono essere pignorate, per l’importo eccedente il triplo dell’assegno sociale, quando l’accredito ha luogo in data anteriore al pignoramento»;

che il Tribunale ordinario di Trento, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 545, quarto e ottavo comma, cod. proc. civ., in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 4 e 36 Cost., nella parte in cui non prevedono l’impignorabilità assoluta della retribuzione al di sotto del minimo vitale, nonché per la disparità di trattamento che si verrebbe a determinare tra il pignoramento della retribuzione effettuato alla fonte presso il datore di lavoro e quello effettuato sulle stesse somme confluite sul conto corrente successivamente al pignoramento;

che, pertanto, secondo il giudice a quo, l’art. 545, quarto comma, cod. proc. civ., nella parte in cui non prevede l’impignorabilità assoluta di quella parte della retribuzione necessaria a garantire al lavoratore i mezzi indispensabili alle sue primarie esigenze di vita e una retribuzione «in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla famiglia una esistenza libera e dignitosa», violerebbe gli artt. 1, 2, 3, 4 e 36 Cost., con particolare riferimento alle esigenze di un reddito minimo che gli consenta di sostenere le spese minime necessarie al suo stesso sostentamento in vita e in condizioni adeguate a consentirgli la stessa produzione di un reddito;

che, inoltre, secondo il Tribunale ordinario di Trento, l’introduzione del nuovo ottavo comma nell’art. 545 cod. proc. civ. determinerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento delle retribuzioni, a seconda che siano pignorati i crediti retributivi (ai sensi dell’art. 545, quarto comma, cod. proc. civ.) o invece le somme relative, una volta che le medesime siano confluite in conto corrente bancario o postale, e tanto in ragione del combinato disposto dei commi settimo e ottavo dell’art. 545 cod. proc. civ., che limiterebbe la base di calcolo del quinto alla differenza tra quanto percepito e il minimo vitale stabilito dal settimo comma del medesimo articolo;

che, inoltre, tale ingiustificata disparità si avvertirebbe ancor più per le retribuzioni di importo meno elevato, come quella percepita dall’esecutato (pari a circa euro 900,00), tenuto conto che l’art. 12 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, impone che siano corrisposti con il versamento in conto corrente bancario o postale solo gli stipendi superiori a euro 1.000,00, sicché soltanto qualora il loro pagamento avvenga con tali modalità il lavoratore potrebbe approfittare del trattamento maggiormente favorevole riservato alle somme versate in conto corrente;

che, pertanto, il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale dell’art. 545, ottavo comma, cod. proc. civ., nella parte in cui non prevede che gli stessi limiti posti alla pignorabilità delle somme versate nel conto corrente (per effetto del pagamento pro rata di retribuzioni o di pensioni), contemporaneamente o successivamente al pignoramento, debbano valere anche per il pignoramento dei crediti retributivi presso il datore di lavoro, per i quali invece restano vigenti le limitazioni di cui all’art. 545, quarto comma, cod. proc. civ.;

che, in considerazione della parziale sovrapponibilità delle disposizioni censurate e dei parametri evocati, nonché delle analoghe considerazioni svolte dai rimettenti, i due giudizi possono essere uniti per essere definiti con unica decisione;

che le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 545, terzo comma, cod. proc. civ., sollevate dal Tribunale ordinario di Chieti risultano manifestamente inammissibili, in quanto il rimettente ha omesso completamente di indicare le ragioni per cui la norma censurata, che concerne il caso del pignoramento di stipendi e pensioni per crediti alimentari, debba applicarsi nel giudizio a quo, né ha spiegato adeguatamente perché la decisione sulla questione di legittimità costituzionale sollevata risulti pregiudiziale ai fini della definizione del giudizio principale;

che le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 545, quarto e ottavo comma, cod. proc. civ., sollevate dal Tribunale ordinario di Trento in riferimento agli artt. 1, 2, e 4 Cost., sono manifestamente inammissibili, in quanto prive di un’argomentazione esaustiva delle ragioni del preteso contrasto con i parametri evocati;

che le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 545, ottavo comma, cod. proc. civ., sollevate dal Tribunale ordinario di Trento in riferimento all’art. 3 Cost., laddove, con riguardo alle somme confluite in conto corrente (per effetto del pagamento pro rata di retribuzioni o di pensioni), contemporaneamente o successivamente al pignoramento, la norma censurata prevede che «[…] quando l’accredito ha luogo alla data del pignoramento o successivamente, le predette somme possono essere pignorate nei limiti previsti dal terzo, quarto, quinto e settimo comma, nonché dalle speciali disposizioni di legge», sono manifestamente inammissibili per aberratio ictus, in quanto la norma concerne il pignoramento delle somme confluite nel conto corrente quando terzo pignorato è l’istituto bancario o postale, in forza del rapporto di conto corrente esistente tra l’istituto e l’esecutato, mentre nel giudizio a quo il creditore procedente ha pignorato il credito retributivo presso il datore di lavoro, in ragione del diverso rapporto di lavoro tra questi e il lavoratore esecutato;

che, quindi, il Tribunale ordinario di Trento non deve fare alcuna applicazione dell’art. 545, ottavo comma, cod. proc. civ., ma solamente dell’art. 545, quarto comma, cod. proc. civ., sicché questi avrebbe dovuto impugnare il quarto comma e – semmai – evocare il successivo ottavo comma come tertium comparationis;

che, comunque, la predetta questione è manifestamente inammissibile, per l’evidente errore commesso dal giudice rimettente sul presupposto interpretativo, in quanto l’art. 545, ottavo comma, cod. proc. civ., nel disciplinare il regime di pignorabilità delle somme confluite nel conto corrente bancario o postale, siccome derivanti da pensioni o retribuzioni, non estende alle medesime la regola contenuta nel settimo comma dell’art. 545 cod. proc. civ., che determina l’impignorabilità assoluta delle pensioni per un ammontare corrispondente alla misura massima mensile dell’assegno sociale aumentato della metà, poiché il richiamo cumulativo ai commi terzo, quarto e settimo sottintende il riferimento alle rispettive discipline per i diversi crediti ivi considerati;

che, quindi, al contrario di quanto assume il giudice a quo, il legislatore non intende estendere alle somme confluite sul conto per il pagamento pro rata delle retribuzioni il diverso trattamento riservato ai soli crediti pensionistici;

che tale erronea e incompleta ricostruzione del quadro normativo di riferimento inficia l’iter logico-argomentativo posto a base della valutazione di non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata, determinandone la manifesta inammissibilità (ex multis, ordinanze n. 136 del 2018, n. 88 del 2017 e n. 209 del 2015);

che le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 545, quarto comma, cod. proc. civ., sollevate da entrambi i rimettenti in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost., coincidono con quelle dichiarate non fondate dalla sentenza n. 248 del 2015 di questa Corte;

che tale sentenza ha precisato, tra l’altro, che «la tutela della certezza dei rapporti giuridici, in quanto collegata agli strumenti di protezione del credito personale, non consente di negare in radice la pignorabilità degli emolumenti ma di attenuarla per particolari situazioni la cui individuazione è riservata alla discrezionalità del legislatore», mentre, con riguardo alla questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., sia in relazione al regime di impignorabilità delle pensioni, sia – in via subordinata – all’art. 72-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), le argomentazioni del giudice rimettente non sono state condivise «in ragione della eterogeneità dei tertia comparationis rispetto alla disposizione impugnata» e che «[…] non può essere esteso ai crediti retributivi – come pretenderebbe il rimettente – quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 506 del 2002 con riguardo alla pignorabilità delle pensioni: proprio detta sentenza – come già rilevato – esclude la estensibilità della fattispecie ai crediti di lavoro per la diversa configurazione della tutela prevista dall’art. 38 rispetto a quella dell’art. 36 Cost.»;

che, anche in ordine alla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Trento in riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento, questa Corte ha già chiarito nella citata sentenza n. 248 del 2015 che la nuova disciplina introdotta dal d.l. n. 83 del 2015, concernente la pignorabilità delle somme confluite in conto corrente per effetto del pagamento pro rata di retribuzioni o pensioni, non può costituire un idoneo tertium comparationis, in quanto «[c]iò è inconfutabile indizio del fatto che – nell’ambito delle soluzioni costituzionalmente conformi, cioè caratterizzate dal bilanciamento tra le ragioni del credito e quelle del percettore di redditi di lavoro esigui – il legislatore sta esercitando la sua discrezionalità in modo articolato, valorizzando gli elementi peculiari delle singole situazioni giuridiche piuttosto che una riconduzione a parametri uniformi»;

che pertanto, alla luce di quanto evidenziato, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 545, quarto comma, cod. proc. civ., in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost., devono essere dichiarate manifestamente infondate.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi;

1) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 545, terzo comma, del codice di procedura civile, sollevate dal Tribunale ordinario di Chieti, in funzione di giudice dell’esecuzione, in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost., con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 545, quarto e ottavo comma, cod. proc. civ., sollevate dal Tribunale ordinario di Trento, in funzione di giudice dell’esecuzione, in riferimento agli artt. 1, 2 e 4 Cost., con l’ordinanza indicata in epigrafe;

3) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 545, ottavo comma, cod. proc. civ., sollevate dal medesimo Tribunale ordinario di Trento, in riferimento all’art. 3 Cost., con l’ordinanza indicata in epigrafe;

4) dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 545, quarto comma, cod. proc. civ., sollevate dal medesimo Tribunale ordinario di Trento, in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost., con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 settembre 2018.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Aldo CAROSI, Redattore

Filomena PERRONE, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 15 novembre 2018.